Corte di Cassazione, sezione VI civile, sentenza 26 ottobre 2016, n. 21659

Anche ai fini dell’imposta di registro, le quotazioni Omi sono mere presunzioni che di per sé non possono fondare la pretesa impositiva

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI civile

sentenza 26 ottobre 2016, n. 21659

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente
Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere
Dott. MANNA Felice – Consigliere
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere
Dott. SCALISI Antonino – Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12215/2014 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 274/2013 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO del 16/10/2013, depositato il 07/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2015 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI;

udito l’Avvocato (OMISSIS), difensore del ricorrente, che si riporta ai motivi e chiede che la Corte accerti la pendenza della procedura concorsuale. Deposita certificazione del Tribunale di Lanciano, Sezione Fallimentare.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 21 agosto 2012 presso la Corte d’appello di Campobasso, (OMISSIS) chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla irragionevole durata della procedura concernente il fallimento in proprio del ricorrente, nonche’ della (OMISSIS) s.a.s. di cui egli era socio accomandatario illimitatamente responsabile, iniziata con dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di Lanciano in data (OMISSIS) e non ancora conclusasi alla data della domanda. L’adita Corte d’appello considerava ragionevole la durata indicata dal ricorrente, tenendo conto che si trattava del fallimento di due soggetti, per cui riteneva che non vi fosse alcun ritardo indennizzabile e compensava le spese processuali. Avverso detto decreto il ricorrente ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi, illustrati anche da memoria ex articolo 378 c.p.c..

L’intimato Ministero ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza.

Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, articolo 2, ratione temporis applicabile, dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia determinato la durata ragionevole della procedura fallimentare presupposta in sette anni e quattro mesi, in ragione della sola circostanza che il fallimento avesse riguardato due procedure, nonostante si tratti di solo uno dei plurimi elementi richiesti dalla legittimita’ per la valutazione del tempo ragionevole di durata, oltre ad essere comunque stati superati i termini massimi di sette anni.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’articolo 111 Cost., comma 5, dolendosi che la Corte d’appello abbia solo con motivazione apparente respinto la domanda, non potendo dedursi la durata ragionevole di un giudizio dal solo numero delle procedure.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, articolo 3, comma 5, ratione temporis applicabile, nonche’ vizio di motivazione, per avere l’adita Corte d’appello respinto implicitamente la sua richiesta di acquisizione del fascicolo del fallimento che avrebbe consentito una serena ed effettiva valutazione dell’evoluzione della procedura concorsuale.

All’esame dei motivi occorre premettere che la presente controversia non e’ soggetta, ratione temporis, all’applicazione delle disposizioni introdotte dal Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2012, n. 134, applicabili ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione.

Del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012 non puo’ neanche riconoscersi natura di norme di interpretazione autentica, atteso che, se e’ vero che per alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non vi e’ nulla nel Decreto Legge n. 83 del 2012, che possa indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva, avendo anzi espressamente dettato una specifica previsione per la entrata in vigore della nuova disciplina.

Tanto premesso, i primi tre motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente per la evidente connessione che li avvince. Essi sono infondati.

Le censure criticano l’indicazione del decreto impugnato relativamente alla durata della procedura fallimentare presupposta laddove ne ha ritenuto la ragionevolezza pur essendo durata sette anni e quattro mesi, peraltro non ancora conclusa al momento della presentazione della domanda di equa riparazione, anche per avere considerato i termini massimi senza una ponderazione di plurimi elementi.

E’ esatto che, sulla base dei fatti esposti dalla Corte di appello, la procedura fallimentare si e’ protratta per sette anni e quattro mesi, dal (OMISSIS).

Tanto precisato, si ritiene che i motivi debbano essere disattesi in ragione del rilievo che questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass. n. 8468 del 2012), che la durata ragionevole delle procedure fallimentari puo’ essere stimata in cinque anni per quelle di media complessita’, ed e’ elevabile fino a sette anni, allorquando il procedimento si presenti notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata dalla complessita’ del caso, oppure della pluralita’ delle procedure concorsuali interdipendenti.

Nel caso di specie, la Corte d’appello ha ritenuto ragionevole una durata pari al massimo consentito ed ha argomentato il proprio convincimento con la presenza di pluralita’ di procedure fallimentari relative a diversi soggetti tra loro interdipendenti.

Trattasi di apprezzamento di fatto, adeguatamente motivato, rispetto al quale il ricorrente contrappone una diversa valutazione dello svolgimento del giudizio presupposto, non specificando quali fra le attivita’ considerate dal giudice del merito ai fine della durata ragionevole della procedura fallimentare si sia tradotta in un inutile dispendio di attivita’ processuali e formalita’ superflue.

Quanto poi all’eccedenza di quattro mesi rispetto al termine massimo di durata del procedimento fallimentare, osserva il Collegio come questa Corte ha avuto modo di affermare che la sussistenza del danno indennizzabile puo’ presumersi solo quando il processo superi in modo significativo la sua durata ragionevole, non anche laddove esso trovi definizione a ridosso di tale termine, superandolo solo di pochi mesi (Cass. n. 5317 del 2013).

Nel caso di specie, il ritardo nella definizione del giudizio, anche se sussistente, essendo contenuto in un breve lasso di tempo di eccedenza (non superiore a sei mesi), non puo’ essere di per se’ idoneo a provocare a carico della parte una sofferenza o paterna d’animo apprezzabili e quindi autonomamente enucleabili come danno evento, non risultando altresi’ indicazioni contrarie scaturenti dall’importanza della posta in gioco.

Con il quarto e ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 89 del 2001, articolo 3, comma 6, ratione temporis applicabile, giacche’ la Corte d’appello decidendo in un ampio lasso di tempo avrebbe dovuto estendere il suo accertamento anche al periodo successivo nel liquidare l’indennizzo tenendo conto del valore dei crediti ammessi al passivo, e dunque in misura non omogenea per tutti i ricorrenti, avrebbe determinato una disparita’ non consentita.

Del pari e’ priva di pregio l’ultima censura.

Come esattamente rilevato dalla corte territoriale, l’equa riparazione e’ dovuta per il ritardo effettivamente maturato all’epoca all’edictio actionis ex L. n. 89 del 2001. Non puo’ quindi essere preso in considerazione l’ulteriore ritardo, futuro ed incerto, suscettibile di maturazione nel corso del giudizio pendente (v. di recente, Cass. n. 14980 del 2015).

Il decreto impugnato risulta, quindi, immune dalle proposte censure, essendosi la Corte d’appello attenuta al principio per cui, in tema di equa riparazione, “ove la relativa domanda sia proposta durante la pendenza del processo presupposto, il giudice deve prendere in considerazione, ai fini della valutazione della ragionevolezza della durata di detto processo, il solo periodo intercorrente tra il suo promovimento e la proposizione del ricorso per equa riparazione, non potendo considerare altresi’ l’ulteriore ritardo, futuro ed incerto, suscettibile di maturazione nel prosieguo del primo processo; tale valutazione prognostica e’ infatti esclusa dalla lettera dell’articolo 2 della legge cit., che si riferisce ad un evento lesivo storicamente gia’ verificatosi e dunque certo, mentre a sua volta l’articolo 4, permettendo l’esercizio dell’azione anche in pendenza del processo presupposto, come nella specie avvenuto, delimita l’ambito del pregiudizio, anticipando la liquidazione per ogni violazione gia’ integrata, e fa implicitamente salva la facolta’ di proporre altra domanda in caso di eventuale ritardo ulteriore” (Cass. n. 8547 del 2011).

Il ricorso va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

Risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame e’ considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al testo unico approvato con il Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in favore dell’Amministrazione in complessivi Euro 500,00, oltre a spese prenotate e prenotande a debito

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