SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
sentenza 18 febbraio 2015, n. 3198
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –
Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –
Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 7008/2009 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
P.F., elettivamente domiciliato in ROMA VIA SICILIA 66, presso lo studio dell’avvocato FANTOZZI AUGUSTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO GIULIANI giusta delega in calce;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 119/2007 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA, depositata il 28/01/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/12/2014 dal Consigliere Dott. MARCO MARULLI;
udito per il ricorrente l’Avvocato MARCHINI che si riporta;
udito per il controricorrente l’Avvocato RUFFINI delega dell’Avvocato GIULIANI che si riporta;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata il 28.1.2008 la CTR Emilia Romagna ha respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate nei confronti della sentenza di prime cure, che su ricorso del contribuente P. F., esercente l’attività di specialista ortopedico, aveva parzialmente annullato gli avvisi di accertamento a mezzo dei quali l’ufficio procedente, recependo gli esiti di una pregressa verifica fiscale, aveva provveduto a rettificare le dichiarazioni IVA, IRPEF e IRAP della parte per gli anni 2001 e 2002, segnatamente in ragione del disconoscimento, quali costi indeducibili, dei fitti corrisposti dal P. alla SUMI s.a.s. per la locazione dell’immobile adibito ad ambulatorio e per la prestazione di servizi di segreteria.
La CTR, osservato previamente che l’unico limite generale alla deduzione dei costi è quello dell’inerenza e, quindi, quello dell’effettività delle prestazioni, ha motivato il rigetto del gravame sulla base della considerazione che “il costo è inerente se serve a produrre ricavi”, sicchè una volta accertata questa qualità del costo “è abbastanza difficile” dire, anche per la mancanza di una clausola generale antielusiva, senza sconfinare in una valutazione discrezionale, “in quale misura esso sia deducibile o meno”. Perciò “le presunzioni utilizzate dall’ufficio per considerare non deducibili gli importi contabilizzati per fitti passivi negli anni 2001 e 2002 non hanno i caratteri di gravità, precisione e concordanza previsti dalla legge, per cui tali costi devono essere ritenuti inerenti alla produzione del reddito del contribuente e quindi dedotti fiscalmente”.
La cassazione di detta sentenza è ora chiesta dalla parte pubblica con un ricorso affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso la parte privata che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
2.1.Va previamente rimossa la pregiudiziale di inammissibilità che il resistente si è indotto a sollevare sulla considerazione che il ricorso sarebbe fondato, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, “su una rappresentazione dei fatti di causa del tutto parziale e capziosa”, poichè nell’esporre i fatti di causa controparte “ha costantemente presupposto che l’antieconomicità dei fitti passivi in contestazione fosse un dato pacifico, inconfutabile e inconfutato e per sostenere ciò ha consapevolmente obliterato il contenuto di tutti gli atti processuali del contribuente”.
2.2. L’eccezione, improntata evidentemente ad un marcato soggettivismo nella lettura del precetto normativo, è peraltro inutilmente defatigatoria, dal momento che, come già ricordato dalle SS.UU. – e ribadito anche dalla giurisprudenza più recente (25429/14; 12566/14; 18753/14) -, “il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3… può ritenersi soddisfatto…, laddove il contenuto del ricorso consenta al giudice di legittimità, in relazione ai motivi proposti, di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata” (11653/06), a nulla rilevando in questa impostazione la circostanza che siano più o meno esattamente riferite le difese di ciascuna parte, se il ricorso renda possibile, come appunto qui, la cognizione dei fatti che hanno dato origine alla vicenda e dei motivi per i quali l’interpretazione che di essi è stata data dal giudice di merito non sia di propria soddisfazione.
3.1. Ciò detto, con il primo motivo di ricorso, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente Agenzia lamenta violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, nonchè in relazione ai principi generali in tema di abuso del diritto, poichè la CTR, pronunciandosi nei riferiti termini, sarebbe venuta meno all’insegnamento secondo cui “rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nelle dichiarazioni fiscali” ed avrebbe altresì ignorato che sussiste da tempo “nell’ordinamento giuridico italiano un generale principio antielusivo” il cui fondamento risiede nell’art. 53 Cost.
Sempre violazione e falsa applicazione di legge la ricorrente fa valere con il terzo motivo in relazione agli artt. 2697 e 2729 c.c., art. 53 Cost., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, nonchè in relazione ai principi generali in tema di abuso del diritto, in quanto, malgrado le circostanze allegate dall’ufficio a supporto della legittimità della ripresa, in ragione dell’oggettiva antieconomicità dell’operazione, i giudici di appello hanno escluso “la sussistenza di una presunzione grave, precisa e concordante idonea a trasferire sul contribuente l’onere di giustificare altrimenti (cioè sulla base di ragioni economiche diverse dall’illegittimo risparmio di imposta) l’operazione effettuata ovvero, in altri termini, di fornire la prova della valida esistenza di ragioni economiche”.
3.2. Entrambi i motivi, che si esaminano congiuntamente in quanto soggetti ad una comune declaratoria, sono entrambi affetti da preventiva inammissibilità per difetto nella formulazione del quesito.
Premesso che la specie in giudizio soggiace ratione temporis all’applicazione dell’art. 366 bis c.p.c., giusta il quale “nei casi previsti dall’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”, va qui ribadito, che, costituendo il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione di un principio generale, il quesito di diritto deve essere formulato “in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica unitaria della questione, onde consentire alla corte di cassazione l’enunciazione di una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata” (S.U. 26020/08).
Oltre, perciò, a dover rispondere ad un preciso decalogogo di raccomandazioni (19769/08; 8143/14; 4700/14), la sua formulazione non deve “richiedere una previa attività interpretativa della corte”, quale nella specie è invece imposta dalla correlazione di quello che accompagna ciascuno dei motivi in disamina (primo motivo: “dica la Corte se violi l’art. 53 Cost., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, nonchè i principi in tema di abuso di diritto come enucleati dalle fonti e dalla giurisprudenza comunitaria, la sentenza della CTR che respinga l’appello dell’amministrazione… affermando che, in assenza di una norma generale antielusiva,…; terzo motivo: “dica la Corte se violi gli artt. 2697 e 2729 c.c., art. 53 Cost., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, nonchè i principi in tema di abuso di diritto come enucleati dalle fonti e dalla giurisprudenza comunitaria, la sentenza della CTR che respinga l’appello dell’amministrazione… affermando che l’antieconomicità di un’operazione…”) a parametri normativi eterogenei e, segnatamente, dalla circostanza che taluni di essi (“i principi in tema di abuso di diritto come enucleati dalle fonti e dalla giurisprudenza comunitaria”) sono richiamati a mezzo di un’indicazione a largo raggio, che non ne impedisce l’applicazione al caso concreto – in questo, invero, realizzandosi l’ufficio interpretativo a cui è chiamato il giudice nell’esercizio della iurisdictio – ma che risulta invece irrimediabilmente preclusiva allorchè si debba determinare la congruenza del quesito di diritto rispetto al tema di diritto sottoposto al vaglio della Corte.
4.1. Violazione e falsa applicazione di legge si deduce ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 50, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, e D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 8, con il secondo motivo di ricorso, avendo la CTR erroneamente affermato “che ai fini del giudizio di inerenza di un costo rileva esclusivamente la sua riferibilità ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito e non anche la sua eccessività o sproporzione rispetto al valore normale di mercato”.
4.2. Il motivo – che non è affetto dalla pregiudiziale inammissibilità eccepita dal resistente in relazione alla formulazione del quesito di diritto, in quanto si assume per suo tramite la violazione del medesimo principio che in ciascuna delle norme richiamate trova enunciazione – è tuttavia infondato nel merito. Ancorchè in materia di redditi da lavoro autonomo non si riscontri una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 109, comma 5, Tuir, in tema di deducibilità ai fini della determinazione del reddito di impresa dei costi che si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi od altri proventi che concorrono a formare il reddito, non è infatti revocabile in dubbio che l’art. 50, comma 1, Tuir, applicabile alla specie nel testo vigente prima della novellazione ad opera del D.Lgs. n. 344 del 2003, laddove prevedeva che “il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione”, anche in considerazione di quanto argomentato dai commi successivi o di quanto più esplicitamente affermato dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 8, (“per i soggetti di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), la base imponibile è determinata dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti e l’ammontare dei costi sostenuti inerenti alla attività esercitata…”), consentisse la deducibilità dal reddito imponibile degli esercenti arti e professioni delle sole spese provviste dall’attributo dell’inerenza rispetto all’attività esercitata, intendendosi con ciò sottolineare il rapporto di diretta ed immediata correlazione che deve instaurarsi ai fini della determinazione della base imponibile tra la spesa sostenuta e l’arte o la professione esercitata. Sicchè sul piano del diritto – della corretta individuazione, cioè della norma giuridica applicata al caso concreto che si ipotizza nella specie allegando una pretesa violazione di legge – non è dunque censurabile il giudizio espresso dalla CTR che ha escluso nel caso concreto la ripetibilità dei costi rappresentati dai fitti passivi corrisposti dal P. alla Sumi s.a.s. per la locazione dell’immobile adibito ad ambulatorio e per la fruizione di altri servizi sulla base del rilievo che “il costo è inerente se serve a produrre ricavi” e della conseguente affermazione che “una volta accertata questa qualità del costo è abbastanza difficile poter dire, senza scivolare in una zona molto discrezionale, in quale misura esso è deducibile o meno, tranne che non vi sia una indicazione normativa specifica che ponga un tetto alle spese”, perchè la CTR esprimendosi in questi termini non ha violato alcuna delle norme indicate dalla ricorrente.
Nè qui è utilmente spendibile l’argomento secondo cui il controllo di inerenza non potrebbe andare disgiunto dall’apprezzamento in punto di ragionevolezza della spesa, onde non sarebbero deducibili le spese connesse a comportamenti del contribuente che non si giustificano sotto il profilo dell’economicità, poichè in tal modo la critica che si muove alla sentenza fuoriesce dal piano dell’errore di diritto, non si censura più la sentenza per aver errato nell’individuazione della norma da applicare, ma per aver errato nel modo di applicarla. Invero nell’escludere la deducibilità del costo in quanto, sebbene inerente, esso è economicamente irragionevole l’ufficio esprime un giudizio di valore che fa leva sull’apprezzamento di indici presuntivi di un’occulta capacità contributiva, potendo dimostrarsi in base ad essi che il reddito complessivo dichiarato è inferiore a quello effettivo o che non sussistono o non spettano, in tutto o in parte le deduzioni dal reddito o le detrazioni di imposta indicate in dichiarazioni. E’ naturale perciò che, se il giudice di merito, avanti al quale sia dedotta l’inconcludenza del ragionamento presuntivo alla radice dell’atto impositivo impugnato, nel ricostruire l’iter argomentativo seguito dall’ufficio per pervenire alla sua emanazione, non ne condivida il giudizio conclusivo, perchè ad esempio le deduzioni dell’ufficio non legittimano la prognosi di irragionevolezza economica dell’agire del contribuente, ne dia conto, in adempimento dell’obbligo di enunciare nella sentenza le ragioni della decisione, nella motivazione del proprio provvedimento. Ed allora l’ufficio che, in sede di ricorso per cassazione, intenda censurare il provvedimento così adottato, perchè, ancora ad esempio, esso non avrebbe tenuto in adeguata considerazione i fatti indizianti della condotta antieconomica ravvisabile nel caso specifico, mostra di voler sollecitare un riesame critico dell’impianto motivazionale a servizio della sentenza impugnata, denunciando un vizio di essa che non è censurabile, come qui si è preteso, nella veste della violazione di legge, bensì in quella dell’omessa ed insufficiente motivazione.
5.1. Il quarto motivo fa valere a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione sotto forma nella specie della sua insufficienza, vero che la CTR in relazione al fatto controverso e decisivo del giudizio costituito dalla deducibilità dei costi relativi ai fitti passivi, recependo positivamente le allegazioni di parte si era espressa in senso favorevole senza tuttavia “esplicitare le ragioni della maggior persuasività degli elementi addotti dal contribuente, senza considerare che i costi erano sostenuti in relazione ad un’operazione oggettivamente priva di qualsiasi ragionevolezza economica”, com’era argomentabile dagli elementi di giudizio offerti in cognizione, e “negando apoditticamente qualsiasi rilevanza alla circostanza che detta operazione originava da un contratto non registrato o non corredato da sottoscrizioni autentiche”.
5.2. Il motivo – che non è previamente inammissibile come eccepito dalla resistente perchè corredato da idoneo momento di sintesi – è tuttavia infondato nel merito.
E bene ricordare che secondo lo stabile indirizzo della giurisprudenza di questa Corte “il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti” (11511/14; 19814/13; 1754/07).
Nella specie non sussiste alcuna lacuna nel ragionamento decisorio seguito dal giudice territoriale, nè tantomeno sono ravvisabili le carenze motivazionali di cui lo rende bersaglio l’insoddisfazione della ricorrente, le cui doglianze palesano in sostanza soltanto che le circostanze di causa siano state lette dalla CTR in modo non corrispondente alle proprie aspettative. Del resto, esercitandosi l’ufficio motivazionale su un percorso argomentativo che presuppone, in ragione della natura presuntiva dell’accertamento, la selezione del materiale indiziario e quindi la valutazione degli elementi provvisti della necessaria concludenza probatoria, il riesame di essi che si richiede laddove non siano evidenziatali vizi logici, costituisce accertamento di merito che esula notoriamente dai limiti del controllo di logicità della motivazione affidato a questa Corte.
6. Il ricorso va dunque respinto. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida nella somma di Euro 3645,00.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 9 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2015
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