Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 17 ottobre 2014, n. 22063
Svolgimento del processo
Il giudice del lavoro del Tribunale di Brescia, accogliendo per quanto di ragione la domanda proposta da G.L. nei confronti della società Baratti di eredi Inselvini s.r.l., annullò la lettera di dimissioni sottoscritta il 16.3.2005 dal ricorrente, in quanto dal medesimo rassegnate in stato di incapacità, accertò la continuità del rapporto di lavoro e condannò la convenuta al risarcimento del danno, limitandolo alla misura delle retribuzioni maturate dal lavoratore dalla data della sentenza a quella dell’effettivo ripristino del rapporto lavorativo.
A seguito di impugnazione principale del lavoratore ed incidentale della società la Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 9/12/2010 – 15/1/2011, ha respinto il gravame proposto da entrambe le parti e compensato le spese sulla scorta della seguente motivazione: – Era passata in giudicato la statuizione che aveva accertato l’autenticità della firma del lavoratore sulla lettera delle dimissioni ed era tardiva la diversa domanda di quest’ultimo diretta a far valere il possibile riempimento di foglio firmato in bianco. Tuttavia, non risultava essere stato contestato dalla società l’esito dell’accertamento medico legale sullo stato di incapacità naturale del dipendente all’epoca delle rassegnate dimissioni e le conseguenze economiche dell’annullamento di queste ultime non potevano che decorrere dalla data della relativa sentenza avente efficacia costitutiva. In ogni caso, il ricorrente non aveva reiterato col ricorso o in un momento successivo l’offerta della propria prestazione lavorativa, offerta avutasi solo prima della domanda giudiziale, per cui alla stessa non poteva connettersi l’efficacia della messa in mora del datore di lavoro.
Per la cassazione della sentenza ricorre G.L. con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Rimane solo intimata la società Baratti di Eredi Inselvini s.r.l..
Motivi della decisione
1. Col primo motivo il ricorrente si duole della violazione degli artt. 428 e 1425 cod. civ., in relazione all’art. 111 della Costituzione e con riferimento alla ragionevole durata del processo, relativamente agli effetti patrimoniali della sentenza di annullamento delle sue dimissioni.
Il ricorrente, nel richiamare il precedente n. 8886 del 14.4.2010 di questa Corte a supporto della richiesta di pagamento delle retribuzioni pregresse a decorrere dalla data della domanda giudiziale e contrapponendolo al diverso orientamento giurisprudenziale di legittimità seguito dalla Corte territoriale, che ravvisa una sospensione delle obbligazioni del rapporto di lavoro nel periodo compreso tra la data delle dimissioni del dipendente e la pronunzia del loro annullamento, assume che la retrodatazione degli effetti patrimoniali della sentenza di annullamento delle sue dimissioni rappresenterebbe la logica conseguenza di una corretta applicazione del generale principio per il quale la durata del processo non deve andare mai a detrimento della parte vincitrice.
2. Col secondo motivo, proposto per violazione dell’art. 1219 cod. civ., il ricorrente censura la decisione nella parte in cui fa decorrere l’efficacia della costituzione in mora del datore di lavoro, ai fini della individuazione della data di decorrenza della condanna risarcitoria del pagamento delle retribuzioni, dalla reiterazione dell’offerta della prestazione lavorativa tramite il ricorso introduttivo del giudizio o durante lo svolgimento della causa.
Assume il ricorrente che egli aveva offerto la sua prestazione lavorativa prima della proposizione della domanda giudiziale e che proprio tale iniziativa serviva a costituire in mora il datore di lavoro, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito.
Osserva la Corte che i primi due motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione.
Orbene, entrambi i motivi sono infondati.
Invero, il percorso motivazionale logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale si fonda su un preciso orientamento di questa Corte che non si ha ragione di disattendere in considerazione del fatto che è stato ribadito con sentenza n.18844 del 30/8/2010, successiva a quella n. 8886 del 14.4.2010 invocata dal ricorrente, per effetto della quale la conseguenza della continuità del rapporto di lavoro, non interrotta da un licenziamento affetto da vizi che ne determinano l’annullamento, consiste nel fatto che il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute, ma sempre considerando che la natura sinallagmatica del rapporto richiede ai fini dell’adempimento dell’obbligazione retribuiva che sia messa a disposizione la prestazione lavorativa.
Ciò in quanto il principio secondo il quale l’annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, atteso che la retribuzione presuppone la prestazione dell’attività lavorativa, onde il pagamento della prima in mancanza della seconda rappresenta un’eccezione che, come nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, deve essere espressamente prevista dalla legge, per cui nell’ipotesi di annullamento delle dimissioni le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara la loro illegittimità, (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 14438 del 6/11/2000 e n. 13045 del 17/6/2005) n. 2261 del 16/2/2012).
3. Col terzo motivo il ricorrente censura la decisione della Corte d’appello di Brescia per l’omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., sul motivo di gravame relativo alla contestata compensazione delle spese di primo grado che, a suo giudizio, avrebbero dovuto essere poste a carico della controparte rimasta sostanzialmente soccombente rispetto alla domanda principale di annullamento delle dimissioni rassegnate da esso dipendente in stato di incapacità.
4. Col quarto motivo il ricorrente ripropone la stessa censura di cui al precedente motivo nella diversa ottica del vizio di omessa motivazione, adducendo che la Corte di merito si era limitata ad esaminare la questione del riparto delle spese di lite di secondo grado all’esito della decisione di rigettare sia l’appello principale che quello incidentale.
Anche il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, essendo ad essi sottesa la stessa questione della compensazione delle spese di primo grado, seppur sotto aspetti diversi. Ebbene, entrambi i motivi sono infondati.
Invero, non è ravvisabile nella fattispecie il lamentato vizio di omessa pronunzia in considerazione del fatto che il motivo di gravame riflettente la contestata compensazione delle spese di prime cure deve ritenersi implicitamente rigettato dalla Corte di merito nel momento in cui la stessa ha confermato le statuizioni di merito del primo giudice che indussero il medesimo a pronunziarsi in quel determinato modo sul riparto finale delle spese di causa.
Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. 3, n. 19131 del 23/9/2004) che “non è configurabile il vizio di omessa pronuncia (art. 112, cod. proc. civ.) quando una domanda non espressamente esaminata debba ritenersi rigettata – sia pure con pronuncia implicita – in quanto indissolubilmente avvinta ad altra domanda che ne costituisce il presupposto e il necessario antecedente logico – giuridico, che sia stata decisa e rigettata dal giudice”.
Né sussiste il vizio di omessa motivazione in ordine allo stesso motivo di gravame riflettente la contestata compensazione delle spese di primo grado, in quanto il ricorrente non indica il fatto decisivo la cui omessa disamina avrebbe ingenerato il lamentato vizio motivazionale, essendosi il medesimo limitato esclusivamente a contrapporre la sua tesi sulla asserita soccombenza sostanziale della controparte. Pertanto, il ricorso va rigettato.
Non va emessa alcuna statuizione sulle spese del presente giudizio in considerazione del fatto che la parte convenuta è rimasta solo intimata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
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