Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 11 settembre 2014, n. 37475
Motivi della decisione
1. All’esito di giudizio ordinario celebrato nei confronti di sette appartenenti alla Polizia di Stato il Tribunale di Teramo con sentenza del 30.11.2006 ha dichiarato – tra gli altri – S.P. , M.D. e D.S.G.P. colpevoli dei delitti di concussione continuata loro rispettivamente ascritti, commessi tutti (in alcuni casi in concorso con coimputati) in danno di C.L. dal (…) fino alla fine del (…), e li ha condannati, concesse le attenuanti generiche, alla pena di tre anni e sei mesi di reclusione ciascuno.
1.1. Condotte criminose ricostruite dalla sentenza di primo grado nei loro sviluppi ed attuate in modo sistematico e prolungato nei confronti di C.L. , amministratore della società Inerti Lapidis s.n.c. di Teramo operante nel settore della lavorazione e trasporto di materiali estrattivi inerti (ghiaia, sabbia, argille) con numerosi dipendenti e otto mezzi pesanti in continua circolazione tra Abruzzo e Marche, da agenti di polizia in servizio presso la sezione di Polizia Stradale di Ascoli Piceno e altri analoghi reparti. Condotte scaturite – come narrato nell’estate del (…) da D.P.B. , dipendente della società alla funzionaria di polizia sua amica R.A. (che riferendo i fatti ai superiori ha dato origine alle investigazioni) e come poi chiarito nella successiva denuncia del C. – fin dal 1998, allorché un autoarticolato del C. è controllato da una pattuglia della Stradale più volte nello stesso giorno e il cui capopattuglia, poi identificato per l’imputato G.A. , in risposta alle rimostranze dell’autista del mezzo gli comunica che “il suo padrone sa cosa deve fare” per evitare i controlli su strada ai suoi veicoli.
Messaggio prontamente riferito dall’autista al C. , che vi coglie una chiara allusione alla pretesa di prebende pecuniarie del poliziotto. Allusione divenuta certezza quando alcuni giorni dopo proprio l’agente G. si presenta nel cantiere della società e, riprendendo il “discorso” iniziato con l’autista, gli fa capire con giri di parole come, “pagando qualcosa”, avrebbe potuto rendere i controlli ai suoi automezzi “meno pressanti”. C. , preoccupato e memore dell’episodio dei pretestuosi controlli al suo autocarro e dei ritardi derivatine nell’attività aziendale, comprende che, per non aver noie e poter lavorare senza l’assillo di continui controlli ai mezzi della ditta circolanti su strada, deve sottostare alla richiesta del pubblico ufficiale.
Da qui inizia una ininterrotta periodica trafila di agenti di polizia, non solo della locale polizia stradale, che si presentano (in coppia o da soli; in servizio o fuori dal servizio; con veicoli d’istituto o veicoli privati e perfino in compagnia di fidanzate o altre persone) presso il cantiere della ditta del C. , dal quale – dopo un rapido scambio di battute – ricevono somme di denaro volta a volta oscillanti tra i 50 o i 100 Euro. Come plasticamente precisa la sentenza del Tribunale (p. 12), “da quel giorno per una sorta di passa parola non solo G. ma anche altri poliziotti della zona (Ascoli, Giulianova, Teramo) si portano periodicamente dalla parte offesa e ricevono piccole somme di denaro (100.000 lire, poi 50 Euro) alla volta per ciascun poliziotto”. In altri termini gli imputati instaurano una vera e propria “prassi” comportamentale (come la definisce il C. ), che si protrae per anni fino alla denuncia della seconda metà del (…), da cui il C. si era astenuto prima che la p.g. avviasse le indagini sui fatti per spirito di sottomissione e per timore di ritorsioni o danni di vario genere anche personali ai suoi familiari e ai suoi interessi economici (“…magari si mettono lì ogni mattina, fanno perdere del tempo agli operai [conducenti dei camion della società, n.d.r.] che lo devo pagare comunque”).
1.2. Le prove dei descritti fatti criminosi sono state considerate dai giudici del Tribunale univoche e convergenti alla luce degli esiti delle indagini preliminari ritualmente trasfusi nel compendio conoscitivo dibattimentale e dei molteplici dati informativi, in più casi reciprocamente riscontrantisi, acquisiti attraverso la stessa articolata istruttoria dibattimentale.
In particolare gli episodi criminosi più recenti ascritti ai tre attuali imputati sono stati adeguatamente provati, a giudizio del Tribunale: a) dal sistema di videoriprese installato, previa autorizzazione del procedente p.m., presso il cantiere della società del C. , con cui – unitamente al sistema di videosorveglianza della stessa società – sono stati registrati, dal settembre a tutto il (omissis) , gli accessi dei poliziotti (individuati anche in base alle targhe dei veicoli in loro uso) i loro brevi incontri con il C. e la contestuale consegna di denaro da parte dello stesso C. ; episodi denotanti una consuetudine “concussiva” che avvalora l’esistenza di altri analoghi episodi criminosi precedenti quelli fissati dalle videoriprese; b) dall’esame della persona offesa C. , che anche in dibattimento ha proceduto a ricognizioni personali o fotografiche degli imputati presenti nelle videoriprese (i relativi filmati sono stati anch’essi visionati nel corso del dibattimento alla presenza delle parti); c) dalle dichiarazioni degli ufficiali di p.g. che hanno eseguito le indagini (ispettori p.s. Gi. e T. ) e di altri funzionari di polizia; d) dalle testimonianze, tutte confermative della narrazione della p.o. C. , della figlia dello stesso (D. ), del socio del C. , P.D. e della figlia M. impiegata presso la società; e) dalla mancanza di qualsiasi spiegazione alternativa dei fatti da parte degli imputati, che non hanno accettato di sottoporsi all’esame richiesto dal p.m. (il solo S. avendo reso spontanee dichiarazioni al termine del dibattimento).
2. Giudicando sulle impugnazioni degli imputati, la Corte di Appello dell’Aquila con sentenza del 19.4.2012 ha confermato in punto di responsabilità la decisione di primo grado, riformandola unicamente con riguardo al trattamento punitivo inflitto ai tre imputati, che ha mitigato con la concessione della ulteriore attenuante del danno patrimoniale lieve ex art. 62 n. 4 c.p. (per la “oggettiva modestia di ogni singola dazione di denaro”), così riducendola a due anni e sei mesi di reclusione ciascuno e dichiarandola interamente condonata (L. 31.7.2006 n. 241).
2.1. Ribadito che le dichiarazioni accusatorie del C. hanno ricevuto pieno riscontro nella oggettività dei filmati eseguiti in corso di indagini e nelle testimonianze di numerose altre persone, i giudici di appello – sulla base di una rinnovata e autonoma analisi delle risultanze processuali – hanno ripercorso in dettaglio le specifiche posizioni dei tre imputati, riaffermando l’univocità degli elementi di prova a carico di ciascuno.
Per il S. (capo 2 della rubrica) i filmati registrano episodi avvenuti il (omissis) e il (omissis), nei quali l’imputato si reca nel cantiere della Inerti Lapidis con una vettura BMW a lui intestata (la prima volta in compagnia di una donna presentata al C. come la sua fidanzata). Tutte e due le volte dopo un rapido approccio C. consegna del denaro al poliziotto, che ha puntualmente riconosciuto e affermato essergli noto come “P. “. I filmati registrano una ulteriore presenza del S. nel cantiere il (omissis) (per la presenza della sua vettura BMW). Nell’occasione è presente la figlia del C. e l’imputato, saputo dell’assenza del padre, se ne va via.
Per il M. (capo 6 della rubrica) dalle videoriprese emerge il suo arrivo nel cantiere il (omissis) (a bordo della sua auto Fiat Marea) seguito dalla consueta dazione di denaro del C. , che ha riconosciuto in fotografia in udienza l’imputato, chiarendo che lo stesso si era presentato da lui anche in altre occasioni per riceverne le elargizioni.
Quanto al D.S. (capo 7 della rubrica), la sua presenza presso l’azienda del C. emerge il (omissis) e il (omissis) , allorché accompagna a bordo della vettura Suzuki di questi il coimputato G. nel cantiere di C. , ricevendo anche lui la sua remunerazione. In dibattimento il C. , che ha fornito puntuale descrizione fisica dell’imputato, ne ha riconosciuto la persona in fotografia, non mancando di ricordare come lo stesso imputato in varie altre circostanze si fosse recato da lui per lo stesso motivo pecuniario (ricevere la somma ormai stabilmente fissata in 50 Euro).
2.2. Stimando pacifica la ricostruzione delle condotte collettive e individuali degli imputati, la Corte distrettuale – anche facendosi carico di rilievi delle difese – ha affrontato il tema della qualificazione giuridica di tali condotte, che ha ritenuto riconducibili senza incertezze, come da accusa contestata, alla fattispecie della concussione.
In proposito la sentenza di appello ha formulato una serie di concatenate osservazioni, evocando anche la categoria concettuale della cd. concussione ambientale in ragione del fatto che le condotte costrittive e/o induttive degli imputati appaiono inscriversi, per la loro sistematica ripetitività, nel contesto di una specie di convenzione o “prassi” abituale tacitamente riconosciuta dalle parti, come nel caso di specie.
Muovendo dalle dichiarazioni del C. e dai dati di riscontro che le stesse hanno ricevuto nelle indagini e nell’istruttoria dibattimentale, la Corte di Appello ha affermato che – da un lato – le somme di denaro, pur di modesto importo nei singoli episodi, elargite dal C. ai poliziotti non trovano alcun titolo, diretto o indiretto, che non sia quello di subire il metus publicae potestatis derivante dall’abuso delle funzioni degli agenti di polizia. Somme che ha erogato per evitare pregiudizi personali e soprattutto aziendali, cioè per evitare paventabili “mali maggiori” di quelli integrati dalle singole dazioni. Mali indotti da possibili ripetuti controlli ai suoi mezzi, come avvenuto in occasione del primo remoto episodio dei plurimi e ingiustificati controlli svolti dal G. su un camion della sua società. Situazione di rischio resa più che probabile dalle allusioni del G. e tale da produrre grave danno all’attività aziendale imperniata anche sulla rapidità delle consegne di materiali eseguite dagli automezzi della società.
La stessa Corte territoriale ha – d’altro lato – evidenziato che le frasi e le espressioni allusive inizialmente impiegate dai poliziotti imputati (a partire dal G. , e poi senza che neppure vi fosse bisogno di accennare alle ragioni delle pretese) per “indurre” il C. alle sue stabili erogazioni di denaro non fanno venire meno l’oggettiva condizione di coercizione o condizionamento vissuta dal C. per effetto dei contegni di abuso degli agenti di polizia (sentenza, p. 16: “in tali ipotesi la volontà del privato è repressa dalla posizione di preminenza del pubblico ufficiale il quale, sia pure senza avanzare aperte ed esplicite pretese, operi di fatto in modo da ingenerare nel soggetto privato la fondata persuasione di dover sottostare alle decisioni del pubblico ufficiale per evitare il pericolo di subire un pregiudizio eventualmente maggiore”).
3. Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorsi per cassazione, mediante i rispettivi difensori, i tre imputati, deducendo i vizi di violazione di legge e di motivazione di seguito riassunti.
3.1. Ricorso di S.P. .
3.1.1. Violazione dell’art. 317 c.p. e mancanza e palese illogicità della motivazione.
La Corte di Appello, replicando i ragionamenti della prima sentenza, ha confermato la responsabilità dell’imputato, pur risultando l’impianto accusatorio ancorato alle sole nebulose e disorganiche dichiarazioni della persona offesa, di cui non è stata verificata (benché portatrice di un interesse personale) la reale attendibilità, intrinseca ed estrinseca. Il C. non ha mai asserito che S. gli abbia imposto dazioni di denaro o altre utilità, limitandosi a riferire di avergli lui autonomamente consegnato la somma di 50 Euro. Il “passaparola” che avrebbe caratterizzato l’andirivieni dei poliziotti presso la sua azienda è frutto delle fantasie del C. . Dall’istruttoria è emersa, a tutto concedere, la natura paritaria dei rapporti intercorsi tra il C. e l’imputato per chiara assenza di un reale stato di soggezione del primo. Con la conseguenza che, volendosi ritenere penalmente rilevante la condotta del S. , la stessa andrebbe ricondotta nella ipotesi della corruzione e non della concussione.
3.2. Ricorso di M.D. .
3.2.1. Difetto assoluto di motivazione e travisamento del fatto.
La sentenza impugnata, recependo le valutazioni del Tribunale, non ha risposto alle censure formulate con l’atto di appello. Pur diffusamente affermando in generale la credibilità della persona offesa C. per le accuse formulate nei confronti degli imputati, i giudici di appello non hanno esaminato la specificità della posizione del M. . Allo stesso, come ai coimputati, è stato contestato il concorso criminoso, ma di questo non si è acquisita alcuna prova, non essendo emerso alcun tipo di collegamento o di accordo tra il M. e gli altri coimputati. In particolare i giudici di secondo grado non hanno considerato l’appartenenza degli imputati a distinte sedi della Polizia Stradale variamente dislocate in Abruzzo e nelle Marche, la diversità delle mansioni (di ufficio: servizio interno e non servizio su strada) espletate da M. rispetto a più coimputati, l’assenza di verbali di violazioni amministrative elevate dal M. nei riguardi dei veicoli della ditta della persona offesa.
Sebbene l’ispettore di polizia T.A. abbia chiarito che nelle riprese effettuate mediante la videocamera installata nel cantiere della società Inerti Lapidis non sono venuti in rilievo interventi o presenze del ricorrente, questi ultimi sono stati recuperati attraverso i filmati delle telecamere di cantiere installati dalla stessa società del C. . Quello in cui comparirebbe l’imputato è desunto dalla sola asserita presenza della sua autovettura Fiat Marea, benché la targa del veicolo non sia visibile e non risulti alcuna dazione di denaro dal C. all’interlocutore seduto in macchina. Né, infine, può sottacersi che il riconoscimento fotografico del ricorrente effettuato dal C. in udienza al termine del dibattimento è inquinato dal fatto che la persona offesa ha avuto modo di vedere l’imputato nelle precedenti udienze.
3.2.2. Erronea applicazione degli artt. 317,318,319 c.p..
Come già affermato nell’appello, anche in questo caso trascurato dalla Corte territoriale, dal complesso delle dichiarazioni testimoniali del C. è emerso come costui si sia indotto a “piccole regalie” non per evitare un danno, ma per conseguire un vantaggio costituito dall’evitare controlli alla sua attività lavorativa. Il C. , del resto, ha precisato che mai i suoi operai e autisti né lui stesso hanno subito pressioni, minacce e richieste esplicite di denaro. Con il che le complessive circostanze addotte dalla presunta persona offesa appaiono espressive della “volontà di tentare di ottenere un vantaggio, piuttosto che di evitare un danno ingiusto”. Con l’ulteriore effetto, che – ove non penalmente irrilevanti – i contegni dei poliziotti avrebbero al più dovuto essere qualificati come corruzione. Questione che la Corte di Appello non ha criticamente vagliato.
3.3. Ricorso di D.S.G.P. .
3.3.1. Violazione dell’art. 192 c.p.p. e mancanza di motivazione.
I giudici del gravame hanno operato una travisante lettura delle dichiarazioni di C.L. , che sulla peculiare posizione del D.S. sono vaghe e generiche in un quadro di estrema ambivalenza. Anche in appello non ha avuto luogo una doverosa verifica di credibilità delle dichiarazioni accusatorie del C. , sia sul piano delle sue valenze intrinseche ed estrinseche, sia sul piano dei riscontri individualizzanti. Riscontri assenti, perché le accuse della persona offesa non possono considerarsi supportate da quelle di altri testimoni e in particolare da quelle di persone a lui vicine (quali la figlia, il socio P. e la figlia dello stesso). Ma v’è di più. C. non ha mai identificato la persona del D.S. attraverso i filmati registrati dalle videocamere collocate nel suo cantiere. Evenienza comprensibile perché D.S. ha prestato servizio (come chiarito dal funzionario di polizia Pa. addotto dalla difesa) non presso la Polizia Stradale di Teramo, ma presso quella di Ascoli Piceno, dove soltanto saltuariamente ha svolto servizio d’istituto su strada, essendo impiegato anche (in modo stabile da marzo 2003 al 2004) in compiti amministrativi, venendo in seguito trasferito prima (dal 2.8.2004) alla Questura di Forlì e poi (dal 6.12.2004) alla Questura di Rieti.
Con memoria “aggiuntiva” depositata il 28.1.2013 dal difensore dell’imputato le illustrate censure sono riprese e ribadite con particolare riguardo alla mancata individuazione, da parte dell’ufficiale di p.g. operante e dello stesso C. , del D.S. nei filmati registrati nel cantiere il 25.11.2005 e al dato per cui a tale data l’imputato prestava servizio presso la Questura di Forlì.
3.3.2. Mancata assunzione di prove decisive.
Senza fornire adeguata spiegazione, la Corte di Appello non ha accolto la richiesta di procedere ad una nuova visione dei filmati registrati nelle indagini con particolare riguardo a quello relativo all’episodio del (omissis) coinvolgente D.S. . Né ha ritenuto di approfondire i dati relativi all’altro episodio del (omissis) pure attribuito al ricorrente, e nel quale la partecipazione del prevenuto è stata desunta dal solo fatto che il suo cellulare avrebbe agganciato la cella riferibile al cantiere.
3.2.3. Violazione degli artt. 213 e 361 c.p.p. e inutilizzabilità della individuazione fotografica eseguita dalla p.g. il 29.12.2004.
Il riconoscimento fotografico della persona dell’imputato ad opera di C. è avvenuto senza il rispetto delle formalità previste dagli artt. 213 e 214 c.p.p. ed è in ogni caso inficiato dal fatto che tra le fotografie (sei in tutto) sottoposte alla persona offesa non vi sono altri appartenenti alla Polizia oltre al D.S. , di cui viene mostrata una fotografia in cui la divisa di p.s. è malamente occultata con grossolani ritocchi. Non è casuale che a suo tempo il g.i.p. investito da richiesta cautelare del p.m. non ha adottato contro il ricorrente alcuna misura cautelare, osservando che dichiarazioni e ricognizione del C. necessitavano di riscontri, non acquisiti dai successivi sviluppi del processo.
4. Tutti e tre i ricorsi sono inammissibili perché fondati su motivi generici ovvero su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità o, ancora, manifestamente infondati.
4.1. Costituisce rilievo comune ai tre ricorsi la censura del mancato o insufficiente controllo della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni accusatorie rese in dibattimento dalla p.o. C.L. , vuoi perché nebulose e contraddittorie, vuoi congiuntamente perché non sorrette da adeguati riscontri cd. individualizzanti.
La doglianza è palesemente infondata e frutto di erronea lettura del disposto dell’art. 192 c.p.p. (ricorso D.S. ), poiché sia la sentenza del Tribunale che la sentenza di appello hanno dedicato intuibilmente – stante la natura del reato contestato ai prevenuti – ampio spazio al controllo di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie del C. , che hanno valutato non soltanto sorrette da un elevato coefficiente di intrinseca credibilità (rivela i fatti soltanto dopo che un dipendente, raccoltone il disappunto per il sempre meno tollerabile via vai dei poliziotti in cantiere per ricevere soldi, confida la vicenda ad una amica della Polizia), ma si mostrano decisivamente avvalorate da molteplici cd. riscontri oggettivi (episodi ripresi dalle telecamere installate dalla p.g. nel cantiere e da quelle già in dotazione della struttura aziendale) e soggettivi (le numerose altre testimonianze raccolte nel dibattimento). Né, d’altra parte, può seriamente addursi a motivo di paradossale sospetto di una vicenda corruttiva piuttosto che concussiva il fatto che C. non si sia costituito parte civile contro i poliziotti imputati.
È appena il caso di ribadire, per altro, che – come da tempo statuito da questa Corte regolatrice – la testimonianza della persona offesa dal reato costituisce una vera e propria fonte di prova, sulla quale, se connotata da idonea motivazione in punto di attendibilità intrinseca (come nel caso delle due odierne conformi decisioni di merito), può essere anche in modo esclusivo fondata l’affermazione di responsabilità dell’imputato. Erroneamente si invocano i “riscontri” delle accuse del C. , che pure sussistono in gran numero, come detto e come chiariscono i giudici di appello, facendosi riferimento al disposto dell’art. 192 c.p.p.. Norma che, giusta recente decisione delle Sezioni Unite di questa Corte, non è applicabile alla testimonianza della persona offesa (Sez. 4, 21.6.2005 n. 30422, Poggi, rv. 232018; Sez. 3, 3.5.2011 n. 28913, rv. 251075; Sez. U., 19.7.2012 n. 41461, Bell’Arte, rv. 253214).
4.2. Le censure di tutti e tre i ricorsi afferenti al merito valutativo dei fatti concussivi loro ascritti sono indeducibili e nel contempo palesemente infondate.
Indeducibili perché introducono una surrettizia rivisitazione meramente fattuale delle fonti di prova, di cui si tende a prospettare una alternativa e riduttiva interpretazione non ripercorribile in sede di legittimità, a fronte della coerente ricostruzione delle semplici vicende oggetto del processo e della logicità della coeva valutazione di segno penale che sono offerte dalla impugnata sentenza di secondo grado (e prima ancora dalla confermata sentenza del Tribunale).
Manifestamente infondate perché contraddette dalle emergenze processuali passate in rassegna dalle due decisioni di merito. Emergenze che non lasciano spazio a ragioni di dubbio sulle condotte di concussione realizzate, in tempi diversi e autonomamente l’una dall’altra, dai tre imputati in pregiudizio dell’imprenditore C. . Le ipotetiche discrasie o dissonanze delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa implicitamente evocate nei ricorsi (in special modo del D.S. ) e non sempre indicate in maniera puntuale non hanno ragion d’essere alla luce della approfondita analisi di credibilità del C. esperita dai giudici di merito.
4.3. In rapporto a taluni più specifici rilievi formulati dai ricorsi M. e D.S. possono formularsi le rapide osservazioni che seguono.
Entrambi gli imputati in diversa misura assumono di non aver svolto servizi di controllo su strada quali agenti della polizia stradale ovvero (D.S. ) di essere stati in servizio nel periodo cui risalgono gli accertamenti ad altro reparto di polizia (Forlì) assai lontano sia dalla residenza dell’imputato (Ascoli) che dal cantiere della Inerti Lapidis (provincia di Teramo). Le censure sono inconferenti.
Per un verso dopo l’instaurazione dell’originario rapporto concussivo in danno di C. le condotte di “riscossione” della microtangente individuale non si collegano in alcun modo, per quel che concerne i singoli agenti di polizia, al fatto che essi possano o non effettuare controlli dei mezzi della società di materiali inerti circolanti sulle strade dell’Abruzzo e delle Marche, poiché il cd. alleggerimento dei controlli è stato assicurato in origine dal G. ed è garantito dagli agenti infedeli effettivamente svolgenti servizi di controllo su strada. Ciò che è bastato e basta al C. per accettare il vessatorio “sistema” tangentizio impostogli, senza che lo stesso trovi una sorta di ragionieristica applicazione in rapporto agli specifici compiti di servizio di ciascun poliziotto presentatosi a ricevere i 50 Euro nel cantiere del C. . Né essendo ragionevole pretendere o supporre che questi nel dare la somma possa premurarsi, nell’ormai diffuso sistema tangentizio di cui è vittima e che coinvolge numerosi esponenti della Polizia di Stato in servizio presso disparati uffici, si premuri di verificare previamente se i singoli poliziotti percettori svolgano o meno servizio sulle pattuglie della Stradale sì da potersi imbattere negli automezzi della sua ditta. Per altro verso non può dimenticarsi che, per quanto desumibile dalla lunga sentenza della Corte di Appello, nell’indicare le persone dei tre imputati (attraverso l’esame dei filmati del cantiere e dei connessi riconoscimenti personali fotografici) la persona offesa C. ha sempre precisato che i medesimi imputati si erano presentati per lo stesso incombente esattoriale (consueta riscossione dei 50 Euro) diverse altre volte nella sua azienda prima di quelle immortalate nelle videoriprese (che, come detto, si protraggono per soli due mesi della seconda metà del 2004). Né ancora, quanto al D.S. , merita censura la razionale notazione (a fronte dell’attendibile ricognizione del C. ) della sentenza di appello secondo cui ben potrebbe l’imputato essersi recato il (omissis) nel cantiere di C. , perché quel giorno non in servizio a Forlì ovvero occasionalmente presente in quell’area territoriale, come deve evincersi anche per l’episodio del (omissis) (che si assume non contestato all’imputato ma di cui vi è ampia descrizione nelle due sentenze di merito), alla luce della cella “agganciata” dalla sua utenza mobile sia il 13.9.2004 che il 25.11.2004, compatibile con la presenza nell’area della ditta di C. (sentenza appello, p. 14). Ciò benché anche il 13.9.2004 l’imputato dovesse in teoria essere in servizio a Forlì.
Se è vero che i filmati relativi all’episodio del (omissis) concernente il M. non rendono visibile la targa della Fiat Marea dell’interlocutore di C. , non è meno vero che la targa del veicolo è stata fornita dallo stesso C. all’ispettrice T. , che con essa è risalita alla persona del M. (sentenza appello, p. 13).
I rilievi di M. e D.S. sull’apprezzabilità dei loro riconoscimenti fotografici sono destituiti di serio pregio, non essendovi ragione per dubitare della loro efficacia identificativa, giacché il C. ha fornito una puntuale descrizione fisica di entrambi e in ogni caso ne ha riconosciuto le sembianze nel corso delle udienze del dibattimento di primo grado. Sicché è l’intrinseca dimostrata credibilità del C. ad avvalorare l’identificazione dei due imputati piuttosto che le esteriori modalità con cui i riconoscimenti sono stati effettuati in dibattimento o a cura della polizia giudiziaria. Non è inutile ricordare che l’individuazione di un soggetto (sia personale che fotografica; la seconda quale mezzo di prova atipico) è un evento riproduttivo di una percezione visiva e costituisce una specie della categoria delle dichiarazioni; di tal che la sua valenza probatoria non si radica nelle (sole) modalità formali del riconoscimento, ma sul valore della dichiarazione confermativa al pari di ogni altra deposizione testimoniale (cfr. ex plurimis: Sez. 6, 27.11.2012 n. 49758, Aleksov, rv. 253910; Sez. 4, 21.2.2013 n. 1867/14, Jonovic, rv. 258173).
Analogo giudizio di infondatezza manifesta va espresso, infine, per la censura della mancata parziale riapertura dell’istruzione (ricorso D.S. ) per procedere ad una nuova visione dei filmati estratti dalle videoregistrazioni presso la sede della società Inerti Lapidis. La sola sommarietà della richiesta (comunque menzionata nella premessa della sentenza di appello) formulata in modo generico con l’impugnazione della prima sentenza già varrebbe a giustificarne l’inconferenza, non chiarendosi la necessità di una rinnovata visione dei filmati che pure sono stati oggetto di prolungato esame (e visione) nel contradditorio delle parti processuali durante il dibattimento di primo grado. In vero la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è istituto del tutto eccezionale, vigendo il principio processuale che la indagine istruttoria, nel sistema accusatorio, trova la sua naturale collocazione soltanto nel dibattimento di primo grado nel regolare contradditorio delle parti. Soltanto la rilevanza e la decisività di fatti non potuti provare in primo grado, nelle ipotesi di legge e sussistendone le condizioni, possono consentire la rinnovazione del dibattimento. Per tali motivi l’art. 603 c.p.p. considera ipotesi eccezionale la rinnovazione del dibattimento, subordinandola alla rigorosa ipotesi che il giudice di appello, con valutazione di fatto non censurabile in sede di legittimità, ritenga di non poter decidere allo stato degli atti (cfr., da ultimo: Sez. 6, 26.2.2013 n. 20095, Ferrara, rv. 256228; Sez. 4,5.7.2013 n. 46193, Pellizzon, rv. 258088).
5. Di fronte alla cristallizzata ricostruzione sul piano storico e comportamentale delle vicende integranti la regiudicanda, quale riveniente dalle estese decisioni di primo e di secondo grado, il solo tema residuale, ma non per questo privo di potenziali rilevanti effetti, che merita di essere affrontato di ufficio dal collegio decidente è quello della verifica della corretta qualificazione delle condotte degli imputati sussunte nella fattispecie della concussione.
Tema direttamente affrontato dalla sentenza di appello sebbene nel quadro della previgente disciplina penale; tema solo in forma implicita sollevato dai ricorsi M. e D.S. sotto il profilo della assenza di prove di una reale volontà coercitiva o concussi va degli imputati, con subordinata enunciazione dell’eventuale riconducibilità dei fatti nell’area della corruzione (iniziativa del C. che avrebbe agito per procurarsi il vantaggio dell’omissione dei controlli sui suoi camion; rapporto paritario tra lo stesso e i poliziotti); tema, infine, evocato in forma potenziale dal tenore delle imputazioni elevate nei confronti degli imputati che ne descrivono i comportamenti illeciti in termini di “induzione” e non (anche) di “costrizione”, ciò che si è rivelato fonte di incertezze interpretative emerse nelle prime decisioni di legittimità sui “nuovi” reati introdotti con la legge 6.11.2012 n. 190 (intervenuta dopo la pronuncia della sentenza di appello e la proposizione dei ricorsi) con cui è stato modificato l’assetto di alcuni reati contro la pubblica amministrazione, tra cui quello di concussione ex art. 317 c.p..
5.1. La legge 190/2012 (cd. legge anticorruzione) ha rimodulato, anche sul piano della risposta punitiva, la fattispecie della concussione ascritta ai ricorrenti, “scorporando” dalla generale azione coercitiva del pubblico ufficiale agente realizzata mediante “costrizione” quella realizzata mediante “induzione”, trasfondendo la seconda nella nuova fattispecie residuale (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) della induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319 quater c.p.. Fattispecie, questa, configurata a concorso necessario con previsione di punibilità dello stesso soggetto privato concedente o promettente utilità, sia pure con pena più lieve di quella applicabile al pubblico ufficiale che, in violazione dei doveri funzionali e della sua qualità, riceva l’utilità o ne accetti la promessa. La riforma ha innescato, come prevedibile, problematiche di diritto intertemporale collegate alla verifica di continuità precettiva o meno – per gli eventuali effetti di cui all’art. 2 co. 4 c.p. – tra previgenti e nuove norme incriminatrici.
Chiarito che questa Corte ha già riconosciuto la sussistenza di sicura continuità normativa tra la previgente fattispecie di cui all’art. 317 c.p. e le nuove fattispecie di cui allo stesso art. 317 c.p. (concussione per costrizione con pena inasprita nel minimo edittale) e al nuovo art. 319 quater c.p. (concussione per induzione o, rectius, induzione indebita) in ragione della indiscutibile omologia della condotta concussiva del pubblico ufficiale (e non più anche dell’incaricato di pubblico servizio) descritta dalla anteriore e dall’attuale norma incriminatrice (Sez. 6, 11.2.2013 n. 12388, Sarno, rv. 254441; Sez. 6, 7.5.2013 n. 21701, Ancona, rv. 255075), l’analisi è necessariamente integrata dalla corretta catalogazione della condotta di concussione che si attribuiscono ai tre ricorrenti e, dunque, della loro possibile riconducibilità alla fattispecie di cui all’attuale art. 317 c.p. ovvero a quella di cui all’art. 319 quater c.p..
Diverse alternative non si pongono.
Dalla ricostruita dinamica dei fatti, quale ripercorribile attraverso la congiunta lettura delle due sentenze di merito, è facile constatare che non vi è spazio per ipotizzare che le condotte degli imputati possano mai qualificarsi, in speculare sinergia con la condotta del C. , come manifestazione di fatti corruttivi. Sia riconducibili alla corruzione cd. propria o per atti contrari ai doveri di ufficio (in ipotesi: l’omissione di doverosi controlli sugli automezzi della società del C. ) ai sensi dell’art. 319 c.p. (rimasto immutato nella sua struttura dopo la legge 190/2012, che ha soltanto aumentato i limiti edittali, minimo e massimo, della sanzione); sia riconducibili alla corruzione cd. impropria per atti conformi ai doveri di ufficio o “all’esercizio delle funzioni”, come recita l’art. 318 c.p. novellato dalla legge 190/2014. Dagli atti di causa (testimonianze e altre emergenze) non emergono alcuna iniziativa di segno corruttivo del C. né elementi che permettano di ascrivere i contegni dei poliziotti imputati a contesti di accettata corruzione passiva attivati dallo stesso C. .
5.2. Come è ovvio, la premessa maggiore dell’analisi selettiva è rappresentata dalla oggettiva inquadrabilità delle condotte dei pubblici ufficiali imputati in un contesto di abuso delle qualità e/o dei poteri connessi alla loro condizione di agenti della Polizia di Stato, siffatto abuso costituendo elemento strutturale comune alle due novellate fattispecie criminose di cui agli artt. 317 e 319 quater c.p.. Non occorre diffondersi per rilevare che le evenienze processuali fatte palesi dalla motivazione delle due conformi sentenze di merito attestano l’esistenza di plurimi elementi di prova dei ripetuti contegni di abuso delle proprie funzioni da parte degli imputati nella genetica e da ciascuno condivisa opera di costrizione o induzione promossa dall’agente G. per far sì che il C. accetti di versare periodiche somme a lui o ai suoi colleghi per attenuare l’intensità dei controlli sugli autocarri della ditta, già dimostratisi dirompenti per l’azienda con i due ravvicinati controlli eseguiti ad mezzo della società appena qualche giorno prima. Fatti di abuso di posizioni funzionali determinati da palesi motivi di lucro personale e tradottisi in patenti violazioni dei doveri funzionali di terzietà, imparzialità e trasparenza immanenti nel ruolo di pubblici ufficiali degli agenti. Fatti resi sistematici nel tempo e che in particolare il G. compie da anni (le videoriprese attestano due episodi di riscossione di denaro attuati insieme all’odierno ricorrente D.S. ).
5.3. Tutto ciò precisato, occorre osservare che, pur nel quadro di talune aporie linguistiche risalenti alla originaria equiparazione tra concussione per costrizione o per induzione (eguagliando la previgente fattispecie ex art. 317 c.p. le due modalità di consumazione del reato, i concetti di costrizione e induzione hanno finito per assumere il valore di sinonimi o di semplice endiadi descrittiva), questa S.C. si è orientata nell’individuare il solo criterio differenziale tra le due ipotesi (oggi disaggregate dalla novella legislativa) in grado di offrire ragionevole spiegazione della punibilità, altrimenti illogica, del soggetto privato “indotto” a dare o promettere una utilità al pubblico ufficiale infedele, nella natura del danno minacciato al soggetto privato concusso (costretto o indotto). Ove il danno rivesta, a prescindere da modi e forme che ne hanno esteriorizzato la serietà, connotazioni di ingiustizia (produttive di un danno emergente o di un lucro cessante), tipiche della minaccia nel senso suo proprio fatto palese dalle ripetute accezioni offertene dal legislatore codicistico, cioè caratteri di contrarietà alla legge e all’ordinamento generale o settoriale della pubblica amministrazione interessata dalla condotta di abuso del pubblico ufficiale, si realizza la violenza morale integratrice della concussione costrittiva ex art. 317 c.p. (nei testi previgente e attuale). Laddove, invece, la minaccia del pubblico ufficiale (o, in questo caso, anche dell’incaricato di pubblico servizio) prospetti al privato un danno “giusto”, cioè tale da essere conforme alla legge e alla disciplina del peculiare settore amministrativo d’interesse, di guisa che il privato finisca -con l’aderire alla pretesa intimidatoria del soggetto agente- per conseguire, in tutto o in parte o in forma diretta o indiretta, un suo personale beneficio o vantaggio, diviene configurabile la meno grave ipotesi sanzionata, anche per il soggetto privato “beneficiario” dell’abuso, dall’art. 319-quater c.p. (cfr.: Cass. Sez. 6, 3.12.2012 n. 3251/13, Roscia, rv. 253936-253938; Cass. Sez. 6, 3.12.2012 n. 7495/13, Gori, rv. 254020; Sez. 6, 25.2.2013 n. 13047, Piccinno, rv. 254466; Sez. 6, 26.2.2013 n. 16566, Caboni, rv. 254624; Sez. 6,12.6.2013 n. 28431, Cappello, rv. 255614).
5.4. Tale orientamento risulta in buona sostanza condiviso dalla recente decisione delle Sezioni Unite di questa Corte del 24.10.2013 (ricorrenti Ma. e altri), che – come da informazione provvisoria- hanno adottato la seguente decisione: “La fattispecie di induzione indebita di cui all’art. 319 quater c.p. è caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un suo indebito vantaggio; nella concussione di cui all’art. 317 c.p., invece, si è in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del soggetto”.
È allora ben evidente che se l’elemento strutturale della riformata fattispecie della concussione ex art. 317 c.p. è costituito da una forma di pressione integrante una violenza morale nei confronti del soggetto passivo costruita sulla prospettazione di una vera e propria minaccia che – secondo la risalente accezione recepitane dal codice penale – altro non può essere se non la rappresentazione di un danno ingiusto, le manifestazioni esteriori della condotta costrittiva-concussiva non tollerano estemporanee distinzioni connesse al modularsi della minaccia o, in altri termini, alle modalità con cui questa viene proposta al soggetto passivo (in forma particolarmente pressante ovvero con mere allusioni; con richieste esplicite di denaro e/o utilità, pena l’imminente produzione del minacciato danno, ovvero con adduzioni persuasive e suggestive o con più tenui atteggiamenti verbali; con prospettazioni categoriche e sopraffattone senza alternative ovvero con messaggi o avvisi indiretti o semplici blandizie e inganni; e così via).
Ciò che rileva ai fini della individuazione dell’elemento oggettivo del delitto di concussione è sempre e soltanto la prospettazione (minaccia) di un male ingiusto che, incidendo sul processo di formazione della volontà della vittima, non le lascia (parafrasando la notizia di decisione delle Sezioni Unite) alcun apprezzabile margine di autodeterminazione e di reale scelta per evitare l’ingiusto pregiudizio prefiguratole dall’agente, se non quello di accettarne le indebite pretese pecuniarie o altrimenti utilitaristiche. Sicché il soggetto passivo accetta di eseguire la dazione di denaro o altra utilità ovvero di prometterla al solo preminente scopo di evitare il male minacciato (cfr., dopo la decisione delle S.U., Sez. 6,19.12.2013 n. 2305/14, Panarello, rv. 258655).
I corollari da trarre dal ragionamento sono semplici.
Innanzitutto non può assegnarsi alcun valore alla semplice o non sempre puntuale descrizione della condotta incriminata a seconda dell’impiego eventualmente alternativo dei predicati verbali o sintagmi “indurre” in luogo di “costringere” o viceversa, ciò che davvero conta essendo soltanto il risultato di danno avuto di mira dall’agente e minacciato alla vittima alla stregua della sua connotazione di ingiustizia o non. Così ancor meno rileva l’eventualità che la pretesa indebita di denaro o utilità sia stata formulata o solo fatta intuire al soggetto passivo a fronte di una chiara rappresentazione (in tutte le sue indicate possibili forme alternative) del rischio di sopportare un danno ingiusto (con effetti patrimoniali o non). Ciò che vale a dire, per restare alla vicenda processuale investita dagli odierni ricorsi, che non può annettersi alcun peso al fatto che al C. non siano state rivolte (come da lui stesso chiarito) richieste esplicite di remunerazione ai vari poliziotti. Richieste di cui l’imprenditore, dopo l’interessata e autosufficiente iniziale manifestazione di “interessamento” mostratagli dall’imputato G. per gli autotrasporti della sua società, non avrebbe avuto alcun bisogno.
In secondo luogo, a prescindere dalla segnalata non decisiva intensità della pressione (costrittiva) esercitata sul soggetto passivo e delle sue forme o modalità esteriori, l’individuazione e il controllo della natura ingiusta o meno del male minacciato interseca -come è logico- l’analisi dell’obiettivo che il “costretto” si propone di raggiungere, aderendo alla in ogni caso indebita (anche nell’ipotesi di cui all’art. 319 quater c.p.) pretesa dell’agente: evitare o meno un male ingiusto o perseguire anche e soprattutto un vantaggio personale, cui sa di non avere diritto e che rende, quindi, il male prefiguratogli “giusto”. Con l’ulteriore effetto che in questo caso il “male” si riduce alla accettata dazione del denaro o della utilità al pubblico ufficiale, perdendo il carattere di negatività che gli è proprio, trasfigurandosi in un “vantaggio” ingiusto e divenendo in pratica il corrispettivo di quella peculiare forma di “autocorruzione” provocata dallo stesso pubblico ufficiale che appare disciplinata e sanzionata (anche per l’indebito beneficiario, sebbene in più contenuta misura) dall’art. 319 quater c.p..
5.5. Ora nei casi oggetto dei ricorsi dei tre imputati è agevole constatare che le condotte illecite loro ascritte non sono suscettibili di essere riqualificate (per gli effetti di cui all’art. 2 co. 4 c.p.) sotto il nomen iuris della induzione indebita ex art. 319 quater c.p..
Dalla lettura delle due decisioni di merito e in particolare dalla più estesa e articolata sentenza di appello non è possibile evincere alcun fatto, contegno o evenienza che coniughi alla sottomissione del C. verso le richieste pecuniarie degli imputati alcun intento che non sia quello di evitare, non tanto i controlli in sé o perfino i loro possibili esiti sanzionatori, quanto piuttosto e soltanto la pretestuosità e assillante ripetitività dei controlli esperibili dai poliziotti (della Stradale o di altri reparti) verso i suoi diversi automezzi in circolazione per trasportare materiali della ditta. Situazione che gli appare ed oggettivamente si configura come un danno ingiusto e grave per l’intera sua azienda, perché in grado di creare pesanti e non rimediabili disservizi organizzativi (ritardi nei trasporti e nel rientro in ditta dei mezzi), capaci di paralizzare il processo produttivo e commerciale della stessa azienda.
È una mera illazione dei ricorrenti, priva di qualsiasi dato di sostegno, l’ipotesi che l’imprenditori abbia in realtà avuto lo scopo di evitare i controlli sui mezzi e le multe per violazioni amministrative. È lo stesso C. a chiarire in dibattimento, come non manca di sottolineare la sentenza di appello, di non aver temuto i controlli per eventuali carenze dei suoi automezzi, perché tutti tenuti in regola, né per le possibili multe (eventualità che si traduce in verosimile voce di spesa corrente, in certo senso fisiologica, per una azienda che opera con una decina di autoarticolati viaggianti tra Abruzzo e Marche), ma soltanto di aver temuto il considerevole danno economico che sarebbe derivato dalla loro pervicace attuazione (quale dimostrata dall’episodio del duplice controllo effettuato dal G. a poche ore di distanza ad un medesimo autocarro della ditta) e dai ritardi e nocumenti organizzativi da loro sicuramente derivanti. Ed è in questa dannosa eventualità che si inscrive, mutuando il dictum della Sezione Unite, la “irresistibile pressione” che non lascia libertà di scelta subita dal C. ed integrante la fattispecie della “nuova” concussione ex art. 317 c.p. (in rapporto con la parimenti nuova fattispecie dell’induzione indebita ex art. 319 quater c.p.).
All’inammissibilità delle impugnazioni segue per legge la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000 (mille) ciascuno.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno e ciascuno a quello della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende.
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