Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 11 settembre 2013, n. 20827
Svolgimento del processo
Con sentenza del 23 febbraio 2010 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Benevento del 30 agosto 2004 con la quale V.P. in proprio quale socio di fatto della società di fatto CESAC, e nella qualità di erede di V.A. socio di fatto della medesima società, Cr.Gi. , V.P. , V.A. , V.I. tutti nella qualità di eredi di V.A. socio di fatto della società di fatto CESAC, e V.P. , V.I. e L.R. tutti quali soci di fatto della medesima società, sono stati condannati in solido al pagamento in favore di C.I. della somma di Euro 55.888,70 a titolo di risarcimento danni per l’omesso versamento di contributi previdenziali da parte della società suddetta e della somma di Euro 465,76 mensili dal 1 dicembre 2001 fino al decesso della ricorrente previo riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti dal 1 febbraio 1973 al 1992. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia ritenendo sussistenti tutti gli elementi caratterizzanti la natura subordinata del rapporto di lavoro tra le parti sulla base delle prove testimoniali assunte; la stessa Corte d’appello ha pure considerato applicabile l’art. 2116 cod. civ. riguardo alla sussistenza di un danno risarcibile per il mancato godimento delle prestazioni previdenziali per effetto del mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro; riguardo alla decorrenza del termine di prescrizione la Corte napoletana ha ritenuto valido il momento corrispondente a quello in cui i contributi avrebbero dovuti essere versati e non quello dell’eventuale diniego dell’INPS alla prestazione previdenziale.
V.P. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza in proprio, nella qualità di erede di V.A. ed in qualità di erede di Cr.Gi. , anch’essa a sua volta erede di V.A. , affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso C.I. .
V.I. , L.L. nella qualità di erede di V.A. , deceduta nelle more del giudizio, L.R. in proprio e nella qualità di erede di V.A. e quale esercente la potestà genitoriale sulla minore L.L. , restano intimati.
La C. ha presentato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3 cod. proc. civ., con riferimento agli artt. 81, 99 e 100 cod. proc. civ.. In particolare si deduce il difetto di legittimazione ad causam di V.P. e Cr.Gi. nella qualità di eredi di socio di fatto sostenendosi che non si assume iure hereditario la qualità di socio.
Con il secondo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 cod. civ. in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, nn 3 e 5 cod. proc. civ. In particolare si deduce l’omessa ed erronea valutazione delle risultanze istruttorie relativamente all’accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato antecedente al 1 marzo 1992. Si lamenta inoltre difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia in merito alla sussistenza di un rapporto di subordinazione.
Con il terzo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2114, 2116 e 2967 cod. civ. anche in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ. In particolare si deduce la necessità di un preventivo provvedimento di diniego dell’istituto previdenziale prima di esercitare l’azione risarcitoria ex art. 2116 cod. civ. Si lamenta inoltre difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia riguardo al medesimo punto della decisione.
Con il quarto motivo, articolato su due punti, si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1227, 2116, 2934, 2935 e 2946 cod. civ. anche in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ. In particolare si assume l’intervenuta prescrizione dell’azione risarcitoria ex art. 2116 cod. civ., che decorrerebbe dal momento di prescrizione del credito contributivo spettante all’ente assicuratore, e non dal successivo momento di verificazione definitiva della perdita della prestazione pensionistica, come è affermato nella sentenza impugnata; per cui avrebbero errato i giudici del merito nel non accogliere l’accezione di intervenuta prescrizione. Nell’ambito dello stesso motivo il ricorrente formula una seconda censura, sostenendo che il periodo di quasi vent’anni trascorso fra la cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta pacificamente nel dicembre 1993, e l’esercizio dell’azione risarcitoria ex art. 2116 cod. civ. contro il datore di lavoro nel 2002, senza che la lavoratrice avesse assunto alcuna iniziativa riparatoria o risarcitoria nei confronti dello stesso datore oppure dell’ente previdenziale, rende evidente l’inerzia colposa della medesima, idonea a ridurre o ad elidere il risarcimento ai sensi dell’art. 1227 cod. civ..
Il primo motivo è inammissibile oltre che infondato. Infatti il V. agisce anche in proprio, oltre che nella qualità di erede, per cui la sua legittimazione nella qualità di erede anche della Cr. è irrilevante ai fini della legittimazione ad causam che comunque gli compete.
Il secondo motivo è parimente infondato in quanto investe questioni di fatto, quale la sussistenza della natura subordinata del rapporto di lavoro della C. , ed il relativo accertamento attraverso la valutazione di prove testimoniali riservato al giudice del merito che, nel caso in esame, ha fornito una motivazione congrua e logica che tiene puntuale conto delle deposizioni testimoniali assunte.
Anche il terzo motivo è infondato riferendosi a circostanza irrilevante quale il preventivo diniego della prestazione previdenziale da parte dell’I.N.P.S. ai fini della configurabilità del danno per omesso versamento di contributi che, come correttamente affermato dalla sentenza impugnata, sussiste indipendentemente da un’azione nei confronti dell’istituto previdenziale.
La prima censura di cui al quarto motivo di ricorso non è fondata, mentre è fondata la seconda censura.
Ai sensi dell’art. 2116, primo comma, cod. civ. le prestazioni previdenziali sono dovute al prestatore di lavoro anche quando l’imprenditore non ha versato i contributi. Il secondo comma aggiunge che, qualora le istituzioni di previdenza, per mancata o irregolare contribuzione, non siano tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni, l’imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore. Questa seconda disposizione deve essere intesa nel senso che, qualora le dette istituzioni non possano ricevere i contributi per essere il relativo credito estinto per prescrizione, non può trovare applicazione la disposizione del primo comma, e da ciò il danno a carico del lavoratore, che il datore di lavoro è tenuto a risarcire. È da ricordare che, maturato il termine di prescrizione, come avvenuto nel caso di specie, il credito contributivo si estingue di diritto, ossia senza necessità dell’eccezione del debitore richiesta in via di regola dall’art. 2938 cod. civ. (vedi art. 3, comma 9, legge 8 agosto 1995, n. 335). Suole dirsi che in questo caso la prescrizione ha efficacia realmente estintiva del diritto soggettivo, e non soltanto preclusiva di ogni controversia su di esso. Affermato il diritto del lavoratore al risarcimento del danno da omessa contribuzione, si pone il problema del momento di decorrenza della sua prescrizione. Su tale questione la giurisprudenza di questa Corte non ha dato risposte sempre uniformi. Le oscillazioni derivano dalla difficoltà di bilanciare due contrapposti interessi: quello del lavoratore, protetto dall’art. 38 cpv. Cost., all’effettivo conseguimento del beneficio previdenziale o al ristoro del danno derivante dalla sua perdita, e quello del datore di lavoro, protetto dall’art. 24 Cost., a resistere efficacemente in giudizio contro la pretesa risarcitoria del dipendente; diritto che può essere sacrificato, specie quanto alla raccolta e conservazione delle prove, dal troppo lungo indugio nell’esercizio di detta pretesa della controparte, che si avvantaggi di un protratto exordium praescriptionis. In un primo tempo questa Corte ritenne che la prescrizione iniziasse a decorrere dal giorno in cui, estinto il diritto dell’istituto assicuratore al versamento dei contributi, può considerarsi già avverato il danno per il lavoratore: in questo giorno inizierebbe perciò a decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento (Cass. Sez. Un. 6 maggio 1975 n. 1744). A questa statuizione si è obiettato che, quando il danno da omessa contribuzione consista, come avviene quasi sempre e come è avvenuto nel caso di specie, nella perdita della pensione, esso non può considerarsi realizzato, e non è pertanto risarcibile, prima che il lavoratore abbia raggiunto l’età pensionabile; da questo momento, e non prima, può pertanto decorrere la prescrizione, in aderenza alla lettera dell’art. 2935 cod. civ. (Cass. Sez. Un. 18 dicembre 1979 n. 6568). Questo orientamento ha prevalso ed è stato confermato successivamente (ex multis Cass. 15 aprile 1999 n. 3778, Cass. 25 febbraio 2004 n. 2774) per cui sono rimaste anche superate le pronunce che collocano l’esordio della prescrizione nel giorno in cui l’istituto assicuratore comunica il provvedimento negativo del beneficio (Cass. 4 giugno 1988 n. 3790) Tutto ciò dimostra l’infondatezza della prima censura: raggiunta dal lavoratore l’età pensionabile nel 1994 e trattandosi di risarcimento del danno contrattuale ossia di prescrizione ordinaria decennale, l’azione fu tempestivamente esercitata nel 2002.
La posticipazione della decorrenza della prescrizione nuoce, certamente e come si è detto, alle possibilità difensive del datore di lavoro il quale si trova esposto a pretese risarcitorie anche a distanza di decenni dall’ultima omissione contributiva, dedotta da chi affermi di avere prestato lavoro.
La lunghezza del termine o la protrazione della sua decorrenza possono favorire una sorta di “abuso della prescrizione” da parte del titolare, che si avvantaggia nell’astenersi dall’esercizio del diritto ossia dalla cura dei suoi interessi, evitando, ad esempio, di chiedere il risarcimento del danno che aumenta con il trascorrere del tempo. L’ordinamento offre allora al soggetto passivo del diritto la possibilità di reagire attraverso l’invocazione dell’art. 1227 citato, che permette la diminuzione del risarcimento per concorso colposo nella produzione del danno.
Talvolta provvede la legislazione speciale, ad esempio nel diritto del lavoro attraverso una specifica disposizione contro il ritardo del lavoratore nell’esercizio di impugnazione giudiziale del licenziamento, sostituendo un breve termine di decadenza a quello di prescrizione (art. 32, comma 1 della legge 4 novembre 2010 n. 183, modificato dall’art. 1, comma 38 della legge 28 giugno 2012, n. 92).
Una volta maturata la prescrizione del credito contributivo spettante all’ente previdenziale, il prestatore di lavoro, che perderà in tutto o in parte il diritto alla prestazione pensionistica, dispone di un rimedio immediato, apprestato dall’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338.
Tale norma, al primo comma, attribuisce al datore di lavoro che abbia omesso di versare i contributi e non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione, il diritto di chiedere all’Istituto previdenziale di costituire una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi. A norma del quinto comma il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore la costituzione di detta rendita, può sostituirsi al datore salvo il diritto al risarcimento del danno.
Pertanto, maturata la prescrizione del credito contributivo, il lavoratore è titolare delle seguenti posizioni soggettive: a) nei confronti dell’Istituto, del diritto alla costituzione della rendita vitalizia; b) nei confronti del datore di lavoro, del diritto a che questi versi all’Istituto la riserva matematica per la costituzione della rendita; c) in caso di inadempimento del datore, del diritto alla restituzione di quanto versato all’Istituto in esecuzione del quinto comma ora citato (Cass. 29 dicembre 1999 n. 14680). L’ingiustificata mancanza si esercizio di una di queste situazioni soggettive costituisce fatto colposo del lavoratore, che concorre ad aggravare il danno da omessa contribuzione, oppure difetto dell’ordinaria diligenza idonea ad elidere il danno stesso. Questi fatti possono diminuire il risarcimento oppure escluderlo, secondo una gravità della colpa ed un’entità delle conseguenze la cui valutazione è riservata al giudice di merito (cfr. art. 1227 citato, primo e secondo comma).
La sentenza impugnata non si attiene a questo criterio di giudizio poiché in essa si legge che l’art. 2116 cod. civ. non subordina l’azione risarcitoria spettante al lavoratore, ad alcuna azione “da esperire preventivamente e necessariamente”, ciò che è vero, ma non tiene conto dell’onere di diligenza che al medesimo è imposto dall’art. 1227. Questo errore di diritto ne comporta la cassazione, con rinvio ad altro collegio della stessa Corte d’appello, che deciderà uniformandosi al seguente principio di diritto: “Il danno subito dal lavoratore per la perdita della pensione, conseguita all’omessa contribuzione previdenziale da parte del datore di lavoro (art. 2116 cod. civ.), si verifica al raggiungimento dell’anzianità pensionabile, onde da questo momento decorre la prescrizione decennale del diritto al risarcimento. Tuttavia il lavoratore che, nel momento in cui il diritto dell’ente previdenziale al versamento dei contributi è estinto per prescrizione e viene così completata la fattispecie produttiva del danno, non prova di avere chiesto invano al datore la costituzione della rendita vitalizia di cui all’art. 13 della legge n. 1338 del 1962, concorre con la propria negligenza a cagionare il danno suddetto, onde il risarcimento può essere ridotto oppure escluso ai sensi dell’art. 1227 cod. civ.”.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo del ricorso; Rigetta gli altri;
Cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.
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