Ai fini del delitto di atti osceni la cella carceraria è luogo aperto al pubblico. Infatti, per luogo aperto al pubblico deve intendersi quell’ambiente anche ad accessibilità non generalizzata e libera per tutte le persone che vogliano introdurvisi, ma limitata, controllata e funzionalizzata ad esigenze non private, sempre che sussista la possibilità giuridica e pratica per un numero indeterminato di soggetti, ancorché qualificati da un titolo, di accedere senza legittima opposizione di chi sull’ambiente stesso eserciti un potere di fatto o di diritto. Pertanto, la cella carceraria non può distinguersi, come luogo di privata dimora del detenuto, da altre parti dello stabilimento carcerario destinate allo svolgimento della vita di relazione della popolazione carceraria e del personale di custodia

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

SENTENZA 7 ottobre 2016, n. 42545

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

II p.m. presso il Tribunale di Ferrara ricorre per saltum avverso la sentenza in data 28.10.2014 con cui il Tribunale locale, in composizione monocratica, ex art. 129 cod. proc. pen., ha assolto K. S. dal reato ascrittogli ai sensi dell’art. 341 bis cod. pen., per insussistenza dei fatto, avendo opinato che la condotta ascritta all’imputato – consistita nella pronuncia delle frasi offensive riportate nel capo d’accusa, rivolte all’indirizzo dell’ass. V., della Polizia Penitenziaria di Ferrara – in quanto posta in essere all’interno della casa Circondariale di quella città, ove all’epoca il prevenuto era ristretto, non potesse dirsi avvenuta in luogo pubblico o aperto al pubblico, così come invece richiesto dalla norma incriminatrice.

Assume la ricorrente parte pubblica che l’interpretazione seguita dal giudicante contrasta con la stessa obiettività del fatto e con la ratio dell’art. 341 bis cod. pen., preordinato alla tutela del prestigio e dell’onore della P.A., ‘nel momento in cui l’offesa trascenda la sfera personale del soggetto oltraggiato’, richiamando a sostegno dell’assunto la giurisprudenza formatasi in materia di atti osceni.

II proposto ricorso è fondato e merita pertanto accoglimento.

Ancorché non vi sia, a livello di giurisprudenza di legittimità, un’elaborazione diretta del concetto di ‘luogo aperto al pubblico’ con specifico riferimento alla fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale, di cui all’art. 341 bis cod. pen., nondimeno soccorre l’approdo cui la giurisprudenza medesima è pervenuta in altri ambiti.

Così, in materia di intercettazioni fra presenti, è stato affermato che ‘la cella e gli ambienti penitenziari non sono luoghi di privata dimora, non essendo nel ‘possesso’ dei detenuti, ai quali non compete alcuno ‘ius excludendi alios’; tali ambienti, infatti, si trovano nella piena e completa disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, che ne può farne uso in ogni momento per qualsiasi esigenza d’istituto’ (Cass. Sez. 1, sent. n. 32851 del 06.05.2008, Rv. 241228).

E, analogamente, in relazione al reato di atti osceni di cui all’art. 527 cod. pen., si è sostenuto:

‘Ai fini del delitto di atti osceni la cella carceraria è luogo aperto al pubblico. Infatti, per luogo aperto al pubblico deve intendersi quell’ambiente anche ad accessibilità non generalizzata e libera per tutte le persone che vogliano introdurvisi, ma limitata, controllata e funzionalizzata ad esigenze non private, sempre che sussista la possibilità giuridica e pratica per un numero indeterminato di soggetti, ancorché qualificati da un titolo, di accedere senza legittima opposizione di chi sull’ambiente stesso eserciti un potere di fatto o di diritto. Pertanto, la cella carceraria non può distinguersi, come luogo di privata dimora del detenuto, da altre parti dello stabilimento carcerario destinate allo svolgimento della vita di relazione della popolazione carceraria e del personale di custodia’ (così Cass. Sez. 3, sent. n. 5513 del 29.09.1977 – dep. 13.05.1978, Rv. 138931, ma già prima v. Sez. 3, sent. n. 617 del 23.02.1962, Rv. 98856; conf. Sez. 3, sent. n. 4637 del 25.01.1980, Rv. 144925 e n. 8600 dei 20.05.1983, Rv. 160756).

Trattasi di principi senza meno estensibili anche alla specifica figura delittuosa in esame, avuto riguardo alla finalità cui la norma incriminatrice è deputata, che è quella di salvaguardare l’onore ed il prestigio dei p.u., nel momento in cui l’offesa arrecatagli durante il compimento di un atto d’ufficio e, dunque, a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, travalica la persona del singolo, in quanto avvenuta alla presenza di più persone, andando ad incidere in senso deteriore sulla dignità ed il rispetto da cui deve essere circondata la pubblica funzione e sullo stesso buon andamento della P.A., per via dei turbamento che ne può derivare in capo alla persona fisica.

La sentenza va dunque annullata, con trasmissione degli atti per l’ulteriore corso, ex art. 569 co. 4 cod. proc. pen., alla Corte di appello di Bologna, che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per il giudizio alla Corte d’appello di Bologna.

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