Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 6 marzo 2015, n. 9855
Ritenuto in fatto
1. Il G.i.p. presso il Tribunale di Milano, con sentenza in data 10.02.2012, resa all’esito di giudizio abbreviato, assolveva C.N. , T.E. e Pa.St. dal reato di omicidio colposo loro ascritto, per non aver commesso il fatto. Agli odierni imputati, nelle rispettive qualità di operatori dei Servizi Sociali del Comune di (omissis) e, in particolare, a C.N. assistente sociale, T.E. psicologa e Pa.St. educatore, si contesta di aver concorso a cagionare la morte del minore S.B.F. , materialmente provocata da B.Y. , padre del bambino, in data (omissis) , nel corso dell’incontro avvenuto presso gli uffici della Asl di (omissis) . Segnatamente, ai prevenuti si addebita di non aver adottato tutti gli idonei provvedimenti a tutela del minore, in relazione agli incontri settimanali con il padre, di aver omesso di prendere i doverosi contatti con i soggetti venuti a conoscenza della situazione del minore, di aver omesso di valutare il pericolo rappresentato da B. nei confronti del figlio e quindi di non aver predisposto le opportune cautele nella gestione del rapporto padre-minore. Al solo Pa. , si addebita di aver consentito al B. l’accesso agli uffici della Asl, in condizioni di insufficiente controllo, lasciando momentaneamente solo il bambino con il padre, occasione che permetteva al B. di realizzare l’aggressione mortale ai danni del figlio.
Il giudice di primo grado, dopo essersi soffermato sulla fattispecie del concorso colposo nel delitto doloso, osservava che nel decreto del Tribunale per i Minorenni di Milano del 5.02.2007, che affidava il minore al Comune di (omissis) , non emergeva la necessità di tutelare l’incolumità fisica del bambino. Il G.i.p. considerava, in particolare, che dai dati conosciuti dagli imputati non emergevano elementi dai quali inferire alcuna possibile manifestazione di violenza del padre, nei confronti del figlio.
2. La Corte di Appello di Milano, con sentenza in data 17.07.2013, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata dal Procuratore Generale e dalla parte civile, dichiarava T.E. colpevole del reato ascrittole, con condanna dell’imputata alle pene di giustizia ed al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio, assegnando una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 50.000,00; la Corte territoriale condannava la parte civile P. a rifondere all’imputato Pa. le spese del procedimento civile n. 19566/2011 e confermava nel resto.
La Corte territoriale, dopo aver ripercorso i termini della intera vicenda processuale, che muove dalla originaria richiesta di archiviazione proposta dal pubblico ministero di Milano, rilevava che a fronte della situazione di fatto emergente dall’incarto afferente al decreto del Tribunale per i Minorenni, sopra richiamato, e dalla relativa procedura di reclamo avanti alla Corte di Appello, i servizi sociali avrebbero dovuto coinvolgere le forze dell’ordine. Ciò posto, il Collegio considerava che alla psicologa T. spettavano istituzionalmente le decisioni sulle concrete modalità di vigilanza imposte dal Tribunale per i Minorenni; e che la predetta imputata aveva omesso di monitorare l’evoluzione del rapporto tra padre e figlio. La Corte territoriale considerava che la psicologa T. , pur essendo a conoscenza della situazione che caratterizzava B.Y. , aveva omesso di attivare i necessari contatti con altri organi istituzionali. Nel confermare l’assoluzione dei coimputati, il Collegio osservava che a C. e Pa. spettavano compiti meramente esecutivi, rispetto alle decisioni assunte dalla T. .
3. Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale, denunciando il vizio motivazionale.
L’esponente osserva che la Corte di Appello ha confermato la decisione assolutoria, nei confronti dei coimputati C. e Pa. , argomentando in termini così sintetici, da non consentire di comprendere le ragioni di tale valutazione. Il ricorrente considera che l’assistente sociale C. si occupava dei genitori del bambino con le stesse modalità della psicologa T. ; sottolinea che l’assistente sociale Pa. avrebbe dovuto essere presente all’incontro del (omissis) ; e rileva che se Pa. fosse stato realmente presente, B. non avrebbe potuto consumare il delitto nei confronti del figlio e quindi togliersi la vita.
4. Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso per cassazione T.E. , a mezzo del difensore.
L’esponente, dopo aver rilevato che si registrano decisioni della Corte regolatrice che si sono espresse sulla tematica in esame in senso favorevole, rileva che l’ipotesi del concorso di persone nel reato, fondato su elementi psicologici diversi, risulta ontologicamente incompatibile con il sistema penale. La parte osserva che l’ipotesi del concorso colposo nel delitto doloso risulta priva di copertura normativa; e considera che la tesi avversata integra una violazione del principio di tassatività. La deducente rileva che la specifica ipotesi di cui all’art. 113 cod. pen. impedisce di ritenere ammissibile un concorso per colpa che travalichi il confine delineato dalla medesima norma richiamata; che l’art. 42, comma 2, cod. pen. prevede una espressa limitazione per la punibilità dei delitti a titolo di colpa; e che laddove il legislatore ha voluto sanzionare penalmente l’agevolazione colposa di una altrui condotta dolosa, lo ha espressamente previsto, agli artt. 254, 259 e 350 cod. pen..
Tanto premesso, con il primo motivo viene dedotta la violazione di legge, con riguardo alla posizione di garanzia che si è ritenuta gravante sull’imputata.
L’esponente osserva che erroneamente la Corte di Appello ha classificato tale elemento come costitutivo della colpa, laddove si tratta di un elemento costitutivo della condotta omissiva. La parte rileva che la posizione di garanzia individuata a carico di T.E. integra un obbligo di protezione e non di controllo; e rileva che il fatto doloso del terzo risulta perciò idoneo ad interrompere il nesso causale, rispetto alla condotta del garante.
La ricorrente, analizzando il contenuto della posizione di garanzia riferita alla psicologa, osserva che la Corte di Appello ha esaminato il tema di interesse in termini confusi; e sottolinea che l’affido del minore ai Comune di (omissis) , non aveva altrimenti escluso la potestà genitoriale, che era rimasta in capo ad entrambi i genitori; e che l’autorità giudiziaria non aveva previsto alcuna cautela, per l’incolumità del minore. L’esponente ribadisce che a suo carico gravava un mero obbligo di protezione del minore e non di controllo del B. . Osserva che la psicologa T. neppure avrebbe potuto interrompere gli incontri tra il bambino ed il padre, a meno di non rendersi responsabile della violazione dell’art. 388 cod. pen..
Con il secondo motivo viene denunciata la violazione di legge ed il vizio di motivazione, in riferimento alla prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
L’esponente richiama i dati di fatto valorizzati dalla Corte territoriale, relativi al comportamento, alle dipendenze ed alle abitudini di vita del padre del bambino, osservando che se anche detti elementi fossero stati conosciuti dalla imputata, gli stessi non avrebbero consentito di prevedere la pulsione omicida di B. , nei confronti del figlio. Parte ricorrente considera che la motivazione espressa dalla Corte territoriale risulta carente anche in riferimento alla evitabilità dell’evento. Al riguardo, osserva che il padre si presentò all’incontro munito di un’arma da fuoco e di un’una arma bianca; e considera che di fronte alla accurata premeditazione dell’omicidio non vi era alcuna concreta possibilità di evitare l’evento, salvo l’interruzione degli incontri tra padre e figlio, evenienza che però esorbitava dai compiti dei servizi sociali.
Con il terzo motivo viene denunciato il travisamento della prova.
La parte rileva che la Corte territoriale afferma che gli operatori dei Servizi sociali non si avvidero della evoluzione negativa che caratterizzava i rapporti tra padre e figlio. Sul punto, l’esponente osserva che dal compendio probatorio risulta, in realtà, che nel corso dell’anno precedente all’omicidio i rapporti tra padre e figlio ebbero uno sviluppo del tutto positivo. Nell’evidenziare il vizio di travisamento della prova che inficia la sentenza in esame, l’esponente sottolinea che nel caso in cui la Corte di secondo grado riformi una sentenza assolutoria, l’obbligo motivazionale risulta rafforzato, dovendo superarsi il dubbio ragionevole sulla innocenza dell’imputato, che discende dalla mera valutazione alternativa del medesimo compendio di prove, come chiarito dalla Corte regolatrice.
5. Avverso la sentenza della Corte territoriale ha proposto ricorso per cassazione la parte civile P.A. .
L’esponente con il primo motivo denuncia il vizio motivazionale, in riferimento alla assoluzione degli imputati C.N. e Pa.St. .
La ricorrente osserva che la Corte di Appello ha del tutto omesso di esaminare la posizione dei predetti imputati, pure a fronte dei motivi di doglianza che erano stati dedotti dalla parte civile e dal Procuratore Generale. Rileva che in riferimento a C. e Pa. nella sentenza si rinviene un mero passaggio, tra parentesi, a pagina 31.
Parte ricorrente si sofferma, quindi, diffusamente sul contenuto del compendio probatorio e sulla cornice normativa che regola complessivamente i profili professionali dei menzionati coimputati, evidenziando gli elementi ritenuti indicativi della corresponsabilità dei predetti operatori dei servizi sociali. La deducente rileva che anche C. ebbe a sottovalutare le intemperanze manifestata dal padre del bambino. L’esponente richiama le linee guida emanate dalla provincia di Milano, che disciplinano gli incontri protetti, osservando che l’esigenza di garantire la protezione del minore può condurre anche alla interruzione degli incontri. La parte civile considera che la Corte di Appello ha pure omesso di analizzare la posizione del Pa. . Ciò posto, esamina criticamente la condotta complessivamente posta in essere dall’educatore Pa. , in riferimento ai comportamenti del B. .
Con il secondo motivo l’esponente si duole della condanna, pronunciata dalla Corte di Appello nei confronti della parte civile, al pagamento delle spese del giudizio civile n. 19566/2011, a favore dell’imputato Pa. . Osserva che la Corte territoriale avrebbe dovuto disporre la compensazione delle spese in ragione della complessità della materia.
Con il terzo motivo la parte ricorrente denuncia il vizio motivazionale, in relazione alla quantificazione delle spese in favore della parte civile, poste a carico dell’imputata T. . Osserva che la Corte di Appello ha provveduto alla liquidazione delle spese solo in riferimento al grado di appello, omettendo di liquidare le spese relative al procedimento avanti al Tribunale, che si era concluso con la richiamata pronuncia assolutoria.
Con il quarto motivo la parte civile deduce il vizio di motivazione, in riferimento alla quantificazione delle spese liquidate in suo favore della Corte di Appello.
Considerato in diritto
1. Si procede, primieramente, all’esame del ricorso proposto dall’imputata T.E. , ritenuta responsabile, dalla Corte di Appello di Milano, del concorso omissivo colposo nella determinazione della morte di S.B.F. , evento materialmente provocato dal padre B.Y. , il quale, il giorno (omissis) , negli uffici della Asl di (omissis) , ove si era recato per l’incontro settimanale con il figlio, aveva ferito a morte il bambino, attingendolo sia con colpi di arma da fuoco sia con ripetuti fendenti, utilizzando un’arma bianca.
1.1 Con il primo motivo è stata dedotta la violazione di legge, rispetto alla posizione di garanzia che si è ritenuta gravante sull’imputata T. .
Il rilievo è fondato, per le ragioni che si vengono ad esporre.
Occorre premettere che, ad una ormai risalente posizione critica assunta dalla giurisprudenza di legittimità, rispetto alla configurabilità del concorso colposo rispetto al delitto doloso (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 9542 del 11/10/1996, dep. 07/11/1996, Rv. 206798), hanno fatto seguito ripetuti arresti, ove si è ritenuto che il concorso colposo risulti configurabile anche rispetto al delitto doloso; e ciò, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell’evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello di vera e propria cooperazione colposa, purché in entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che la regola cautelare violata deve essere necessariamente diretta a prevenire anche il rischio dell’atto doloso del terzo e che quest’ultimo deve risultare prevedibile per l’agente che risponde a titolo di colpa (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10795 del 14/11/2007, dep. 11/03/2008, Rv. 238957; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 4107 del 12/11/2008, dep. 28/01/2009, Rv. 242830; Cass. Sez. 4, sentenza n. 34385 del 14.07.2011, dep. 20.09.2011, Rv. 251511).
Chiarito, nei sintetici termini sopra esposti, che, secondo diritto vivente, risulta astrattamente configurabile il concorso colposo nel delitto doloso, occorre verificare se, nel caso di specie, la psicologa T. possa essere chiamata a rispondere del delitto di omicidio colposo, rispetto all’evento morte, come in concreto verificatosi, per essere venuta meno ai doveri impeditivi che le derivavano dalla posizione di garanzia, assunta nei confronti del minore S.B.F. .
La giurisprudenza di legittimità, sin dagli anni novanta del secolo scorso, è venuta elaborando la “teoria del garante”, muovendo dall’osservazione – e dalla valorizzazione – del significato profondo che deve riconoscersi agli “obblighi di garanzia”, discendenti dallo speciale vincolo di tutela che lega il soggetto garante, rispetto ad un determinato bene giuridico, per il caso in cui il titolare dello stesso bene sia incapace di proteggerlo autonomamente (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 4793 del 06/12/1990, dep. 29/04/1991, Rv. 191792).
Per quanto rileva in questa sede, occorre poi evidenziare che la Suprema Corte, nello sviluppo di tale teoria, ha chiarito che, nell’individuazione dei reali destinatari degli obblighi protettivi, vengono in rilievo le funzioni in concreto esercitate dal soggetto agente (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 9874 del 01/07/1992, dep. 14/10/1992, Rv. 191185); che spetta all’interprete procedere alla selezione delle diverse posizioni di garanzia, per tutti i casi della vita – non tipizzati dal legislatore – corrispondenti ad una situazione di passività, in cui versi il titolare del bene protetto; e che l’interprete, in tale ambito ricostruttivo, deve individuare il contenuto degli obblighi impeditivi specificamente riferibili al soggetto che versa in posizione di garanzia. Tanto chiarito, preme pure evidenziare che la Corte regolatrice, nel rilevare la complessità delle valutazioni conducenti alla selezione delle posizioni di garanzia, da intendersi come locuzione che esprime in modo condensato l’obbligo giuridico di impedire l’evento e che fonda la responsabilità in ordine ai reati commissivi mediante omissione, ai sensi dell’art. 40 capoverso cod. pen., ha espressamente considerato: che occorre guardarsi dall’idea ingenua, e foriera di fraintendimenti, in base alla quale la sfera di responsabilità penale di ciascuno possa essere sempre definita e separata con una rigida linea di confine e che questa stessa linea crei la sfera di competenza e responsabilità di alcuno escludendo automaticamente quella di altri; che particolarmente complessa risulta la selezione dei garanti e l’individuazione di aree di competenza pienamente autonome, che giustifichino la compartimentazione della responsabilità penale, specialmente nell’ambito della figura della cooperazione colposa; e che l’interprete deve avere sempre presente lo scopo del diritto penale, che “è proprio quello di tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori” (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 49821 del 23/11/2012, dep. 21/12/2012, Rv. 254094, in motivazione).
Nella materia di interesse, deve pertanto affermarsi il seguente principio di diritto: ai fini dell’operatività della così detta clausola di equivalenza di cui all’art. 40, cpv. cod. pen., nell’accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l’interprete deve tenere presente la fonte dai cui scaturisce l’obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante- e, in tale ambito ricostruttivo, al fine di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo – come scaturente dalla determinata fonte di cui si tratta – occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l’obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza.
1.2 Applicando i principi di diritto, ora richiamati, al caso di specie, deve rilevarsi che la valutazione espressa dalla Corte di Appello, circa la posizione di garanzia assunta da T.E. , rispetto alla sfera del minore S.B.F. , nel riformare la pronuncia assolutoria del primo giudice, risulta vulnerata dalla dedotta violazione di legge, refluente dalla errata selezione degli obblighi impeditivi posti a carico della predetta psicologa. Il Collegio, infatti, nell’analisi della specifica fonte da cui scaturisce, nel caso in esame, l’obbligo giuridico di impedire l’evento, data dal decreto del Tribunale per i Minorenni di Milano del 5.02.2007, confermato in sede di reclamo, è incorso in un insanabile travisamento delle specifiche finalità sottese al decreto di affidamento del bambino al Comune di (omissis) .
Come correttamente evidenziato dal G.i.p. presso il Tribunale di Milano, nella sentenza di primo grado, si deve rilevare che il decreto del Tribunale per i Minorenni del 5.02.2007 derivava non già dalla necessità di tutelare l’incolumità fisica del bambino, ma dall’esigenza di garantire un adeguato sviluppo del minore, in presenza di genitori inadeguati; e che, entro tali confini, doveva essere interpretato l’ambito di controllo demandato all’ente pubblico.
Al riguardo, risultano dirimenti i rilievi che seguono, che discendono dalla conferente analisi del decreto di affidamento, operata dal primo giudice: – il Tribunale per i Minorenni, pur sollecitato da P.A. , non aveva disposto la decadenza di B.Y. dalla potestà genitoriale; – tra le molteplici forme di affidamento di F. al Comune di (omissis) , il Tribunale per i Minorenni aveva individuato una modalità caratterizzata da interventi di sostegno educativo, scolastico e psicologico a favore del minore; – la regolamentazione dei rapporti tra il bambino e il padre, in uno spazio protetto, era stata formalizzata nella prospettiva della possibile “facoltà di ampliamento, anche in forma non protetta”, ricorrendone le condizioni; – proprio la conflittualità che caratterizzava i rapporti all’interno della coppia genitoriale aveva determinato il Tribunale per i Minorenni a prevedere sia l’attivazione di uno spazio di supporto psicologico “individuale” per ciascun genitore, sia l’attivazione di uno spazio di mediazione “tra i genitori”.
Sul punto, deve pertanto osservarsi che correttamente il primo giudice ha affermato che la posizione di garanzia assunta dalla psicologa T. , per effetto dell’intervenuto affidamento del bambino al Comune di (omissis) , non contemplava un obbligo di protezione di F. , rispetto al pericolo di aggressioni fisiche da parte del padre.
A questo punto della trattazione, deve sottolinearsi che neppure può ritenersi che T.E. , operatrice dei servizi sociali del Comune di (omissis) , sia venuta meno ai controlli che erano stati demandati dal Tribunale per i Minorenni con il richiamato decreto di affidamento, ovvero che vi sia stata una sottovalutazione, da parte della operatrice, di elementi indicativi della possibile aggressività del padre nei confronti del bambino. Preme, al riguardo, rilevare che la Corte di Appello di Milano, con il decreto in data 31.01.2008, nel confermare il provvedimento di affidamento reso dal Tribunale per i Minorenni di Milano, aveva espressamente considerato che la “verifica” della qualità della relazione intercorrente tra padre e figlio doveva essere effettuata dall’Ente affidatario, quale soggetto “terzo”, rispetto alla coppia genitoriale; e che tale verifica era finalizzata ad evitare che la disciplina dei rapporti tra padre e figlio venisse rimessa “ai bisogni ed allo stato emotivo della madre, che inizialmente aveva promosso il procedimento chiedendo la decadenza del padre dalla potestà sul minore”.
In conclusione, il complessivo tenore dei provvedimenti giudiziari che scolpiscono, nel caso, il contenuto degli obblighi protettivi specificamente gravanti sugli operatori dell’Ente affidatario, evidenzia, in termini di certezza, che le finalità protettive erano orientate – unicamente – al sostengo educativo e psicologico del bambino, a fronte della esasperata conflittualità della coppia genitoriale.
1.3 Introducendo l’esame del secondo motivo di ricorso, è poi appena il caso di osservare che dagli atti non emergono indicazioni idonee a ritenere, in termini di tranquillante certezza, che, successivamente rispetto alla adozione dei richiamati provvedimenti di affidamento del bambino all’Ente pubblico, B. avesse posto in essere comportamenti aggressivi nei riguardi del figlio, né che il minore avesse manifestato comportamenti indicativi del malessere derivante dalla relazione con il padre, tali da far scattare, in capo al “garante” il dovere di segnalazione al Tribunale per i Minorenni. Al riguardo, si osserva che la Corte di Appello, nella sentenza impugnata, riferisce in termini meramente ipotetici le circostanze fattuali ritenute indicative della possibile aggressività del B. nei riguardi del figlio; e che, non di meno, da tali ipotetici elementi viene fatta discendere l’inosservanza dei doveri di vigilanza e controllo, da parte della psicologa, odierna imputata.
L’ordine di considerazioni che precede induce, allora, a rilevare che la conclusione a cui perviene il Collegio di appello, laddove afferma che l’operatrice T. appartenente ai Servizi sociali avrebbe dovuto necessariamente allertare le forze dell’Ordine, in epoca antecedente rispetto al giorno in cui ebbe a consumarsi la tragedia, risulta non conferente, sul piano della stessa consequenzialità logica, rispetto alle circostanze di fatto conosciute, sino a quel momento, dalla medesima psicologa.
1.4 Passando ad esaminare il terzo motivo di ricorso, si osserva poi che sussiste anche il denunziato vizio motivazionale, dedotto dalla difesa dell’imputata, in riferimento alla intervenuta riforma “in peius” della sentenza assolutoria, resa all’esito di giudizio abbreviato, da parte della Corte di merito.
Deve rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità ha osservato che dall’attuale assetto interpretativo dell’art. 533 comma 1, cod. proc. pen., discende una specifica modalità argomentativa della sentenza di appello che riformi la decisione assolutoria di primo grado. In tale ipotesi, il giudice del gravame non deve soltanto effettuare una logica ricostruzione dei fatti e darne adeguatamente conto nella motivazione ma deve necessariamente confrontarsi, in modo esplicito, con la decisione di primo grado e rilevare se la diversa decisione sia conseguenza di una valutazione alternativa del medesimo materiale probatorio o, invece, di specifici errori, logici o fattuali. Nel primo caso, infatti, la sentenza assolutoria risulta soltanto “alternativa”, rispetto a quella di condanna resa dal giudice di appello, di talché non potrà che ritenersi la sussistenza di un “ragionevole dubbio”, in favore dell’imputato, atteso che la sua responsabilità viene a discendere -unicamente – da una riconsiderazione del medesimo materiale probatorio. Nel secondo caso, invece, la riforma “in peius” risulta legittima, laddove vengano individuati i punti che rendono insostenibile la decisione di primo grado, per errore di valutazione della prova o per snodi illogici del ragionamento, ovvero per omissione di valutazione di elementi fondamentali, quali prove non considerate od erroneamente ritenute inutilizzabili. E solo in quest’ultimo caso la “lettura” proposta dalla sentenza di condanna, a seguito di appello, può essere considerata l’unica possibile, alle date condizioni (cfr. Cass. Sez. 6, n. 1266 del 10/10/2012, dep. 10/01/2013, Rv. 254024). Per mera completezza argomentativa si osserva poi che la Corte regolatrice ha chiarito che per riformare “in peius” una sentenza assolutoria emessa all’esito di giudizio abbreviato “non condizionato” – come nel caso di specie – il giudice di appello non è obbligato, in base all’art. 6 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte EDU del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia, a rinnovare l’istruzione dibattimentale per l’audizione dei testimoni ritenuti dal primo giudice inattendibili, in quanto tale adempimento non è necessario nel caso in cui, neppure in primo grado, e per effetto della scelta dell’imputato, si sia instaurato, un contatto diretto tra l’autorità giudiziaria e la fonte dichiarativa (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 45456 del 30/09/2014, dep. 04/11/2014, Rv. 260868; si veda anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 40254 del 12/06/2014, dep. 29/09/2014, Rv. 260442).
E bene, la Corte di Appello, con la sentenza oggi impugnata, non si è conformata ai sopra riferiti canoni motivazionali, atteso che i giudici del gravame hanno riconsiderato, come già si è evidenziato, il contenuto degli obblighi impeditivi gravanti sulla imputata T. ed il quadro fattuale ritenuto indicativo della possibile pericolosità di B.Y. , omettendo di individuare i punti invalidanti la decisione di primo grado. Ed è appena il caso di osservare che lo specifico obbligo motivazionale, ora richiamato, risulta, nel caso che occupa, di particolare pregnanza, laddove si ponga mente al fatto che lo stesso esercizio dell’azione penale ha visto il confronto, su posizioni opposte, dei diversi organi competenti a provvedere e che la riforma “in peius” riguarda la posizione di una sola imputata, rispetto al gruppo di operatori tratti a giudizio.
L’evidenziata insussistenza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, in concreto verificatosi, gravante in capo alla psicologa T. , impone di procedere all’annullamento della sentenza impugnata senza rinvio, in riferimento alla posizione della predetta imputata, perché il fatto ascrittole non sussiste: ciò in quanto difetta la prova concernente un elemento costitutivo della fattispecie omissiva colposa tipica, oggetto di addebito. Ed invero, dall’esame degli atti e, in particolare, dal provvedimento impugnato emerge che non residua alcun ulteriore elemento probatorio suscettibile di apprezzamento e di nuova deliberazione, sul punto, da parte del giudice di merito.
2. Il ricorso del Procuratore Generale ed il primo motivo del ricorso proposto dalla parte civile, con i quali viene denunciata la carenza di motivazione relativamente alla assoluzione di C. e Pa. , che si esaminano congiuntamente, non hanno pregio.
Non sfugge che la posizione dei coimputati, per i quali è stata confermata la sentenza assolutoria, è stata analizzata dalla Corte territoriale in termini men che sintetici. Al riguardo, la sentenza impugnata contiene un mero inciso, a pag. 31, che non vale a scrutinare le doglianze che erano state dedotte dal Procuratore Generale e dalla parte civile, in sede di gravame, rispetto alla pronuncia assolutoria dell’assistente sociale C. e dell’educatore Pa. .
Peraltro, le considerazioni sopra svolte analizzando la posizione dell’imputata T. , conducono di riflesso a rilevare la non sindacabilità, in questa sede di legittimità, della pronuncia assolutoria resa nei confronti dei coimputati C. e Pa. . Ed invero, le valutazioni espresse rispetto al reale contenuto degli obblighi protettivi derivanti dalla posizione di garanzia assunta dalla psicologa T. , quale operatore dei Servizi Sociali del Comune di (omissis) , risultano del tutto conferenti anche nei confronti dell’assistente sociale C. e dell’educatore Pa. , componenti della medesima struttura affidataria.
Sul punto, null’altro che soggiungere che, alla luce delle circostanze di fatto con le quali si è svolta l’aggressione perpetrata da Barakat nei riguardi del figlio, come riferite dai giudici di merito – l’uomo si presentò all’appuntamento settimanale stabilito per l’incontro con il figlio, occultando sotto gli abiti una pistola carica ed un’arma bianca; e, non appena entrato negli uffici, dopo aver provocato il momentaneo allontanamento dell’educatore Pa. , diede corso ad una pervicace aggressione omicidiaria in danno del bambino – l’evento sarebbe stato evitabile solo qualora fossero stati adottati gli ordini di protezione ex art. 342-bis, cod. civ., ordini peraltro estranei dal contenuto dei provvedimenti di affidamento del minore, come sopra chiarito, ovvero, qualora fosse stata disposta la sospensione degli incontri tra padre e figlio; ma già si è considerato che non vi è prova di comportamenti antecedenti all’aggressione, posti in essere dal B. , tali da giustificare la sollecitazione della sospensione degli incontri protetti, da parte degli operatori dei Servizi Sociali. Per completezza argomentativa si osserva che la formula liberatoria utilizzata nei confronti dei predetti imputati, mandati assolti per non aver commesso il fatto, non determina alcuna incompatibilità logica rispetto alla posizione della coimputata T. , sopra esaminata. Ed invero, l’intero percorso motivazionale espresso dal primo giudice, come del resto osservato dallo stesso G.i.p. di Milano, conduce a rilevare la mancanza di prova circa la sussistenza del fatto tipico colposo, contestato agli operatori dei Servizi Sociali, secondo la teoria del garante; e l’impiego della diversa formula terminativa, che risente di un grado di giuridica imprecisione, come pure si legge in sentenza, discende dalla dichiarata intenzione del G.i.p. di evitare possibili fraintendimenti, nel contenuto della risposta giudiziaria, rispetto alla oggettiva sussistenza del fatto omicidiario, in concreto verificatosi per opera di B.Y. . Pertanto, sfuggono i presupposti per una rettifica della formula terminativa, utilizzata dal primo giudice.
3. Il secondo motivo del ricorso proposto dalla parte civile è destituito di fondamento. La corte di Appello, in applicazione del principio di soccombenza, ha del tutto legittimamente condannato P.A. a rifondere le spese di assistenza e difesa sostenute da Pa.St. , relative al procedimento civile distinto al n. 19566/2011, che era stato originariamente intentato dalla medesima P. .
4. Le questioni affidate al terzo ed al quarto motivo di ricorso proposto dalla parte civile risultano assorbite dall’intervenuto annullamento senza rinvio della sentenza di condanna resa nei confronti della imputata T. .
Al rigetto del ricorso proposto dalla parte civile segue la condanna della medesima parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di T.E. perché il fatto non sussiste; rigetta il ricorso del Procuratore Generale e della parte civile e condanna quest’ultima al pagamento delle spese processuali.
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