La massima
1. Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza che l’imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento.
2. Il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente finisca per configurarsi nell’eziologia dell’evento dannoso come una mera modalità dell’iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell’ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
SENTENZA 16 aprile 2013, n. 9167
Svolgimento del processo
M..F. , mentre si accingeva, nel piazzale di una cantina, a lavare le “canaline” di una pressa per la vinificazione, utilizzando uno strumento di gomma a pressione, veniva colpito al viso da un getto di soda caustica, causato dalla rottura del tubo di gomma, riportando gravissime lesioni agli occhi.
Nel giudizio di risarcimento dei danni promosso dal F. nei confronti della datrice di lavoro, Cantina Cooperativa Valbiferno soc. coop. a r.l., il Tribunale di Larino riteneva la piena responsabilità della società e la condannava al pagamento, a tale titolo, della complessiva somma di Euro 426.240,00, ivi compresi gli interessi e la rivalutazione monetaria.
Su impugnazione della società, la Corte d’Appello di Campobasso riconosceva il concorso di colpa del lavoratore nell’infortunio, pari al 50%, e riduceva della metà l’importo liquidatogli dal primo giudice “riguardo alla sorte capitale già rivalutata alla data della sentenza”.
La Corte territoriale osservava che la pompa a getto di soda caustica era di pertinenza della Cantina e veniva utilizzata dagli operai per la pulizia delle “canaline” della pressa dell’uva dopo averle smontate; che l’attività svolta dal lavoratore era conforme ad una prassi ampiamente seguita all’interno dello stabilimento ed utilizzata anche da altri operai; che dunque non era configurabile una condotta abnorme e imprevedibile del lavoratore, tale da porsi quale causa esclusiva dell’evento, essendo stato lo stesso datore di lavoro a mettere a disposizione dell’operaio quell’attrezzo ed a consentirne l’utilizzazione, senza vigilare adeguatamente per evitarne l’uso improprio ovvero senza operare, quanto meno, una manutenzione accurata dell’attrezzo, pur trattandosi di uno strumento pericoloso per la possibilità, per chi ne faceva uso, di venire a contatto con la soda caustica; che infatti esso, in occasione dell’infortunio, era ceduto, generando un flusso anomalo che aveva colpito il F. agli occhi, procurandogli gravissime lesioni corneali.
Riteneva dunque la Corte di merito la responsabilità della datrice di lavoro, ma aggiungeva che l’infortunio era ascrivibile anche al lavoratore.
Era stato infatti accertato, come confermato dallo stesso lavoratore, che egli aveva ricevuto in dotazione gli occhiali di plastica e i guanti di gomma, senza però farne uso; che la mancata utilizzazione degli occhiali aveva avuto una forte incidenza nella verificazione del danno, posto che tale misura protettiva avrebbe eliminato o ridotto fortemente gli effetti nocivi dell’infortunio; che, nel bilanciamento delle responsabilità, era quo determinare il concorso di colpa del lavoratore nella misura del 50%, con la conseguenza che il danno liquidato con la sentenza di primo grado doveva essere ridotto della metà.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il lavoratore.
Resiste la Cantina con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale.
Motivi della decisione
1. I ricorsi devono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
2. Con l’unico motivo del ricorso principale è denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 1218 c.c.. Si deduce che la Corte territoriale ha errato nel ritenere sussistente il concorso di colpa del lavoratore nella determinazione dell’infortunio, per non avere egli indossato gli occhiali protettivi fornitigli dal datore di lavoro.
Ed infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga effettivamente fatto uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio per violazione delle relative prescrizioni, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore.
Aggiunge il ricorrente che la condotta del dipendente può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri della inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’aticipità ed eccezionalità, così da porsi come causa unica ed esclusiva dell’evento, elementi questi non ricorrenti nella specie.
3. Con l’unico motivo del ricorso incidentale la società, denunziando insufficiente e contraddittoria motivazione, deduce che la condotta del lavoratore, il quale ha omesso di utilizzare gli occhiali protettivi, ha avuto un’efficienza causale esclusiva nella determinazione dell’infortunio. Ove infatti il lavoratore non si fosse volontariamente sottratto a tale comportamento doveroso e obbligatorio, le conseguenze dell’infortunio sarebbero state di gran lunga minori se non irrilevanti.
4. Il ricorso principale è fondato.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza che l’imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (cfr., ex plurimis, Cass. 5493/06; Cass. 9689/09; Cass. 19494/09; Cass. 4656/11).
È stato altresì affermato che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente finisca per configurarsi nell’eziologia dell’evento dannoso come una mera modalità dell’iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell’ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso (Cass. 8 aprile 2002 n. 5024; Cass. 3213/04; Cass. 1994/12).
Alla stregua di tali principi, è errata la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto il concorso di colpa dell’infortunato nella determinazione dell’evento. Ed infatti., una volta esclusa l’ipotesi della condotta abnorme, atipica ed eccezionale del lavoratore, tale da interrompere il nesso di causalità, l’infortunio era da addebitare in via esclusiva al datore di lavoro il cui comportamento – concretizzatosi, come accertato dalla sentenza impugnata, nell’avere adibito il lavoratore ad una operazione pericolosa, con un attrezzo sostanzialmente inidoneo all’uso (tanto che esso non ha retto alla pressione, generando un flusso anomalo di soda che ha colpito il F. agli occhi) e per di più non vigilando adeguatamente sull’esecuzione della prestazione e sull’utilizzo degli occhiali protettivi – doveva essere considerato quale unico fattore causale dell’evento dannoso.
Il ricorso principale, assorbito quello incidentale, deve pertanto essere accolto, con la conseguente cassazione della impugnata sentenza e con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale provvederà alla riliquidazione del danno risarcibile, escludendo il concorso di colpa dell’infortunato.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di L’Aquila.
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