SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV
SENTENZA 5 marzo 2014, n.10514
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza resa in data 11.11.2008, il tribunale di Lecce ha condannato V.M. alla pena di sei anni di reclusione ed Euro 30.000,00 di multa in relazione a un reato concernente il traffico di sostanze stupefacenti (cocaina ed eroina) di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commesso in (OMISSIS).
Con sentenza in data 14.10.2011, la corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata la responsabilità dell’imputato, ha ridotto la pena allo stesso inflitta in quella di cinque anni di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa.
Con sentenza in data 21.6.2012, questa Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza di secondo grado, limitatamente al giudizio relativo all’applicabilità della circostanza attenuante prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, rinviando ad altra sezione della corte d’appello di Lecce per un nuovo giudizio sul punto.
Con sentenza in data 14.3.2013, la corte d’appello di Lecce, quale giudice del rinvio, ritenuta la sussistenza dell’ipotesi prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ha disposto la rideterminazione della pena a carico dell’imputato in quella di un anno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa.
Avverso la sentenza del giudice del rinvio, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, dolendosi della violazione di legge e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nell’omettere la rideterminazione della pena in prossimità dell’assoluto minimo edittale previsto per il reato contestato, avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto espressamente richiamate dalla corte territoriale.
Sotto altro profilo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge, per avere la corte territoriale omesso di riconoscere l’avvenuta estinzione del reato contestato all’imputato in ragione dell’intervenuta prescrizione dello stesso, attesa la configurabilità dell’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, quale reato autonomo e non già quale circostanza attenuante del reato di cui all’ipotesi base prevista dal medesimo art. 73.
Motivi della decisione
2.1. – Con l’impugnazione proposta in questa sede, il ricorrente si duole della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, per aver omesso di riconoscere l’avvenuta estinzione del reato contestato all’imputato in ragione dell’intervenuta prescrizione dello stesso, essendo stato quest’ultimo ricondotto alla fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, configurabile quale ipotesi di reato autonomo e non già quale circostanza attenuante del reato di cui all’ipotesi-base prevista dal cit. D.P.R. art. 73, comma 1: distinzione (reato autonomo/circostanza attenuante) ritenuta come decisiva ai fini del computo dei richiamati termini di prescrizione.
Sul punto, vale evidenziare come, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di reati concernenti sostanze stupefacenti, l’ipotesi disciplinata dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sia stata costantemente configurata quale circostanza attenuante dell’ipotesi criminosa prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, e non già quale figura autonoma di reato (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. Un., n. 35737/2010, Rv. 247910; Cass., Sez. Un., n. 9148/1991, Rv. 187930).
Al riguardo, rileva peraltro il collegio come la fattispecie criminosa di cui al citato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sia stata di recente riqualificata dal legislatore (D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni con L. n. 10 del 2014) quale ipotesi di reato punita con una pena edittale pari, nel massimo, a cinque anni di reclusione, oltre alla multa da Euro tremila ad Euro ventiseimila.
Nella disposizione citata, la novella, dopo aver inserito una clausola di sussidiarietà (‘salvo che il fatto non costituisca più grave reato’), ha provveduto, pur conservando l’originaria descrizione del nucleo caratterizzante la fattispecie materiale, a incastonare quest’ultima tra due proposizioni, e cioè ‘chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo’ ed ‘è punito con le pene’, quest’ultima destinata a sostituire la precedente formula ‘si applicano le pene’. Infine è stato rimodulato il limite massimo edittale della pena detentiva, abbassato da sei a cinque anni di reclusione.
Alla luce delle illustrate modifiche, si è posto all’interprete il quesito consistente nello stabilire se, attraverso di esse, il legislatore abbia inteso mutare la qualificazione giuridica della fattispecie, trasformando, in un titolo autonomo di reato, ciò che, secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, si prestava a una piana configurazione quale circostanza attenuante dell’ipotesi-base di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 (cfr. Cass., Sez. Un., n. 35737/2010, Rv. 247910; Cass., Sez. Un., n. 9148/1991, Rv. 187930, citt.).
A favore di una siffatta lettura del significato dell’intervento normativo depongono, intanto, due elementi d’indole obiettiva (valutabili nella prospettiva di una possibile ricostruzione della volontà storica del legislatore), integrati dalle dichiarazioni rilasciate, in sede politica, al momento della deliberazione del D.L. n. 146 del 2013, dalle quali si evince, per l’appunto, l’intenzione di configurare ‘una nuova ipotesi di reato in luogo della previgente circostanza attenuante’ (comunicato-stampa rilasciato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri all’esito del Consiglio dei Ministri n. 41 del 17 dicembre 2013), nonchè dalla relazione al disegno della legge di conversione del decreto, che espressamente qualifica, quella del riformulato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, come fattispecie autonoma di reato.
Prescindendo dalle riflessioni suggerite o indotte dal contesto storico-politico, rileva il collegio come, sul piano dell’interpretazione letterale del testo, le modifiche apportate alla disposizione in oggetto sembrano contenere plurimi indici sintomatici del proposito di qualificare la disposizione in oggetto quale autonomo titolo di reato.
La clausola di riserva, innanzi tutto, rivela che l’ambito di applicazione della norma è segnato in negativo dalla configurabilità di un ‘più grave reato’, espressione che evidentemente presuppone come il fatto considerato dall’art. 73, comma 5 costituisca esso stesso, già di per sè, un ‘reato’.
In secondo luogo, l’espressa e inedita previsione di un soggetto attivo (‘chiunque’) e di una condotta (‘commette’) appaiono scelte indicative della volontà di incriminare in maniera autonoma fatti la cui descrizione rimane pur sempre (sia pure in parte) mutuata da altre disposizioni incriminatrici, ma che nel citato comma 5 trovano una loro ulteriore caratterizzazione attraverso la descrizione delle condizioni che li rendono di ‘lieve entità’.
Infine anche la modifica della formula punitiva, pur non essendo di per sè univocamente significativa, appare non solo corrispondere all’esigenza di una sua coerente declinazione con la già ricordata proposizione che ora domina la costruzione normativa, ma altresì alla volontà di condividere il lessico proprio delle disposizioni autonomamente incriminatrici.
Un ulteriore elemento a sostegno della tesi dell’introduzione di un reato autonomo sembra poi provenire da un elemento esterno al testo del rinnovato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ma contenuto nel D.L. n. 146 del 2013: l’art. 2 – che appunto incide sulle disposizioni in materia di stupefacenti – è infatti rubricato anche ‘Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità’.
Invero, la contemporanea introduzione degli elementi illustrati (benchè singolarmente privi di decisivo rilievo al fine di suffragare la qualificazione ipotizzata) costituisce un ulteriore elemento che s’impone all’attenzione dell’interprete, inducendo (pur a fronte di altri elementi d’indole sistematica astrattamente idonei a incoraggiare un orientamento interpretativo di segno contrario) a ritenere preferibile una lettura dell’intervento legislativo incline a confermare l’avvenuta introduzione, mediante la riformulazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, di una nuova autonoma ipotesi di reato.
A tale lettura inducono, peraltro, anche le indicazioni contenute nel D.L. n. 146 del 2013, art. 2, comma 1 bis e 1 ter come introdotti dalla legge di conversione. Invero, il comma 1 bis, dispone che all’art. 380 c.p.p., comma 2, lett. h), le parole ‘salvo che ricorra la circostanza prevista dal comma 5 del medesimo articolo’ sono sostituite dalle seguenti ‘salvo che per il caso dei delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo’; il comma 1 ter, invece, aggiunge alla fine dell’art. 19, comma 5, le parole ‘salvo che per i delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e successive modifìcazioni. In sintesi, può rilevarsi che, in entrambi i casi, il legislatore ha avuto cura di qualificare come ‘delitti’ i fatti cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, addirittura sostituendo, nell’art. 380 c.p.p., questa espressione a quella precedente impiegata di ‘circostanza’.
Varrà da ultimo segnalare come questa Corte di Cassazione abbia di recente sancito come, con il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, il legislatore abbia configurato l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, quale autonoma figura di reato (Cass., Sez. 4, 9 gennaio 2014, n. 7363, Fazio), come tale idonea a imporre, anche retroattivamente, l’applicazione del termine prescrizionale pari a sei anni (ovvero, tenendo conto del termine prorogato, al massimo pari a sette anni e sei mesi), a norma dell’art. 157 c.p., rispetto all’alternativa interpretazione, in precedenza consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, incline a configurarla quale circostanza attenuante dell’ipotesi base di cui al medesimo D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1.
Alla rilevata qualificazione dell’ipotesi di reato introdotta dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2 (convertita con modificazioni con L. n. 10 del 2014) quale autonoma figura criminosa, piuttosto che quale circostanza attenuante dell’ipotesi base di cui al cit. D.P.R., art. 73, comma 1, questa Corte, sulla base del complesso delle argomentazioni sin qui richiamate, intende dunque aderire.
2.2. – Ciò posto, osserva il collegio che, a seguito dell’introduzione (con il richiamato D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2,) della fattispecie autonoma di reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 32/2014 del 25.2.2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, art. 4 bis e art. 4 vicies ter, (convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 1, comma 1), con i quali il legislatore aveva uniformato il trattamento sanzionatorio relativo alle ipotesi di reato concernenti le c.d. ‘droghe leggere’ con quelle riferite alle c.d. ‘droghe pesanti’; trattamento sanzionatorio che, viceversa, il testo originario del D.P.R. n. 309 del 1990 aveva configurato in termini largamente differenziati, mediante la previsione di una cornice edittale di maggiore o minore severità in relazione alla specifica natura della sostanza stupefacente considerata.
Secondo l’espressa indicazione del giudice delle leggi, con la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale delle norme impugnate, ‘riprende applicazione il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate’ (con il conseguente ripristino del differente trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le cosiddette ‘droghe leggere’, puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, rispetto ai reati concernenti le cosiddette ‘droghe pesanti’, puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, oltre la multa), atteso che i vizi procedurali in cui era incorso il legislatore del 2006 (in sede di conversione dell’originario decreto-legge), dovevano considerarsi tali da dar luogo ad un atto legislativo affetto da un ‘vizio radicale nella sua formazione (come tale) inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010)’.
Sulla base di tale premessa, la Corte Costituzionale ha quindi evidenziato come, a seguito dell’intervenuto annullamento degli artt. 4 bis e 4 vicies ter citati, si ponesse al giudice ordinario il compito di ‘individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perchè divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter’ dichiarati costituzionalmente illegittimi.
Con particolare riguardo alla norma di cui al D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, occorre pertanto domandarsi se la stessa, nell’introdurre la fattispecie autonoma di reato di cui al ‘nuovo’ D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, debba ritenersi non più applicabile (perchè ‘divenuta priva del proprio oggetto’, nella misura in cui rinvii a disposizioni caducate), ovvero se la stessa debba continuare ad avere applicazione, in quanto non presupponga la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter dichiarati costituzionalmente illegittimi.
A tale riguardo, ritiene questo collegio che il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, nell’introdurre la fattispecie autonoma di reato di cui al ‘nuovo’ D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, non possa in nessun caso ritenersi travolto dalla ricordata pronuncia del giudice delle leggi, atteso che – sul piano puramente formale e lessicale, e dunque a prescindere dall’intenzione del legislatore storico e dalla scansione cronologica delle vicende normative succedutesi – tale articolo non è stato in alcun modo ‘privato del proprio oggetto’, ossia di una disposizione caducata dall’intervento demolitorio della Corte Costituzionale cui il richiamato art. 2 faccia eventuale rinvio, nè presuppone la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter dichiarati costituzionalmente illegittimi.
E invero – ribadito (al fine di scongiurare ogni equivoco) come, in coerenza al dettato del giudice delle leggi, la norma da giudicare in ipotesi non più applicabile (siccome rinviante a disposizione caducate) sia (non già il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, bensì) il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, -, conviene rilevare come tale ultima norma (nella parte qui in rilievo) disponga testualmente che: ‘Al decreto D.P.R. n. 309 del 1990, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’art. 73, il comma 5 è sostituito dal seguente comma: ‘5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da Euro 3.000 a Euro 26.000’.
Al fine di ritenere sopravvenuta l’inapplicabilità del richiamato art. 2 (secondo il ragionamento suggerito dalla Corte Costituzionaie), occorrerebbe ritenere che, con la dichiarazione d’illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter citati, si sia determinata la caducazione – in quanto tale e in via definitiva – della norma di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, là dove invece, nel caso di specie, per effetto della richiamata sentenza della Corte Costituzionale, le uniche norme venute meno sono quelle (gli artt. 4 bis e 4 vicies ter) di cui al D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 1, comma 1; fonte (il D.L. 30 dicembre 2005, n. 272), la cui demolizione ha provocato la contestuale riespansione del previgente testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comprensivo del suo comma 5.
In breve, le modalità del rinvio (a fini, per così dire, ‘modificativo-sostitutivi’) concretamente operato dal citato art. 2 all’art. 73, comma 5, induce a qualificarne la natura alla stregua di un rinvio c.d. ‘mobile’, ossia alla fonte normativa formale in sè considerata (a prescindere dal contenuto storicamente contingente) e non già di un ipotetico rinvio c.d. ‘fisso’ allo specifico testo (norma materiale) eventualmente in vigore in un dato momento storico.
Sulla base di tale premessa, deve logicamente ritenersi che l’effetto caducatorio (‘di trascinamento’) del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, paventato dalla Corte Costituzionale avrebbe potuto verificarsi unicamente laddove, in ipotesi, detto art. 2 avesse modificato, non già, sic et simpliciter, il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, (come invece testualmente avvenuto), bensì l’art. 73, comma 5, così come modificato dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272.
La mancanza di tale espressa estensione delle modificazioni apportate dall’art. 2 citato al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nel testo a sua volta modificato dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, impone pertanto di ritenere che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014, l’efficacia modificativa dell’art. 2 deve ritenersi intervenuta (occorre ripetere: a prescindere dall’intenzione del legislatore storico e dalla scansione cronologica delle vicende normative succedutesi) sul (l’unico) testo (valido) del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ossia sul testo previgente rispetto alla riforma giudicata costituzionalmente illegittima tornato ipso iure in vigore a seguito dell’intervento del giudice delle leggi.
E’ pertanto in tale prospettiva che pare potersi intendere il passaggio contenuto nella più volte richiamata sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, là dove afferma come ‘gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il D.L. n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima’.
Occorre conclusivamente ritenere che – venuto meno il contenuto della riforma di cui al D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, artt. 4 bis e 4 vicies ter -, sul piano strettamente giuridico, il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2 abbia determinato la modificazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 nella formulazione previgente rispetto all’entrata in vigore del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272; formulazione secondo cui ‘quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da lire cinque milioni a L. cinquanta milioni se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle 1^ e 3^ previste dall’art. 14, ovvero le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da L. 2 milioni a L. 20 milioni se si tratta di sostanze di cui alle tabelle 2^ e 4^.
Tale ultima norma (divenuta il diretto referente del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2 del per effetto della caducazione dei ricordati artt. 4 bis e 4 vicies ter), non essendo in nessun modo venuta meno (essendo stata piuttosto ‘ripristinata’) in conseguenza della citata sentenza della Corte Costituzionale, conferma come sia del tutto mancato il paventato effetto di ‘trascinamento’ (in termini di sopravvenuta inapplicabilità) del ridetto D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, atteso che quest’ultimo, nell’introdurre la fattispecie autonoma di reato di cui al ‘nuovo’ D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, mentre, da un lato, non presuppone in alcun modo la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter dichiarati costituzionalmente illegittimi, dall’altro non è stato in alcun modo ‘privato del proprio oggetto’, ossia di una disposizione caducata dall’intervento demolitorio della Corte Costituzionale cui il richiamato art. 2 possa aver disposto un eventuale rinvio.
2.3. – L’accertata ‘sopravvivenza’ del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2 (convertito nella L. n. 10 del 2014), in termini di validità formale, rispetto all’intervento demolitorio della Corte Costituzionale, non solleva l’interprete dall’onere di estendere la propria verifica al controllo della persistente compatibilità ‘logica’ del contenuto delle norme oggetto d’esame, segnatamente in presenza di testi, quali quelli residuati a seguito degli interventi dell’ultimo legislatore e del più recente giudice costituzionale, verosimilmente ispirati al vigore di contrastanti principi d’indole politico-ideologica.
In breve, occorre domandarsi se l’uniformazione del trattamento sanzionatorio relativo a ogni ipotesi di reato concernente sostanze stupefacenti (indipendentemente dalla relativa classificazione quali droghe c.d. leggere o pesanti), là dove le stesse siano riconducibili al paradigma della tenuità (‘lieve entità’) del fatto (uniformazione verosimilmente legata a motivi di coerenza rispetto al disegno generale della disciplina in vigore al tempo di emanazione della novella del dicembre del 2013), conservi una propria giustificazione anche in relazione a un quadro di riferimento generale (quale quello rinvenibile nella disciplina di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, tornata in vigore a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014) incline a distinguere con decisione il grado di offensività connesso alla commissione di reati concernenti il traffico di droghe c.d. leggere, rispetto a quello riguardante le droghe c.d. pesanti.
Infatti, mentre la disciplina delle c.d. ipotesi-base dei reati concernenti sostanze stupefacenti prevista dall’art. 73 ad oggi (tornata) in vigore, distingue, sul piano del trattamento sanzionatorio, i casi riguardanti il traffico delle droghe c.d.’pesanti’ (per cui è prevista la pena da otto a vent’anni di reclusione, oltre la multa) da quelli riferiti alle droghe c.d.’leggere’ (punite con la reclusione da due a sei anni, oltre la multa), nel caso in cui tali fatti – ‘per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze’ – siano di lieve entità, la sanzione prevista (indipendentemente dalla natura, ‘pesante’ o ‘leggera’, della sostanza stupefacente) è quella della reclusione da uno a cinque anni, oltre la multa.
Sul punto, ritiene il collegio che le discipline così risultanti, in termini obiettivi, in forza dei testi ‘tornati’ o ‘rimasti’ in vigore, ancora si prestino a un giudizio di persistente vicendevole compatibilità, non apparendo, il quadro complessivo offerto alla lettura dell’interprete (di là dalla sempre possibile soggettiva opinabilità delle singole valutazioni), minato da un’irragionevolezza di tale irriducibilità da prospettare un presumibile conflitto, della norma introdotta dal citato art. 2, con il parametro costituzionale di cui all’art. 3 Cost..
Lo sforzo ricostruttivo richiesto all’interprete istituzionale, al di là delle mutevoli scelte normative riconducibili all’iniziativa di maggioranze politiche contingenti (e dunque di là dalle prevedibili irrazionalità politico-culturali predicabili con riguardo alla contestuale vigenza di testi normativi che appartengono a tempi, storie e pensieri diversi), impone di orientarne la ricerca nella forma del possibile coordinamento, dei materiali normativi disponibili, utile a soddisfare, tanto l’esigenza di una coerenza di senso logico dei testi, quanto la necessità di una persistente compatibilità assiologica delle norme ricavate con i principi e i valori della Carta costituzionale.
In questo orizzonte, nel campo della disciplina dei fenomeni criminali connessi alla diffusione delle sostanze stupefacenti, la scelta legislativa di svalutare il rilievo della natura della sostanza stupefacente trattata (sia essa droga c.d. ‘leggera’ o ‘pesante’), a fronte di specifiche modalità del fatto criminoso, tali da rivelarne la concreta e obiettiva ridotta idoneità offensiva – e dunque l’affermazione secondo cui alle modalità, natura, mezzi dell’azione o ad altre circostanze ad essa pertinenti, sia possibile predicare la capacità di degradare il fatto a una misura di tale sfumata offensività da rendere del tutto secondario o marginale il riscontro dell’identità della sostanza stupefacente -, non pare a questo collegio compromessa da tratti di evidente irragionevolezza (tanto logica, quanto assiologica) suscettibile di pregiudicarne la persistente coerenza con la tavola dei valori costituzionali.
E invero, il quadro normativo attualmente in vigore deve ritenersi ancora obiettivamente dotato di tali margini di flessibilità da consegnare, alle accorte mani del giudice di merito, un largo spettro di soluzioni sanzionatorie, la cui ampiezza appare tale da consentirne, con un soddisfacente grado di duttilità, l’agevole adattamento al singolo episodio di vita o all’occasionale frammento di esperienza volta a volta condotto al suo esame, senza che le diverse cornici edittali astrattamente considerate in relazione ai trattamenti sanzionatoli riservati alle differenti ipotesi disciplinate valgano a dar luogo a un sistema sanzionatorio da ritenere obiettivamente ingiustificabile per le evidenti forme di irrazionalità che lo connoterebbero.
Deve pertanto conclusivamente ritenersi che l’ipotesi di recente introdotta dal D.L. n. 146 del 2013, art. 2, identificata come ‘delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità’ (cfr. la rubrica del citato articolo 2) e sistematicamente collocata nel testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, rimanga tuttora configurabile quale reato autonomo punibile con la reclusione da uno a cinque anni, oltre la multa, pur a seguito dell’emissione della sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale.
2.4. – Le argomentazioni sin qui svolte inducono dunque a confermare che, in relazione al reato per il quale l’imputato è stato tratto a giudizio, deve ritenersi interamente decorso il termine di prescrizione, trattandosi di un fatto concernente il traffico di sostanze stupefacenti ricondotto all’ipotesi autonoma di reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, commesso in data (OMISSIS).
Come già in precedenza rilevato, infatti, l’autonoma figura di reato di cui al cit. D.P.R., art. 73, comma 5, (introdotta con il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2) deve ritenersi tale da imporre, anche retroattivamente, l’applicazione del termine prescrizionale pari a sei anni (ovvero, tenendo conto del termine prorogato, al massimo pari a sette anni e sei mesi), a norma dell’art. 157 c.p..
Ciò posto, rilevato che il ricorso proposto non appare manifestamente infondato, nè risulta affetto da profili d’inammissibilità di altra natura, occorre sottolineare, in conformità all’insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, come, in presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontri nel solo caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una ‘constatazione’, che a un atto di ‘apprezzamento’ e sia quindi incompatibile con qual- siasi necessità di accertamento o di approfondimento (v. Cass., Sez. Un., n. 3549O/2OO9, Rv. 244274).
E invero, il concetto di ‘evidenza’, richiesto dall’art. 129 c.p.p., comma 2, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato (cfr. Cass., Sez. 6, n. 31463/2004, Rv.229275).
Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui ‘positivamente’ deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (v.Cass., Sez. 2, n. 26008/2007, Rv. 237263).
Tanto deve ritenersi non riscontrabile nel caso di specie, in cui questa Corte – anche tenendo conto degli elementi evidenziati nelle motivazioni della sentenza impugnata – non ravvisa alcuna delle ipotesi sussumibili nel quadro delle previsioni di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2.
Ne discende che, ai sensi del richiamato art. 129 c.p.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per essere il reato ascritto al ricorrente estinto per prescrizione.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché estinto per intervenuta prescrizione il reato per il quale è stata pronunziata condanna.
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