La massima
Il compito del datore di lavoro va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori – e dalla conseguente necessità di adottare certe misure di sicurezza – alla predisposizione di queste misure e, soprattutto, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alla misure in esse previste e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Ne consegue che può essere esclusa la responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate dai lavoratori solo laddove egli non si sia limitato ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma si sia attivato e abbia controllato sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
SENTENZA 11 settembre 2012, n. 34747
Ritenuto in fatto
P.T. e P.R.S. venivano condannati dal Tribunale di Lecce perché ritenuti colpevoli del reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p. perché, in cooperazione colposa tra loro, nella veste di soci-amministratori della F.lli Parisi s.n.c., corrente in (omissis), nonché di datori di lavoro di A.A. , per colpa consistita in imprudenza, imperizia, negligenza, inosservanza delle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro nonché nella mancata adozione di precauzioni idonee a scongiurare il verificarsi di eventi pericolosi, avevano cagionato la morte dell’A. , avvenuta il … per “arresto dei centri cardiaci e respiratori da morte elettrica per folgorazione”, secondo la seguente prospettazione accusatoria: il … il lavoratore A.A. si trovava in cima ad una scala doppia di legno in prossimità di un telaio in legno – posto a circa 1,5 mt. dal prospetto principale di una Chiesa e sorretto da una serie di tiranti metallici ancorati al prospetto con chiodi metallici – sul quale erano montate le lampade di una luminaria con i collegamenti elettrici; durante l’attività di preparazione delle luminarie, in occasione di una festa religiosa in …, l’impianto elettrico risultava connesso ad un gruppo elettrogeno, con tensione di 380 V, utilizzato per il collaudo dell’impianto; l’operaio era rimasto folgorato alla marra destra, aveva perso l’equilibro ed era caduto all’indietro, rimanendo incastrato con gli arti inferiori ai pioli della scala, durante la fase di verifica del corretto funzionamento dell’impianto e delle lampadine (fase di verifica successiva a quella della posa in opera dei telai di legno con le relative lampadine nonché a quella della realizzazione dei collegamenti elettrici per l’accensione delle lampadine), verifica eseguita con apparecchiatura pericolosa: in particolare, per accertare il passaggio della corrente elettrica tra due punti dell’impianto, era stato utilizzato un c.d. cicalino che non offriva alcuna protezione in caso di passaggio di corrente elettrica da un conduttore verso terra, protezione che, invece, sarebbe stata adeguatamente offerta dall’uso di un tester; evento vendicatosi a seguito dell’omissione di condotte precauzionali, specificatamente prescritte dalle seguenti norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro:
– art. 344 D.P.R. nr. 547/1955, perché erano stati eseguiti lavori su elementi in tensione, con una tensione continua verso terra superiore a 50 V, senza l’adozione di particolari misure atte a garantire l’incolumità del lavoratore;
– art. 375 D.P.R.. nr. 547/1955, perché erano stati eseguiti lavori di riparazione e manutenzione ad impianto in tensione;
– art. 348 D.P.R. nr. 547/1955, perché non era stata esercitata attività di vigilanza per accertarsi che il lavoratore facesse uso, durante le lavorazioni su macchine o impianti elettrici, dei guanti isolanti;
– art. 267 D.P.R. nr. 547/1955, perché l’impianto elettrico non era idoneo a prevenire pericoli derivanti da contatti accidentali con gli elementi sotto tensione (l’operaio lavorava in prossimità di una notevole quantità di fili elettrici scoperti);
– art. 270 D.P.R. nr. 547/1955, perché i conduttori dell’impianto elettrico non presentavano un isolamento adeguato alla tensione dell’impianto;
– art. 281 D.P.R. nr. 547/1955, perché i conduttori dell’impianto erano sprovvisti di rivestimento isolante continuo adeguato alla tensione, alle condizioni dell’ambiente (umidità e pioggia) ed erano privi di adeguata protezione contro il contatto delle persone (era stata accertata l’assenza di qualsiasi forma di isolamento dei conduttori sui quali lavorava l’operaio);
– per non avere, in conformità a quanto previsto dalle regole CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano), protetto l’impianto elettrico con l’installazione di un conduttore differenziale di adeguata sensibilità a monte dell’impianto sottoposto a lavorazioni, dispositivo che avrebbe evitato la folgorazione dell’operaio producendo l’automatica sospensione del passaggio della corrente elettrica in caso di dispersione.
Secondo quanto precisato nella sentenza del Tribunale era risultato accertato – con l’escussione del personale dello SPESAL di … e del consulente del PM ing. V. – che l’A. , in quella tragica occasione, si trovava ad operare, in cima ad una scala di legno, tra una selva di fili elettrici scoperti, senza idonei guanti isolanti, con l’impianto delle luminarie sotto tensione alimentato da un gruppo elettrogeno che erogava energia elettrica a 380 Volt, in assenza delle benché minime misure di protezione atte a interrompere il flusso di energia elettrica in caso di dispersione, utilizzando uno strumento artigianale per testare i collegamenti, il c.d. cicalino, sfornito di protezione dal passaggio di scariche elettriche.
Proponevano appello i due imputati predetti incentrando le loro censure sulla natura della causa della morte dell’A. e, in conseguenza, sulla sussistenza del nesso di causalità tra le doverose condotte omesse e l’evento. Da un lato, si stigmatizzava l’adesione, da parte del Tribunale, alla tesi della morte da folgorazione propugnata dal CT del PM dr. D. , perché asseritamente non assistita, sul piano scientifico, dal riscontro della lesione di uscita della scarica elettrica; dall’altro, si proponeva una ricostruzione alternativa del dinamismo causale, riconducibile ad un improvviso malore dell’A. , favorito dalla pregressa assunzione di un farmaco che era stato ritirato dal commercio perché suscettibile di danneggiare il sistema cardiocircolatorio talvolta con conseguenze esiziali: secondo siffatta prospettazione, i segni di una scossa elettrica presenti sulla mano dell’A. sarebbero stati da ascrivere non già ad una folgorazione, bensì ad un’ustione causata dal tentativo della vittima di mantenersi in equilibrio afferrandosi ad un punto incandescente delle luminarie per poi perdere i sensi, rimanendo esanime a testa in giù, con le caviglie incastrate nei pioli, così decedendo per cause naturali.
La Corte d’Appello di Lecce disattendeva l’assunto difensivo e confermava l’impugnata decisione con argomentazioni che possono così riassumersi: nonostante il mancato esame a dibattimento del CT del PM dr. D. , perché purtroppo deceduto nelle more del processo, il quale non aveva quindi potuto ribadire in quella sede le conclusioni cui era giunto in termini di certezza e così fugare i dubbi palesati sul punto dalla difesa, non poteva nutrirsi alcun ragionevole dubbio sulla morte dell’A. , causata da folgorazione; che questa fosse stata la reale causa del decesso era apparso chiaro al predetto consulente sulla base delle tracce lasciate sul corpo del povero A. dall’attraversamento di corrente elettrica, nei termini descritti nella relazione da lui redatta, acquisita agli atti; dette risultanze avevano indotto il dr. D. a individuare inequivocabilmente nella folgorazione la causa del decesso dell’A. , ed a descrivere il meccanismo che lo aveva condotto a morte pressoché immediata; talmente univoca era stata l’indicazione — sul piano eziologico – proveniente dal marchio elettrico rilevato sul palmo della ma no destra della vittima, che il dr. D. aveva ritenuto sufficiente fermarsi all’ispezione esterna del cadavere dell’A. , senza procedere ad accertamenti autoptici e senza incontrare, sul punto, alcuna obiezione da parte del consulente della difesa dr. R.G. , presente alle operazioni; dello stesso perentorio parere era stato anche il dr. Ac..Ab. , persona di particolare esperienza e competenza in materia di infortuni sul lavoro, trattandosi di un medico del lavoro, responsabile dello SPESAL dell’ASL LE/X di …; contrariamente a quanto asserito dalla difesa, poi, le precisazioni fornite a dibattimento dalla dr.ssa M.M.A. , medico del 118 che era intervenuta sul luogo dell’incidente e che aveva compilato un referto contenente l’indicazione della causa della morte in un arresto cardiocircolatorio da folgorazione (“…non era una diagnosi di morte ma una diagnosi sul luogo…non è una diagnosi di morte precisa….”), se non consentivano di utilizzare quel referto come prova autonoma della morte per folgorazione, non introducevano però alcun dato distonico nel quadro probatorio emerso, cui invece si uniformavano, seppure non in termini di certezza per la sommarietà dell’accertamento compiuto dalla dottoressa chiamata a prestare soccorso che, comunque, aveva avuto anch’essa modo di constatare la presenza di elementi del tutto compatibili con (o comunque suggestivi di) una morte per folgorazione; si era trattato dunque di una morte per folgorazione, della quale l’istruttoria dibattimentale aveva anche chiarito la dinamica che, sul piano meccanico, aveva provocato il passaggio di corrente attraverso il corpo della vittima; dinamica chiarita da Marra Rocco, ispettore dello SPESAL; si trattava di una ricostruzione pienamente attendibile, proveniente da un tecnico qualificato, pubblico ufficiale e del tutto disinteressato all’esito del giudizio, formulata sulla base di quanto direttamente e nell’immediatezza riscontrato nel corso del sopralluogo seguito all’infortunio, non smentita da alcuna emergenza probatoria di segno contrario ed anzi convalidata dall’ing. V.A. , consulente del PM.; che l’impianto fosse in tensione era circostanza conclamata dalla lesione crateriforme a stampo rimasta impressa sul palmo della mano della vittima a seguito dell’accidentale contatto con un conduttore, circostanza che la difesa aveva, sia pur timidamente, contestato, per poi doverla ammettere nel formulare l’ipotesi alternativa del decesso per malore improvviso, prospettando che l’A. in preda ad un malore, nel tentativo di sorreggersi, si fosse appoggiato ad un punto incandescente delle luminarie; né poteva equivocarsi sull’effettivo voltaggio assicurato all’impianto in tensione dal gruppo elettrogeno che in quel momento era ad esso collegato, posto in discussione dall’ing. Mo. , consulente di parte dell’imputato, secondo il quale il voltaggio non poteva essere superiore a 230 V: a parte il fatto che anche una scarica di corrente elettrica di 220-230 V, corrispondente alle utenze domestiche, ben può avere effetti letali sulla persona, secondo dati di comune esperienza, i chiarimenti sul punto forniti dall’ing. V. , consulente tecnico del P.M. sgombravano il campo da qualunque dubbio e permettevano di affermare con certezza che la tensione era di 380 V; ulteriore elemento anch’esso convergente in direzione dell’ipotesi accusatoria era costituito dalle dichiarazioni del teste S.M. , collega di lavoro della vittima, il quale aveva confermato che in quel momento l’A. stava eseguendo “…le prove tecniche delle lampadine, ripara tutti i guasti che ci sono nell’impianto.,.stava provando solo le lampadine…” (il che confermava ancora una volta che l’impianto era sotto tensione), soggiungendo che solitamente i dipendenti della ditta usavano i cicalini per testare gli impianti: ed in effetti un rilevatore di corrente (il c.d. cicalino, ben visibile nelle foto in atti) era stato rinvenuto sulla base di appoggio della scala, insieme ad altri oggetti; tanto l’inequivocabile marchio elettrico lasciato sul corpo della vittima dal passaggio della corrente, quanto le caratteristiche (di estrema pericolosità) dell’impianto di luminarie allestito dalla ditta Parisi e del gruppo elettrogeno che lo alimentava, quanto infine la postazione di lavoro dell’A. e lo strumento da lui in quel momento utilizzato, non lasciavano alcun margine di dubbio in ordine alla morte provocata da una folgorazione; né poteva attribuirsi decisivo rilievo all’assenza di una lesione di uscita sul corpo della vittima, dato sul quale la difesa aveva maggiormente incentrato lo sforzo dimostrativo dell’insostenibilità, sul piano scientifico, della tesi sposata dal giudice di prime cure; in realtà di trattava di una distonia solo apparente, posto che: a) secondo la scienza medico-legale le persone colpite da corrente elettrica non vengono uccise sul colpo, ma rimangono in genere in uno stato di asfissia per arresto respiratorio, mentre il cuore pulsa ancora, ed i segni di morte per asfissia, nel caso in esame, erano stati ammessi dallo stesso consulente di parte degli imputati; b) è solo la lesione d’ingresso ad essere sempre presente nella morte per folgorazione, non anche quella di uscita; c) le lesioni da folgorazione, inoltre, si differenziano dalle ustioni perché sono caratterizzate dalla forma rotonda, a cratere, e altre volte hanno quella del conduttore venuto a contatto della pelle: di tal che, la tesi dell’ustione propugnata dal consulente di parte degli imputati appariva del tutto insostenibile, atteso che il marchio elettrico rinvenuto sul palmo della mano della vittima, da manuale, secondo il ricordo del dr. Ab. , aveva la tipica impronta crateriforme, per di più perfettamente sovrapponibile alla testa del chiodo sul quale l’A. aveva inavvertitamente poggiato la mano; inoltre, sempre secondo la scienza medico-legale, talvolta sono del tutto assenti i segni del passaggio della corrente, come nel caso di correnti a bassa tensione, ai limiti dell’azione dannosa sull’organismo; se si considerava che l’infortunio era avvenuto in un pomeriggio di agosto e che verosimilmente l’A. era sudato, appariva probabile che la cute bagnata avesse offerto una resistenza così ridotta da non provocare una lesione da uscita della scarica: ipotesi, questa, della dispersione della corrente elettrica per irradiazione nei liquidi corporei già prospettata dal PM nel corso dell’esame orale del consulente tecnico di parte dr. R. , il quale aveva ammesso che vi sono casi di folgorazione in cui è assente la lesione d’uscita, come la folgorazione in acqua; ma soprattutto, il predetto consulente di parte non aveva contestato la ben più probabile ipotesi avanzata dal PM che la corrente fosse fuoriuscita dalla bocca o dall’esofago della vittima, essendosi egli soltanto limitato ad asserire di ricordare che la bocca era stata esaminata dal dr. D. , senza rinvenire alcuna traccia del passaggio di corrente: ma ciò non rispondeva al vero, in quanto il dr. D. non aveva proceduto ad alcuna ispezione della bocca o dell’esofago della vittima, come si desumeva dall’elaborato peritale da lui redatto e acquisito agli atti; dunque: se la morte per folgorazione non postula necessariamente la lesione d’uscita della corrente elettrica; se questa può disperdersi per irradiazione nei liquidi corporei o attraverso la cute bagnata (nel caso in esame a causa dell’elevata sudorazione causata dall’espletamento di attività lavorativa all’aperto, nel primo pomeriggio di un giorno di agosto); soprattutto, se essa può fuoriuscire dalla bocca o dall’esofago e se, nel caso in esame, alcuna indagine era stata compiuta all’interno della cavità orale tale da escludere tale evenienza, appariva ineludibile la conclusione che la morte per folgorazione era pienamente compatibile con l’univoco quadro probatorio acquisito che non appariva minimamente scalfito dal mancato ritrovamento della lesione di uscita, ben potendo la stessa essere assente per le molteplici ragioni quali ricordate: del resto, tale era la valenza dimostrativa dell’inconfondibile marchio elettrico ritrovato sul palmo della mano della vittima, che non solo il dr. D. aveva ritenuto sufficiente la sola ispezione esterna del cadavere, ma neppure il consulente di parte dr. R. aveva avvertito in quella sede l’esigenza di ulteriori approfondimenti di natura autoptica, evidentemente non attribuendo significativo rilievo all’assenza della lesione di uscita ai fini della formulazione del giudizio di morte per folgorazione cui il consulente del PM era senza alcuna esitazione pervenuto; dunque, mentre la soluzione abbracciata dal Tribunale resisteva ad ognuno dei rilievi difensivi, ed anzi risultava corroborata dalle ulteriori considerazioni svolte, la tesi alternativa propugnata dalla difesa – vale a dire morte dovuta ad un malore dell’operaio in conseguenza dell’assunzione del farmaco antinfiammatorio denominato Bextra – si rivelava del tutto inconsistente, non risultando ancorata ad alcun dato scientifico ed apparendo del tutto sganciata dai dati fattuali acquisiti con l’istruttoria dibattimentale; ed invero: Ma.Pa. – medico ortopedico che aveva avuto in cura l’A. cui, per curare l’artrosi all’anca destra ai primi dell’anno 2005 aveva prescritto un antinfiammatorio denominato Bextra (circostanza, questa, peraltro riferita dal medico in termini di probabilità, non di certezza) – aveva ricordato che dopo il ritiro dal commercio di detto farmaco, avvenuto nell'(omissis) , l’A. era andato a trovarlo, dicendogli che stava proseguendo la cura con quell’antinfiammatorio, che egli riusciva ugualmente ancora a reperire; il dottor Ma. aveva tuttavia precisato che detto farmaco era stato ritirato dal commercio volontariamente dalla casa farmaceutica produttrice perché controindicato esclusivamente per pazienti che avessero subito un infarto del miocardio o un ictus cerebrale e che solo in questi soggetti avrebbe potuto causare danni; l’A. era invece in perfette condizioni di salute (tranne l’artrosi) e non aveva mai subito né infarti né ictus, come riferito dalla di lui moglie m.c. , secondo cui il marito godeva di ottima salute e non era affetto da particolari patologie, così come confermato dal medico che lo aveva avuto in cura; l’alternativo percorso causale prospettato dalla difesa non solo non appariva assistito da alcun riscontro obiettivo, ma si risolveva in un mero postulato; la violazione delle molteplici regole cautelari indicate in imputazione risultava provata in atti, e non aveva formato oggetto di contestazione, al pari del nesso di condizionamento che legava le plurime condotte omissive ascritte agli imputati all’evento morte: evento che ben si sarebbe potuto evitare se il lavoratore fosse stato munito di guanti isolanti, non avesse utilizzato strumenti artigianali per testare le lampade, non avesse lavorato su di un impianto sotto tensione e se fossero stati predisposti – sull’impianto e sul gruppo elettrogeno – i dispositivi atti a interrompere automaticamente l’erogazione di corrente elettrica in caso di dispersione.
Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, con unico atto di gravame sottoscritto dal comune difensore, deducendo censure di vizio motivazionale che possono così sintetizzarsi: a) in mancanza di certezze circa la dinamica dell’infortunio, e basandosi su congetture e supposizioni, i giudici di merito anziché pervenire pacificamente ad una assoluzione per insufficienza della prova, si sarebbero spinti a fornire ipotesi fantasiose, sfornite di qualsivoglia supporto scientifico, tese a superare invalicabili elementi di prova contraria, come quelli indicati dalla difesa: ed invero, sul corpo dell’A. , se di folgorazione di fosse trattato, si dovevano rinvenire chiaramente i segni di uscita della scarica elettrica; le ipotesi formulate dalla Corte territoriale – circa l’eventualità che la scarica potesse essere uscita da altre parti del corpo, quale esofago o dalla bocca – non avevano alcun rilievo poiché sfornite di supporto probatorio, in conseguenza del mancato esame autoptico; in buona sostanza, la motivazione della Corte d’Appello di Lecce risulterebbe certamente illogica e contraddittoria, laddove, per un verso, ammette che non era stata eseguita l’autopsia e che mancava sul corpo della vittima dell’incidente il segno di uscita della scarica elettrica, unico elemento idoneo a dare la certezza della morte per folgorazione; per altro verso, a fronte di ineludibili carenze in ordine alla cause che avevano portato alla morte il povero A. , si affanna ad avanzare ipotesi che restano tali e non prove di colpevolezza; b) l’incidente si era verificato alle ore 15,00 del 3.8.2005, dunque in piena calura estiva e dall’istruttoria dibattimentale era emerso che l’A. aveva iniziato ad assumere alcuni mesi prima dell’incidente un farmaco denominato Bextra, utilizzato per lenire un’artrosi all’anca destra; il predetto farmaco nell’aprile del 2005 era stato ritirato dalla casa farmaceutica in quanto poteva causare dei problemi al sistema cardiocircolatorio, con lesioni anche fatali; il Dott. Ma. , specialista ortopedico che aveva avuto in cura l’A. e gli aveva prescritto il Bextra, aveva riferito che in occasione di un incontro avvenuto nel mese di maggio l’A. gli aveva confidato che nonostante fosse stato ritirato dal commercio “qualcosa riesco a trovarla”; quindi l’A. aveva fatto uso e continuava ad utilizzare il farmaco, che ben poteva provocare un malore fatale, proprio in condizioni di grande stress fisico, come quelle presenti in occasione del tragico evento; questa ipotesi era stata avanzata anche dal Dott. R. , il quale riteneva sovrapponitele la lesione nel palmo della mano destra con una ustione elettrica, laddove aveva ipotizzato che l’A. , in preda ad un malore, nel tentativo di sorreggersi, potesse essersi appoggiato su di un punto incandescente delle luminarie, per poi accasciarsi sulla scala rimanendo a testa in giù incastrato con la caviglia nei pioli: a fronte di siffatte prospettazioni, la Corte d’appello di Lecce avrebbe reso motivazione illogica affermando che l’A. poteva accusare un malore solo se fosse già stato colpito da ictus o infarto precedenti, così non rammentando che proprio il Bextra era stato ritirato dal commercio per i gravi effetti collaterali, tra i quali la triplicazione del rischio di infarto anche in persone sane, oltre a gravi altri patologie; e) altro punto della motivazione della Corte d’Appello di Lecce, asseritamente illogico, sarebbe quello relativo alla tensione dell’impianto elettrico; avrebbero errato i Giudici del gravame nel ritenere che l’impianto poteva essere collegato ad una tensione di 380 volt: non occorre essere dei tecnici per evidenziare che il funzionamento di una lampadina domestica richiede una tensione di 220 volt, mentre un impianto di luminarie, trattandosi di lampade in buona sostanza assimilabili per quantità di luce erogata a quelle delle luminarie domestiche natalizie, sfrutta per il suo funzionamento una tensione assai più bassa, pari nel massimo ai 14 volt; sostengono i ricorrenti che l’A. operava su di un impianto di luminarie a bassa tensione, poiché il generatore che forniva elettricità a 380 volt doveva necessariamente essere collegato ad un trasformatore di tensione, sì da ridurre la stessa a 14 volt; sicché anche in presenza di dispersioni di corrente, l’A. non poteva trarre alcun danno fisico dalla presenza di tensione sull’impianto, che in ogni caso non avrebbe mai avuto la potenza necessaria per causarne la morte; sembrerebbe assai più probabile che l’A. , proprio in conseguenza di un malore, abbia posto la ma no su di un cavo con tensione assai più elevata, sicuramente della rete elettrica domestica, che in condizioni di lavoro normale non avrebbe mai toccato: il che porterebbe ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra le carenze in punto di sicurezza imputabile agli imputati ed il decesso del lavoratore, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Considerato in diritto
Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.
Mette conto innanzi tutto evidenziare che i ricorrenti hanno sostanzialmente riproposto le tesi difensive già sostenute in sede di merito e disattese dal Tribunale prima e dalla Corte d’appello poi. Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. e), all’inammissibilità” (in termini, Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. – dep. 03/05/2000 – Rv. 216473; CONF: Sez. 5, fl. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708).
E va altresì evidenziato che il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni sollevate dalla difesa seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell’esame della posizione dei P. ; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, questa si integra con il percorso motivazionale seguito dai giudici di seconda istanza, i quali non hanno mancato di fornire autonome valutazioni a fronte delle deduzioni degli appellanti: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (“ex plurimis”, Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud. – dep. 23/04/1994 – Rv. 197497).
Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta dunque formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali – quali sopra riportati (nella parte narrativa) e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni – forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti l’infortunio oggetto del processo: la Corte distrettuale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell’infortunio, posizione di garanzia dei P. , nesso di causalità tra la condotta contestata e l’evento) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità degli odierni ricorrenti. La Corte territoriale ha puntualmente ragguagliato il giudizio di fondatezza dell’accusa al compendio probatorio acquisito – costituito in particolare dalle indicazioni fornite dai consulenti del P.M. e dalle dichiarazioni dei testi esaminati – a fronte del quale non possono trovare spazio le deduzioni difensive, per lo più finalizzate a sollecitare una lettura del materiale probatorio diversa da quella operata dalla Corte distrettuale, ed in quanto tale non proponibile in questa sede. Ed invero, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, ma solo quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, dandone una corretta e logica interpretazione, con esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti; se abbiano, quindi, correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996; id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12). E poiché il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606.1, lett. e), c.p.p. dall’art. 8 della L 20.2.2006, n. 46 – da “altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame”, tanto comporta, quanto al vizio di manifesta illogicità, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30; id., Sez. Un., 30.4.1997, n. 6402; id., Sez. Un., 24.11.1999, n. 24; in termini sostanzialmente identici, ancorché con riferimento alla materia cautelare, Sez. Un., 19.6.1996, n. 16; e non dissimilmente, Sez. Un., 27.9.1995, n. 30; id., Sez. Un., 25.10.1994, n. 19/1994; e, con riguardo al giudizio, Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996; id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12). Inoltre, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606.1, lett. e), c.p.p., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, proprio perché l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi – come s’è detto – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez. Un., 24.9.2003, n. 47289; id., Sez. Un., 30.11.2000, n. 5854/2001; id., Sez. Un., 24.11.1999, n. 24).
Per completezza argomentativa si impongono solo talune ulteriori precisazioni in relazione alle questioni poste dai ricorrenti.
Per quel che riguarda la tesi difensiva circa l’asserita mancanza di prova in ordine alla causa della morte individuata dai giudici di merito nella folgorazione, la Corte distrettuale ha risposto a tale rilievo evincendo dagli elementi dimostrativi quelli specificamente afferenti la causa della morte, con particolare rifermento agli accertamenti tecnici ed alle indicazioni desumibili dalle relazioni dei consulenti tecnici del P.M., ing. V. e dr. D. . A tal riguardo, ritiene il Collegio – conformemente all’indirizzo interpretativo affermatosi e consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, senza alcuna oscillazione – che, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice di merito ha la possibilità di scegliere (pur in mancanza di una perizia di ufficio, come nella concreta fattispecie), fra le diverse tesi prospettate da differenti consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni della scelta operata, dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti: ne deriva che, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, come è avvenuto nel caso in esame, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poiché si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di Cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale: vizio nella specie, per quanto detto, insussistente (Cass. sez. 4^ 20 maggio 1989 n. 7591 rv. 181382). Di tal che, nemmeno rilevano le osservazioni dei ricorrenti circa il voltaggio della corrente che attraversava l’impianto delle luminarie.
L’ulteriore prospettazione difensiva – secondo cui l’A. sarebbe entrato in contatto con la corrente elettrica solo in conseguenza della perdita di equilibrio causata da un malore determinato dall’assunzione di un farmaco – non è altro che una mera congettura priva di qualsiasi serio e concreto riscontro probatorio, ma anzi smentita dal compendio probatorio acquisito e dalla Corte territoriale vagliato con criteri di rigore e logicità, come sopra evidenziato. Resta solo da aggiungere che, pur se si volesse tener presente – in via di mera ipotesi – una siffatta dinamica dell’infortunio, non per questo verrebbe meno la penale responsabilità degli imputati. È invero emerso che: a) i conduttori dell’impianto erano sprovvisti di rivestimento isotante adeguato alla tensione, alle condizioni dell’ambiente (umidità e pioggia) ed erano privi di adeguata protezione contro il contatto delle persone (era stata accertata l’assenza di qualsiasi forma di isolamento dei conduttori sui quali lavorava l’operaio); b) l’A. lavorava sprovvisto, tra l’altro, dei guanti isolanti che avrebbero impedito la folgorazione pur in caso di contatto delle mani del lavoratore con la corrente elettrica. Orbene, secondo il consolidato indirizzo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte, “le prescrizioni poste a tutela del lavoratore sono intese a garantire l’incolumità dello stesso anche nell’ipotesi in cui, per stanchezza, imprudenza, inosservanza di istruzioni, malore od altro, egli si sia venuto a trovare in situazione di particolare pericolo” (in termini, Sez. 4, n. 114/86, ud. 6/5/1985, RV. 171538). Il compito del datore di lavoro è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori – e dalla conseguente necessità di adottare certe misure di sicurezza – alla predisposizione di queste misure (con obbligo, quindi, ove le stesse consistano in particolari cose o strumenti, di mettere queste cose, questi strumenti, a portata di mano del lavoratore), e, soprattutto, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alla misure in esse previste e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Il datore di lavoro deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore, e non deve perciò limitarsi ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro (cfr., Sez IV, 3 marzo 1995, Grassi). Sul punto ebbero modo di intervenire anche le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un, n. 6168 del 21/05/1988 Ud. – dep. 21/04/1989 – Rv. 181121) enunciando il principio secondo cui “al fine di escludere la responsabilità per reati colposi dei soggetti obbligati ex art. 4 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 a garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro, non è sufficiente che tali soggetti impartiscano le direttive da seguire a tale scopo, ma è necessario che ne controllino con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza” (conf. Sez. IV, 25.9.1995, Morganti, secondo cui le norme antinfortunistiche impongono al datore di lavoro una continua sorveglianza dei lavoratori allo scopo di prevenire gli infortuni e di evitare che si verifichino imprudenze da parte dei lavoratori dipendenti).
Infine, resta da dire che quella del contatto del lavoratore con la rete elettrica domestica – ipotizzato dai ricorrenti – è una mera congettura priva di qualsiasi riscontro posto che i ricorrenti nulla hanno allegato circa l’individuazione e l’esatta collocazione di tale ipotizzata rete elettrica domestica; peraltro, vale anche al riguardo quanto già prima detto in relazione all’ipotesi del malore del lavoratore, nel senso che un eventuale contatto con qualsiasi fonte di elettricità non avrebbe determinato la folgorazione del lavoratore nel caso di uso dei prescritti guanti isolanti.
Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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