Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 23 marzo 2016, n. 5778
Svolgimento del processo
Con sentenza dell’11 – 18.10.2012 la Corte d’appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza n. 199/2011 del Tribunale di Mantova impugnata da M. A., ha condannato la Alsafil s.p.a, a pagare a quest’ultimo la somma di € 108.330,00 a titolo di indennità supplementare ex art. 19 del CCNL Dirigenti Aziende Industriali, oltre accessori di legge, mentre ha respinto l’appello incidentale della società volto alla rifusione delle spese.
II primo giudice aveva ritenuto che al licenziamento dei predetto dirigente non fosse applicabile la garanzia procedimentale di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e gli aveva riconosciuto solo il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso e a vedersi riconosciuta l’incidenza di tale emolumento sul T.F.R.
Al contrario la Corte territoriale ha ritenuto che il licenziamento, intimato per il lamentato mancato raggiungimento degli obiettivi commerciali costituenti la ragione dell’assunzione, era stato adottato senza le predette garanzie procedimentali, per cui trovavano applicazione le conseguenze economiche fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento senza giusta causa, tra le quali la suddetta indennità supplementare, mentre il capo di condanna concernente il pagamento del preavviso era passato in giudicato.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Alsafil s.p.a. con due motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste con controricorso A.M..
Motivi della decisione
1. Col primo motivo, dedotto per violazione o falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300/70 e degli artt. 3, 10 e 19 dei CCNL per i dirigenti di aziende industriali del 25.11.2009, la ricorrente sostiene che il licenziamento in esame era basato su ragioni di carattere oggettivo avendo assunto rilievo decisivo ed unico, ai fini della risoluzione dei rapporto, il mancato raggiungimento di predeterminati risultati minimi di produttività, per cui lo stesso era pienamente legittimo, vista la qualifica di dirigente con mansioni di responsabile della vendita rivestita dal M. e considerato, altresì, che le garanzie procedimentali di cui all’art. 7 dello statuto dei lavoratori sono applicabili ai dirigenti solo per le ipotesi di licenziamenti ontologicamente disciplinari, ovvero per quelli nei quali il datore di lavoro contesta al lavoratore una violazione di natura soggettiva.
TI motivo è infondato in quanto l’assunto difensivo è contraddetto dal fatto che la Corte d’appello di Brescia ha evidenziato, con motivazione congrua ed esente da rilievi di legittimità, che era indubbio che il licenziamento era stato intimato per mancanza di fiducia personale verso il dirigente, per non avere il medesimo assicurato il raggiungimento degli obiettivi previsti all’atto dell’assunzione, mostrandosi, in tal modo, incapace di assolvere i compiti di responsabilità correlati al suo ruolo. Quindi, contrariamente a quanto asserito in maniera infondata dalla ricorrente, il mancato raggiungimento di obiettivi commerciali predeterminati non poteva assurgere ad un fatto oggettivo, essendo, invece, una conseguenza di un preciso inadempimento contestato al dirigente che, secondo la stessa datrice di lavoro, se ne era reso responsabile. Ne conseguiva, secondo la Corte d’appello, che non poteva porsi alcun dubbio sulla necessità dei rispetto delle regole procedimentali di cui all’art. 7 della legge n. 30011970 che, invece, nella fattispecie erano state violate. Si è, infatti, statuito (Cass, sez. lav. n. 18270 del 30/7/2013) che “il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime dei rapporto, sicché deve essere assoggettato alle garanzie dettate a tutela del lavoratore circa la contestazione degli addebiti e il diritto di difesa.” (conf. a Cass. sez. lav. n. 14326 dei 9.8.2012; v. altresì Cass. sez. lav. n. 2553 dei 10.2.2015)
2. Coi secondo motivo il ricorrente denunzia la falsa applicazione dell’art. 23 del CCNL dei dirigenti di aziende industriali del 25.11.2009, degli artt. 2118 e 2119 cod. civ. e dell’art. 7 della legge n. 300 del 20.5.1970, in quanto contesta l’affermazione della Corte di merito secondo la quale la natura disciplinare del licenziamento era palese in considerazione del fatto che il datore di lavoro non aveva riconosciuto il diritto al preavviso, assumendo che non poteva qualificarsi come disciplinare un licenziamento per il solo fatto di essere stato intimato senza il rispetto del preavviso. Tale motivo è infondato in quanto non è vero che la Corte territoriale ha ricavato la natura disciplinare del licenziamento dal mancato pagamento del preavviso, il cui capo di condanna era, tra l’altro, coperto da giudicato. Infatti, la “ratio decidendi” riposa, al riguardo, sulla lettura testuale della motivazione adottata dalla datrice di lavoro per la giustificazione dell’atto di recesso e sulla evidenziazione dei rilevato venir meno del rapporto fiduciario per il mancato raggiungimento degli obiettivi commerciali che avevano costituito la ragione stessa dell’assunzione, per cui ciò che aveva avuto rilievo per il giudice di merito era il fatto stesso dell’inadempimento del dirigente nei termini sopra precisati. In realtà, il riferimento al licenziamento senza preavviso è stato adoperato dalla Corte territoriale solo a conferma dei convincimento sul carattere soggettivo del recesso, basato su una condotta del dirigente Idonea, secondo la parte datoriale, a far venir meno il vincolo fiduciario. Ne consegue che la contestata argomentazione aggiuntiva non inficia la validità della ragione principale della individuata natura disciplinare del licenziamento.
II ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate a suo carico come da dispositivo, unitamente al contributo unificato di cui all’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 4000,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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