In materia di interpretazione della domanda e delle clausole comunemente utilizzate negli atti processuali, dirette a non precludere pronunce attributive di un “quantum” maggiore di quello indicato in domanda, questa Corte ha individuato un preciso “discrimen” tra quelle clausole cui deve riconoscersi un significato giuridicamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto della lite – in ordine al quale deve essere verificata la corrispondenza del bene attribuito rispetto a quello che la parte aveva chiesto – ed invece quelle clausole inidonee a definire l’oggetto della pretesa, in quanto espressione di una mera formula stilistica e che non intendono incidere sui limiti quantitativi del “petitum”.
Pertanto, nella originaria incertezza sulla esatta determinabilità del “quantum”, la indicazione di un importo chiesto a titolo risarcitorio, se accompagnata dalla formula “o la somma maggiore o minore ovvero altra somma ritenuta di giustizia”, viene di regola a manifestare in senso ottativo la volontà della parte diretta ad ottenere quella somma che risulterà spettante all’esito del giudizio, senza porre limitazioni al potere liquidatorio del Giudice. Diversamente la stessa clausola deve ritenersi priva di qualsiasi rilevanza, ed integra clausola di mero stile, qualora la originaria incertezza sul “quantum” sia venuta meno, nel corso della fase istruttoria, ad esempio essendo stata quantificata la pretesa in esito all’espletamento di prove od alle indagini tecniche svolte (c.t.u.): ed infatti, una volta che si è pervenuti, all’esito della istruttoria, alla determinazione del “quantum”, il reiterato riferimento della parte alla – non più attuale – originaria situazione di incertezza (in quanto abbia, ad esempio, precisato le conclusioni riportandosi a quelle rassegnate nell’atto introduttivo in cui si concludeva per la richiesta di liquidazione del danno nell’importo “ritenuto di giustizio”), si palesa oggettivamente inconferente rispetto al dato acquisito nel successivo sviluppo dell’attività processuale, e dunque la invocazione della medesima clausola – contenuta nella domanda originaria o riformulata in sede di precisazione delle conclusioni – non assolve ad alcuna ulteriore esigenza funzionale, venendo a risolversi in una mera forma stilistica
Suprema Corte di Cassazione
Sezione terza civile
sentenza 23 gennaio – 26 settembre 2017, n. 22330
Presidente Spirito – Relatore Olivieri
Fatti di causa
In data 21.2.1999, in conseguenza di sinistro stradale nel quale erano state coinvolte diverse autovetture, decedevano i coniugi D.N.Q. e S.C. .
In seguito al procedimento penale per omicidio colposo nei confronti di D.F. , conducente della vettura investitrice, veniva instaurato da D.N.M.S. , figlia unica dei predetti coniugi, giudizio civile per il risarcimento del danno nei confronti dell’autore dell’illecito, nonché di Do.Fr. , proprietaria del veicolo, e della Lloyd Assicurazioni s.p.a. successivamente incorporata da Alleanza Toro Assicurazioni s.p.a.- che assicurava la RCA del veicolo investitore.
Il Tribunale di Lecce, con sentenza in data 13.12.2007, accertava la esclusiva responsabilità del D. nella produzione del sinistro, e condannava lo stesso, in solido alla proprietaria ed alla società assicurativa, a risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale chiesto “jure proprio” dalla D.N. , riconoscendo anche il danno per la perdita del rapporto parentale, liquidato in Euro 200.000,00 per ciascun genitore, mentre rigettava la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale richiesto “jure herditatis”.
In parziale accoglimento dell’appello principale proposto da TORO Ass.ni s.p.a. e dell’appello incidentale proposto dai D. , la Corte d’appello di Lecce, con sentenza in data 11.3.2014 n. 186, ha ritenuto che il primo giudice fosse incorso nel vizio di ultrapetizione, avendo liquidato a titolo di danno per la “perdita del rapporto parentale” una somma maggiore di quella richiesta dalla D.N. (quantificata nell’atto di citazione in lire 150.000.000 per la morte di ciascun genitore), ed ha di conseguenza ridotto l’importo risarcitorio in complessivi Euro 154.937,04.
La sentenza di appello, notificata in data 24.3.2014, è stata ritualmente impugnata per cassazione dalla D.N. , con atti notificati in data 19.5.2014, con i quali ha dedotto un unico motivo concernente plurime censure.
Ha resistito con controricorso Generali Business Solution soc. coop. p. a. n.q. di “mandataria e rappresentante” di Generali Italia s.p.a., incorporante Alleanza Toro Ass.ni s.p.a..
Gli altri intimati non hanno svolto difese.
Ragioni della decisione
Il motivo di ricorso, con il quale si censura la statuizione della sentenza della Corte di appello che ha ritenuto viziata da ultrapetizione la decisione di prime cure nella parte in cui aveva liquidato il danno non patrimoniale da “perdita del rapporto parentale” in misura superiore all’importo, pari a Lire 150.000.000, richiesto per la morte di ciascun genitore con l’atto di citazione dalla D.N. , deve ritenersi fondato.
La Corte d’appello ha, infatti, omesso di considerare che, nell’atto di citazione, la danneggiata aveva rilevato la insufficiente valutazione tabellare (Lire 90.000.000 nel massimo, secondo le Tabelle in uso presso il Tribunale di Milano ed applicate nel giudizio di merito) del “danno morale comprensivo della perdita del rapporto familiare”, richiedendo un diverso e maggiore ammontare che, indicativamente, aveva “ritenuto equo determinare in Lire 150.000.00”, sottolineando come il criterio di liquidazione di tale danno era rimesso, comunque, alla valutazione discrezionale del Giudice di merito tenuto a considerare le specifiche circostanze concrete che venivano a caratterizzare in modo peculiare la situazione familiare (figlia unica, in assenza di germani), esigendo una valutazione della entità del pregiudizio sofferto distinta da quella standard dei valori tabellari, ed inoltre, nel medesimo atto di citazione, aveva rassegnato le conclusioni chiedendo la condanna al risarcimento del danno con riferimento a “quella somma che verrà determinata e quantificata nel corso del giudizio, o ritenuta di giustizia, oltre agli interessi legali ed al danno da svalutazione monetaria” (cfr. atto di citazione, trascritto nel ricorso).
Orbene in materia di interpretazione della domanda e delle clausole comunemente utilizzate negli atti processuali, dirette a non precludere pronunce attributive di un “quantum” maggiore di quello indicato in domanda, questa Corte ha individuato un preciso “discrimen” tra quelle clausole cui deve riconoscersi un significato giuridicamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto della lite – in ordine al quale deve essere verificata la corrispondenza del bene attribuito rispetto a quello che la parte aveva chiesto – ed invece quelle clausole inidonee a definire l’oggetto della pretesa, in quanto espressione di una mera formula stilistica e che non intendono incidere sui limiti quantitativi del “petitum”.
Pertanto, nella originaria incertezza sulla esatta determinabilità del “quantum”, la indicazione di un importo chiesto a titolo risarcitorio, se accompagnata dalla formula “o la somma maggiore o minore ovvero altra somma ritenuta di giustizia”, viene di regola a manifestare in senso ottativo la volontà della parte diretta ad ottenere quella somma che risulterà spettante all’esito del giudizio, senza porre limitazioni al potere liquidatorio del Giudice (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2641 del 08/02/2006).
Diversamente la stessa clausola deve ritenersi priva di qualsiasi rilevanza, ed integra clausola di mero stile, qualora la originaria incertezza sul “quantum” sia venuta meno, nel corso della fase istruttoria, ad esempio essendo stata quantificata la pretesa in esito all’espletamento di prove od alle indagini tecniche svolte (c.t.u.): ed infatti, una volta che si è pervenuti, all’esito della istruttoria, alla determinazione del “quantum”, il reiterato riferimento della parte alla – non più attuale – originaria situazione di incertezza (in quanto abbia, ad esempio, precisato le conclusioni riportandosi a quelle rassegnate nell’atto introduttivo in cui si concludeva per la richiesta di liquidazione del danno nell’importo “ritenuto di giustizio”), si palesa oggettivamente inconferente rispetto al dato acquisito nel successivo sviluppo dell’attività processuale, e dunque la invocazione della medesima clausola – contenuta nella domanda originaria o riformulata in sede di precisazione delle conclusioni – non assolve ad alcuna ulteriore esigenza funzionale, venendo a risolversi in una mera forma stilistica (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6350 del 16/03/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 12724 del 21/06/2016).
Nella specie, la voce di danno in questione implica, in considerazione della natura “non patrimoniale” del danno da risarcire, l’applicazione del criterio di liquidazione equitativa ex art. 2056 c.c. che, se pure ancorato a determinati indici sintomatici, non consente – fatta salva la ipotesi di espressa ed inequivoca delimitazione dell’importo risarcitorio alla misura tabellare massima – una puntuale determinazione “ex ante” del “quantum” risarcibile, tanto più quando, come nel caso concreto, la domanda, fin dall’origine, prospettava la esigenza di derogare ai limiti “tabellari” e di procedere secondo criteri di discrezionalità (equitativi puri), al fine di attribuire la piena reintegrazione del pregiudizio in presenza di specifiche circostanze concrete che rendevano inattuale ed inadeguata la valutazione tabellare del danno. Nella specie, pertanto, il ricorso alla clausola di salvaguardia della liquidazione del danno nella “eventuale maggiore misura” rispetto alla somma indicata in citazione, trovava quindi piena giustificazione proprio nella palesata originaria ed oggettiva incertezza determinativa del “quantum” da commisurarsi al danno non patrimoniale.
Tale incertezza originaria, peraltro, non è venuta meno a seguito della istruttoria che, quanto al danno non patrimoniale da perdita della relazione parentale, consente di individuare ed accertare i fatti rilevanti ai fini della applicazione dei criteri di “aestimatio” del danno, ma non fornisce anche specifiche indicazioni sulla quantificazione dello stesso, con la conseguenza che il richiamo della clausola di salvaguardia di cui all’atto di citazione, effettuato in sede di precisazioni delle conclusioni in primo grado, manteneva la sua originaria giustificazione volta a consentire al Giudice di procedere alla valutazione estimatoria senza apposizione di vincoli limitativi.
La Corte d’appello non si è attenuta ai principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza di legittimità incorrendo nel vizio di falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. censurato con il motivo di ricorso.
Il ricorso deve essere accolto, con conseguente cassazione in parte qua della sentenza impugnata. Non occorrendo procedere ad ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa da questa Corte con il rigetto dell’appello principale proposto da TORO Assicurazioni s.p.a. e dell’appello incidentale, relativamente al sesto motivo di gravame, proposto da D.F. e Fr. (essendo stato fatto valere con le impugnazioni principale ed incidentale il medesimo vizio di ultrapetizione della decisione di primo grado, posto a fondamento della statuizione della sentenza cassata), e condanna l’appellante principale e gli appellanti incidentali alla rifusione, in favore di D.N.M.S. delle spese relative al grado di appello, liquidate in Euro 8.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Rilevato che la notifica del ricorso anche ad altri soggetti che hanno assunto la qualità di parti in grado di appello, ma nei confronti dei quali la D.N. non ha proposto domande, deve intendersi effettuata esclusivamente ai fini della mera “denuntiatio litis”, Condanna la parte resistente Generali Italia s.p.a. e gli intimati Do.Fr. e F. , in solido, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
accoglie il motivo di ricorso e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.
Decidendo nel merito, rigetta l’appello principale proposto da TORO Assicurazioni s.p.a. e l’appello incidentale, relativamente al sesto motivo di gravame, proposto da D.F. e Fr. , e condanna l’appellante principale e gli appellanti incidentali, in solido, alla rifusione, in favore di D.N.M.S. delle spese relative al grado di appello, liquidate in Euro 8.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Condanna Generali Italia s.p.a., Do.Fr. e F. , in solido, al pagamento in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
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