Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 16 gennaio 2014, n. 796
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Larino, C.A. , dipendente della ASL n. X Basso Molise con qualifica di “infermiere generico”, esponeva di avere lavorato presso l’U.O. dell’Ambulatorio di Cardiologia svolgendo dal marzo 2002 al gennaio 2006, epoca del suo pensionamento, attività riconducibili al profilo di “infermiere professionale”. In ragione di ciò, agiva per ottenere la condanna della ASL a corrisponderle le differenze tra il trattamento economico percepito e quello spettante per lo svolgimento delle mansioni superiori, a norma del d.lgs. 165/2001, art. 52.
In primo grado la domanda veniva respinta, in quanto il Tribunale aderiva alla prospettazione della ASL secondo cui la lavoratrice non aveva dimostrato l’esistenza di un provvedimento di assegnazione alle mansioni del superiore profilo professionale e ciò costituiva una ragione assorbente per escludere il diritto alle differenze economiche rivendicate.
A seguito di gravame interposto dalla lavoratrice, la Corte di appello di Campobasso, accertato che l’appellante aveva effettivamente svolto in modo ordinario e continuativo attività propria della qualifica di infermiere professionale, accoglieva la domanda, ritenendo irrilevante la mancanza di un formale atto di assegnazione.
Tale sentenza è ora impugnata dalla Asl n. X Basso Molise in liquidazione, che propone ricorso affidato a quattro motivi. Resiste C.A. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
Con i primi due motivi si denuncia violazione e falsa applicazione del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, art. 56; del d.lgs. n. 387 del 1998, art. 15; del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, nonché dei CCNL 1998/2001, art. 28, e CCNL 2002/2005, art. 36, nonché vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.) per avere i giudici di appello erroneamente interpretato ed applicato alla fattispecie i principi enunciati nella sentenza n. 25837 del 2007 delle Sezioni Unite. Questa aveva riguardato l’esercizio di mansioni superiori conferite con atto illegittimo, ma non l’ipotesi di svolgimento di fatto di mansioni radicalmente prive di un provvedimento di conferimento; la pretesa di assimilare le due ipotesi non ha fondamento normativo, atteso che il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma quinto, nel disporre che “….è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore”, pone una imprescindibile relazione tra il diritto al trattamento economico per l’esercizio di mansioni superiori e l’attribuzione di queste mediante un provvedimento di “assegnazione”.
Con il terzo e il quarto motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del d.p.r. 14 marzo 1974 n. 225, art. 6; del d.m. 14 settembre 1994, n. 379; del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 6; della legge 10 agosto 2000, n. 251 del c.c.n.l. 7 aprile 1999, art. 18, comma quinto, nonché per vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.), per avere la Corte territoriale omesso di considerare che, ai sensi dell’art. 6 del d.p.r. 14 marzo 1974, n. 225, l’infermiere professionale – a differenza di quello generico – svolge la prestazione lavorativa con autonomia professionale e che, ai sensi del d.m. 14 settembre 1994, n. 379, tale figura professionale deve essere in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, tutti requisiti dei quali la C. era priva. La Corte di appello aveva pure trascurato di considerare che l’istruttoria testimoniale non aveva fornito alcuna prova in merito al livello di autonomia e di responsabilità con cui l’attuale intimata svolse le mansioni nel periodo interessato dal giudizio; di conseguenza, non poteva dirsi integrato il presupposto cui è condizionato il riconoscimento del trattamento economico proprio del superiore livello professionale.
I primi due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente poiché il denunciato vizio di motivazione investe in effetti solo una questione di diritto – quella della illegittima equiparazione tra mansioni svolte in forza di un provvedimento di conferimento e mansioni svolte in via di fatto -, sono destituiti di fondamento.
Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, pur nelle varie formulazioni susseguitesi nel tempo, recependo una costante norma del pubblico impiego, esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore. Quanto invece al divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, previsto dall’indicato art. 56, comma 6 nella sua originaria formulazione (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29), trattasi di disposizione soppressa dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma sesto ultimo periodo, disposta dalla nuova norma, è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio; la portata retroattiva della disposizione risulta peraltro conforme alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 91/2004, 18286/2006; 9130/2007; da ultimo, Cass. n. 12193 del 2011). Nell’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 25837 del 2007, la suddetta norma va intesa nel senso che l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.; tale norma deve trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (v. pure Cass. n. 23741 del 17 settembre 2008 e molte altre successive; tra le più recenti, Cass. n. 4382 del 23 febbraio 2010).
Né la portata applicativa del principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni Unite (cfr. Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cit.), sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, hanno rilevato come l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica amministrazione, l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”, e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2). La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l’applicabilità anche al pubblico impiego dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell’art. 2126 c.c., l’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003). Neppure il principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso è incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost. (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236).
Neppure vale a contrastare tale principio la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un’equa retribuzione ex art. 36 Cost. al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perché “il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell’organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale” (in tal senso, S.U., sent. n. 25837 del 2007, cit.).
Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è dunque condizionato all’esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l’assegnazione. Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente (cfr. Cass. n. 27887 del 2009).
In proposito, la Corte costituzionale ha osservato (n. 101 del 1995) che il potere attribuito al dirigente preposto all’organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell’amministrazione; la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo corrispondente alle funzioni di fatto espletate è un precetto dell’art. 36 Cost., la cui applicabilità all’impiego pubblico non può essere messa in discussione (cfr. sentenza n. 236 del 1992). L’astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue conseguenze economiche, nella forma di protrazioni illegittime dell’assegnazione a funzioni superiori, non è evidentemente un argomento che possa giustificare una restrizione dell’applicabilità del principio costituzionale di equivalenza della retribuzione al lavoro effettivamente prestato. Se fosse dimostrato che nel caso concreto l’assegnazione del dipendente a mansioni superiori è avvenuta con abuso d’ufficio e con la “connivenza” del dipendente, lo stesso art. 2126 cod. civ. imporrebbe al giudice di respingere la pretesa di quest’ultimo.
È stato così superato il rilievo, del giudice remittente, secondo cui questi limiti non basterebbero ad evitare che l’art. 2126 cod. civ., per il tramite dell’art. 2129, diventi nel pubblico impiego fonte di abusi e di favoritismi nella forma di avanzamenti di carriera di fatto, prestandosi “ad essere strumentalizzato quale grimaldello per stabilire e/o indurre connivenze tra chi ha il potere di mantenere l’assegnazione di fatto del dipendente a mansioni superiori, con tutti i conseguenti vantaggi economici, e quest’ultimo”. Il Giudice delle leggi, nel respingere tale rilievo di incostituzionalità dell’art. 2129 cod. civ., nella parte in cui prevede l’applicabilità dell’art. 2126 nel settore del pubblico impiego, ha fornito una chiara indicazione interpretativa, mettendo in rilievo come l’art. 2126 cod. civ., insieme con l’art. 2103 cod. civ., costituisca “un’applicazione ante litteram del principio, sancito dall’art. 36 Cost., che attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, indipendentemente dalla validità del contratto di assunzione o, rispettivamente, del provvedimento di assegnazione a mansioni superiori a quelle di assunzione, esclusi i casi di nullità per illiceità dell’oggetto o della causa” (sent. n. 101 del 1995, cit.).
In altra pronuncia, vertente in un caso si assegnazione di fatto di un sanitario alle mansioni superiori in mancanza di un provvedimento formale di incarico, della Corte costituzionale (sent. n. 57 del 1989) ha escluso che la mancanza della condizione formale potesse ostacolare l’accoglimento della domanda, osservando che l’adibizione temporanea a mansioni superiori per esigenze di servizio non da diritto a variazioni di trattamento economico (cioè rientra nei doveri di ufficio del sanitario) “solo entro il limite temporale massimo ivi indicato (….), onde il suo prolungamento oltre tale limite produce al datore di lavoro un arricchimento ingiustificato, che alla stregua dell’art. 36 della Costituzione, direttamente applicabile, determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualità del lavoro effettivamente prestato”, e che non può escludersi l’accoglimento della domanda per difetto di un provvedimento formale di assegnazione interinale alle mansioni inerenti al posto vacante, in quanto “la mancanza di questa condizione formale è supplita dal principio della prestazione di fatto di cui all’art. 2126 cod. civ., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego”. La prestazione ulteriore di lavoro in tali mansioni produce al datore un arricchimento senza causa, che alla stregua dell’art. 36, primo comma, Cost., direttamente applicabile, comporta l’obbligazione di adeguare il trattamento economico del dipendente alla natura del lavoro effettivamente prestato (Corte cost. ord. n. 908 del 1988).
Nel caso di specie, non ricorre alcuno dei presupposti che – alla stregua dei principi sopra esposti e qui pienamente condivisi e ribaditi – avrebbe potuto giustificare l’esclusione del diritto dell’attuale intimata alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato – e del correlativo obbligo dell’Amministrazione di integrare il trattamento economico della dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato -, non risultando nemmeno prospettato da parte convenuta in primo grado che l’espletamento di mansioni superiori avvenne all’insaputa o contro la volontà dell’Azienda (invito o proibente domino), né risultando allegata altra specifica causa di esclusione, nel senso sopra chiarito.
Il terzo e il quarto motivo sono inammissibili.
Nella sentenza impugnata non risultano in alcun modo trattate le questioni, oggetto del terzo motivo di ricorso, vertenti sul possesso di requisiti per l’esercizio dell’attività di infermiere professionale. Qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 12 luglio 2005 n. 14599 e n. 14590; n.25546 del 30 novembre 2006; n. 4391 del 26 febbraio 2007; n. 20518 del 28 luglio 2008; n. 5070 del 3 marzo 2009). La ASL ricorrente non ha indicato come le questioni sarebbero state introdotte in giudizio.
Quanto poi all’ulteriore censura riguardante le modalità di svolgimento delle mansioni superiori e la denunciata carente motivazione circa l’asserito difetto di prova in ordine all’effettiva assunzione, da parte della C. , del livello di responsabilità e del grado di autonomia corrispondenti al profilo di infermiere professionale, è sufficiente osservare che la sentenza impugnata, nel respingere l’appello incidentale proposto dall’Azienda Sanitaria Locale, ha richiamato le deposizioni testimoniali da cui era emersa la prova dell’esercizio “in modo ordinario e continuativo” delle superiori mansioni di infermiera professionale; a fronte di ciò l’Azienda ricorrente si è limitata ad affermare apoditticamente che tali testimonianze nulla avrebbero dimostrato in merito ai requisiti costitutivi del diritto azionato.
Va ricordato che il ricorso per cassazione – in ragione del principio di cosiddetta “autosufficienza” – deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito. Pertanto, il controllo della congruità e logicità della motivazione, al fine del sindacato di legittimità su un apprezzamento di fatto del giudice di merito, postula la specificazione da parte del ricorrente – se necessario, attraverso la trascrizione integrale nel ricorso – della risultanza che egli assume decisiva e non valutata o insufficientemente valutata dal giudice, perché solo tale specificazione consente al giudice di legittimità – cui è precluso, salva la denuncia di “error in procedendo”, l’esame diretto dei fatti di causa – di deliberare la decisività della risultanza non valutata, con la conseguenza che deve ritenersi inidoneo allo scopo il ricorso con cui, nel denunciare l’omessa valutazione da parte del giudice di merito di una circostanza decisiva, ci si limiti a rinviare alla prospettazione fatta negli atti di causa (cfr. Cass. n. 6679 del 2006, n. 27197 del 2006, n. 15910 del 2005).
Il ricorso va dunque respinto.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sulla base del d.m. n. 140 del 2012 e delle tabelle ad esso allegate, che si applica alle controversie pendenti alla data della sua approvazione, vanno liquidate in Euro 4.000,00 per compensi professionali e in Euro 100,00 per esborsi, oltre I.V.A. e C.P.A..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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