Il domicilio di cui all’art. 624 bis c.p. è quel luogo in cui si svolge in tutto o in parte la vita privata di un individuo
Suprema Corte di Cassazione
sezione V penale
sentenza 7 giugno 2016, n. 23641
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente
Dott. MORELLI Francesca – Consigliere
Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere
Dott. CATENA Rossella – Consigliere
Dott. MICCOLI Grazia – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI LUCCA;
nei confronti di:
(OMISSIS), N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 3922/2015 GIP TRIBUNALE di LUCCA, del 01/10/2015;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GRAZIA MICCOLI;
Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Dott. MARINELLI Felicetta, ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata perche’ l’arresto e’ stato eseguito legittimamente.
RITENUTO IN FATTO
1. Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lucca avverso l’ordinanza, in data 1 ottobre 2015, con la quale il GIP del predetto Tribunale non ha convalidato l’arresto di (OMISSIS), eseguito dalla polizia giudiziaria per “il reato di cui all’articolo 624 c.p. e articolo 625 c.p., nn. 2 e 7, perche’, al fine di trarne profitto, agendo da palo in concorso con persona rimasta ignota, utilizzando un mezzo fraudolento, si impossessava dei danari contenuti nella cassetta per le elemosine della parrocchia di (OMISSIS). In (OMISSIS)”.
Sostiene il ricorrente che il fatto contestato integrerebbe il delitto di cui all’articolo 624 bis c.p., essendo l’edificio di culto e le sue parti accessorie, “ivi compresa la cassetta per le elemosine, un luogo destinato in tutto o in parte alla privata dimora”. Di conseguenza, secondo il ricorrente, si verterebbe in una ipotesi di arresto obbligatorio, per cui non era necessaria da parte della polizia giudiziaria all’atto dell’arresto alcuna valutazione sulla gravita’ del fatto o pericolosita’ del soggetto.
Sostiene altresi’ il ricorrente che nessuna incidenza avrebbe la circostanza che il pubblico ministero non aveva contestato il reato di cui all’articolo 624 bis, bensi’ quello di cui all’articolo 624 c.p. Infatti in sede di convalida dell’arresto il giudice puo’ attribuire al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dal pubblico ministero, ai limitati effetti del giudizio di convalida, in quanto rientra tra i suoi poteri di controllo quello di individuare in concreto l’ipotesi di reato al fine di stabilire se sia consentito l’arresto in flagranza.
2. Con atto depositato in data 3 novembre 2015 il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha chiesto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso e’ inammissibile.
1. Come risulta dall’ordinanza impugnata e dallo stesso “addebito provvisorio” indicato nel ricorso, la convalida dell’arresto e’ stata richiesta in relazione al reato di furto aggravato ex articoli 110 e 624 c.p. e articolo 625 c.p., nn. 2 e 7.
Il fatto e’ stato descritto nel modo seguente: “perche’, al fine di trarne profitto, agendo da palo in concorso con persona rimasta ignota, utilizzando un mezzo fraudolento, si impossessava dei danari contenuti nella cassetta per le elemosine della parrocchia di (OMISSIS). In (OMISSIS)”.
Sulla base di tale contestazione e degli atti messi a sua disposizione, il G.I.P. ha ritenuto di non convalidare l’arresto, rilevando l’insussistenza dei presupposti sostanziali di cui all’articolo 381 c.p.p., comma 4, non ricorrendo ne’ la gravita’ del fatto ne’ la pericolosita’ del soggetto arrestato.
2. Si tratta di motivazione non censurabile in questa sede.
Va ricordato, infatti, che in sede di convalida dell’arresto facoltativo, il giudice, oltre a verificare l’osservanza dei termini previsti dall’articolo 386 c.p.p., comma 3 e articolo 390 c.p.p., comma 1, deve controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto, secondo i parametri di cui agli articoli 380, 381 e 382 c.p.p., valutando la legittimita’ dell’operato della polizia sulla base di una verifica di ragionevolezza di questo in relazione allo stato di flagranza e all’ipotizzabilita’ di uno dei reati di cui agli articoli 380 e 381 c.p.p..
Detto controllo, peraltro, va effettuato secondo una chiave di lettura che non deve riguardare ne’ la gravita’ indiziaria e le esigenze cautelari, valutazione riservata all’applicabilita’ delle misure cautelari coercitive, ne’ l’apprezzamento sulla responsabilita’, riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito (tra le tante, Sez. 6, n. 48471 del 28/11/2013, P.M. in proc. Scalici, Rv. 258230).
Va ricordato, inoltre, che il giudice della convalida e’ chiamato a verificare la legittimita’ dell’arresto operato dalla polizia giudiziaria mediante una valutazione ex ante, cioe’ condotta in riferimento alle circostanze che gli agenti hanno conosciuto – o avrebbero potuto conoscere usando la dovuta diligenza – all’atto del provvedimento restrittivo (Sez. 1, n. 8708 dell’8/02/2012, Rosiichuk, Rv. 252217; Sez. 5, n. 10916 del 12/01/2012, Hraich, Rv. 252949). Per altro verso, l’oggetto della decisione e’ costituito dalla ragionevolezza dell’atto di polizia, in relazione allo stato di flagranza ed alla configurabilita’ del reato che consente il provvedimento restrittivo. Il controllo non attinge, quindi, il tema della colpevolezza, che e’ riservato al giudizio di merito, e neppure quello della gravita’ indiziaria, rilevante per l’eventuale applicazione di una misura cautelare che prolunghi la privazione di liberta’ in presenza di esigenze riconducibili all’articolo 274 c.p.p. (Sez. 6, n. 25625 del 12/04/2012, Eebrihim, Rv. 253022). Esigenze, queste ultime, che rilevano, con riguardo ai soli casi di arresto facoltativo, nella mera prospettiva della ragionevolezza, in base alla “gravita’ del fatto” ovvero “alla pericolosita’ del soggetto desunta dalla sua personalita’ o dalle circostanze del fatto” (articolo 381 c.p.p., comma 4). Tanto che – si afferma – la misura discrezionale e’ legittima anche quando ricorre uno soltanto dei due fattori di orientamento della scelta, cioe’ la gravita del fatto oppure la pericolosita’ del soggetto (Sez. 5, n. 10916 del 12/01/2012, cit.).
E’ ovvio che i principi appena evocati non possono implicare un connotato di mera formalita’ del controllo giudiziale sulla legittimita’ di provvedimenti che privano una persona del bene fondamentale della liberta’. Tuttavia, in un sistema ove la convalida non costituisce titolo per la prosecuzione della cautela oltre gli stretti termini stabiliti dalla Costituzione per l’efficacia dei provvedimenti di polizia, e’ necessario tenere distinto il piano del controllo sull’operato della polizia da quello della prova necessaria a sostenere un provvedimento cautelare, nonche’, a maggior ragione, da quello attinente al merito dell’imputazione.
Il vaglio di legittimita’ dell’arresto deve essere sostanziale, risolvendosi in diniego della convalida ogni qualvolta sia accertata la carenza delle condizioni per la restrizione, ma va condotto secondo i parametri tipici della sede e sull’oggetto che gli e’ proprio (il provvedimento, non la responsabilita’ dell’arrestato).
Per questa ragione non rilevano elementi non acquisiti ne’ acquisibili al momento del fatto, ne’ possono applicarsi gli standard probatori tipici del merito o della sede cautelare.
3. Chiariti i principi sopra richiamati, va rilevato che nel caso di specie il provvedimento del giudice, che non ha proceduto alla convalida dell’arresto, ha dato conto del vaglio sulla ragionevolezza dell’atto di polizia, in relazione allo stato di flagranza ed alla configurabilita’ del reato che consente l’arresto facoltativo.
Il giudice ha pero’ tratto dalla stessa descrizione dell’addebito e dal verbale redatto dalla polizia giudiziaria gli elementi che privano il fatto di gravita’ e rendono insussistente la pericolosita’ sociale dell’indagato.
Si tratta di valutazioni non sindacabili in sede di legittimita’, in quanto attengono ai fatti oggetto della contestazione.
4. Va detto, sotto altro profilo, che errata e’ la qualificazione giuridica del reato attribuita al fatto contestato dal Pubblico Ministero ricorrente.
Non si puo’, infatti, affermare che tutti i luoghi di un edificio di culto siano riconducibili a quelli contemplati dall’articolo 624 bis c.p. ovvero a quelli destinati “in tutto o in parte a privata dimora”, cosi’ come ritenuto in una pronunzia di questa stessa Sezione, avente ad oggetto il furto di denaro prelevato da una cassetta per la raccolta di elemosina posta all’esterno di una chiesa (Sez. 5, n. 7266 del 08/10/2014, Oxley, Rv. 262546).
In una precedente pronunzia di questa Corte si e’ correttamente ritenuto che integra il delitto di furto in abitazione la condotta di colui che sottragga del danaro dal cestino delle offerte, ma perche’ custodito in una sagrestia, “la quale, in quanto funzionale allo svolgimento di attivita’ complementari a quelle di culto, serve non solo l’edificio sacro, ma altresi’ la casa canonica e dunque deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a “privata dimora”, trattandosi di luogo in cui l’ingresso puo’ essere selezionato a iniziativa di chi ne abbia la disponibilita’”. (Sez. 4, n. 40245 del 30/09/2008, P.M. in proc. Aljmi, Rv. 241331).
Cosi’ non puo’ ritenersi, invece, nel caso in cui – come quello in esame – la cassetta delle offerte sia posta nella parte della chiesa destinata al culto e per questo aperta al pubblico.
E’ noto che, quanto alla nozione di “abitazione” o “privata dimora”, la giurisprudenza tende a proporne una interpretazione certamente estensiva, ma non si puo’ comunque prescindere dalle indicazioni delle Sezioni unite penali di questa Corte, che esigono “un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza” (Sez. un., 28 marzo 2006, Prisco, m. 234269).
Giova riportare alcuni passaggi della sentenza delle Sezioni Unite, nella quale, con affermazione di carattere generale, sebbene resa nel contesto dell’interpretazione della normativa processuale in tema di videoriprese, si e’ osservato che “non c’e’ dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona e’ assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa si’ che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarita’, perche’ il luogo rimane connotato dalla personalita’ del titolare, sia o meno questi presente…. Percio’ con ragione la giurisprudenza ha introdotto il requisito della “stabilita’”, perche’ e’ solo questa, anche se intesa in senso relativo, che puo’ trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che puo’ fargli acquistare un’autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarita’… “.
Quindi, anche quando si ammette la tutela per luoghi destinati – ad esempio – al lavoro, piuttosto che all’abitazione, l’estensione puo’ essere considerata ragionevole per chi vi presti stabilmente la propria opera, non per coloro che di questi luoghi siano utenti o comunque avventori piu’ o meno occasionali.
Questa Sezione ha avuto modo di precisare che la nozione di “privata dimora”, richiamata anche dall’articolo 624 bis c.p., e’ piu’ ampia di quella di “abitazione”, in quanto va riferita al luogo nel quale la persona compia atti della vita privata (furto commesso all’interno di un cantiere edile allestito nel cortile di un immobile in cui erano in corso lavori di ristrutturazione) (Sez. 5, n. 2768 del 01/10/2014, Baldassin, Rv. 262677).
In effetti, si e’ ritenuto che l’estensione in esame possa essere considerata ragionevole proprio con riferimento alla tutela di chi in relazione ad un determinato luogo abbia un potere dispositivo, come certamente accade nei luoghi in cui un soggetto presti la propria attivita’ lavorativa.
E’ comunque prevalso nella giurisprudenza di questa Corte un orientamento fondato sul rilievo che per “luogo di privata dimora” possa intendersi anche “ogni luogo non pubblico che serva all’esplicazione di attivita’ culturali, professionali e politiche ovvero nel quale le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata”.
E’ stato cosi’ ritenuto ravvisabile il delitto ex articolo 624 bis c.p. nella condotta di chi, per commettere un furto, si introduca all’interno di una farmacia durante l’orario di apertura (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009, Apprezzo), nel ripostiglio di un esercizio commerciale (Sez. 5, n. 22725 del 05/05/2010, Dunca), all’interno di un bar (Sez. 5, n. 30957 del 02/07/2010, Cirlincione) od in uno studio odontoiatrico (Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011, Gelasio). Con riferimento al caso in esame, si ritiene di dover escludere che la parte di un edificio di culto dove vengono espletate le attivita’ religiose possa essere considerato luogo tutelato a norma dell’articolo 624 bis c.p., non potendo trascurarsi che essa e’ frequentata da un pubblico di avventori in numero non determinabile e comunque non e’ destinata allo svolgimento di atti della vita privata.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Pubblico Ministero
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