Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 19 giugno 2014, n. 26482
Ritenuto in fatto
Con sentenza in data 1.10.2010 il Tribunale di Mantova, in composizione monocratica, condannava alle pene di giustizia, oltre al risarcimento dei danni e al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva in favore delle parti civili, I.G. e B.G. avendoli dichiarati responsabili del reato di cui agli artt. 113, 434, 449 c.p. perché, in cooperazione fra loro ed unitamente ad altri coimputati per i quali si era proceduto separatamente, I. in qualità di Prefetto e B. in qualità di Sindaco del Comune di (…), per colpa consistita in negligenza, imprudenza imperizia e in particolare nella violazione degli artt. 5, 14, 15, della L. 225/92 in materia di protezione civile perché, pur essendo stati investiti di specifiche attribuzioni omettevano di intervenire e di adoperarsi per ottenere l’emanazione di apposita ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri o del Ministro dell’interno atta a rimuovere un ordigno bellico posto sotto una strada privata di uso pubblico confinante con la proprietà di S.S. e F.G. e di proprietà di A.F. mediante bonifica dell’area anzidetta al fine di prevenire un evento dannoso consistito nell’esplosione del medesimo ordigno che avveniva il 20.5.2003 per causa imprecisate nei giorni in cui nella zona erano in atti lavori di scavo per la costruzione di un condominio a più piani autorizzati dal Sindaco nella persona della B. , cagionando il crollo dello stesso o di parte del medesimo derivando dal fatto pericolo per la pubblica incolumità nonché danni gravi e lesioni alle strutture portanti degli edifici e la formazione di un cratere (commessi in (…) in data antecedentemente e prossima al (omissis)).
Il fatto. In data (omissis) Be.Od. indirizzava missiva al Sindaco di (…) denunciando che nella sua proprietà e precisamente sul confine della società Eridania Zuccherificio di (…) era interrata a profondità non conosciuta una bomba da aeroplano rimasta inesplosa, lanciata nel periodo della guerra, e chiedeva al Sindaco di prendere i dovuti provvedimenti.
In data 25.7.1995 C.G. , nipote del Be. , consegnava al Sindaco B.G. copia della lettera menzionata, che ella aveva trovato fra le carte nonché una propria missiva in cui riferiva che la madre, figlia del Be. , ricordava che il padre aveva fatto bonificare la sua proprietà e che gli artificieri di Verona avevano segnalato la presenza dell’ordigno bellico all’incirca ove si trovava la abitazione di A.R. e che l’ordigno era stato trovato, ma che ostacoli vari ne avevano impedito l’estrazione.
Con missiva del 21.8.1995 la B. , dopo aver suggerito alla C. di consegnare copia della sua lettera ai Carabinieri, trasmetteva a sua volta la lettera alla Comandante della Stazione Carabinieri per opportuna conoscenza e per quanto di competenza.
Con telefax del 30.3.2001 il M.llo G.E. , subentrato nel comando della Stazione, segnalava alla Prefettura che C.G. , indicata come fonte attendibile, aveva recapitato la lettera del nonno nonché ulteriore lettera a sua firma. Con telefax del 5.4.2001 il vice Prefetto di Mantova Simi per conto del Prefetto, comunicava al COMFOD di Vittorio Veneto nulla osta all’intervento di personale specializzato per la rimozione dell’ordigno bellico segnalato dai CC di (…).
Il 13.12.2001 il COMFOD disponeva che la direzione del Genio militare di Padova effettuasse il sopralluogo tecnico e, trattandosi di bonifica sistematica, chiedeva alla Prefettura di indicare se gli oneri andavano posti a carico del Ministero dell’Interno o del proprietario dell’area.
In data 18.12.2001 il ten. col. T. , con missiva indirizzata alla stazione CC di (…), e per conoscenza alla Prefettura d Mantova, al COMFOD di Vittorio Veneto ed all’Ispettorato infrastrutture dell’esercito di PD, garantiva l’esecuzione del sopralluogo al più presto e pregava di tenere sotto controllo la zona ex Eridania onde impedire l’esecuzione dei lavori di scavo o altre attività autorizzate, evidenziando che in caso contrario la responsabilità sarebbe ricaduta su chi avesse ordinato o diretto i lavori; segnalava, infine, che eventuali oneri sarebbero stati segnalati alle autorità competenti per la successiva richiesta di rimborso al Ministero degli Interni.
In data 9.1.2002 si effettuava il sopralluogo e con lettera del 24 gennaio 2002 il ten. col. T. comunicava al COMFOD di Vittorio Veneto, e per conoscenza alla Prefettura di Mantova che le indagini strumentali limitate alla bonifica strumentale avevano segnalato presenza di masse ferrose non significative e che l’esecuzione della ricerca comportava un intervento in profondità a mezzo trivellazioni almeno sino a 5 metri con un costo preventivabile in Euro 7.436,98, rimanendo in attesa di determinazioni.
Con missiva datata 15.11.2002 il ten. col. T. scriveva al COMFOD di Vittorio Veneto ed alla Prefettura di Mantova, segnalando di non avere avuto riscontro relativamente alla esecutività dell’intervento e all’indicazione del soggetto o a cui dovevano imputarsi gli oneri e rimaneva in attesa di conoscere le decisioni adottate.
In data 20.5.2003 scoppiava di notte un ordigno bellico in (…) coinvolgendo in modo grave due abitazioni limitrofe alla sede della deflagrazione.
La Corte di appello di Brescia, con sentenza in data 17.1.2012, in riforma della sentenza predetta, dichiarava non doversi procedere nei confronti degl’imputati sopra indicati per estinzione del reato loro ascritto per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili.
La Corte territoriale riteneva, sulla scorta di elementi minuziosamente enucleati, che il punto in cui l’ordigno era esploso coincideva con la zona indicata nella lettera di Be. . Inoltre, richiamate le disposizioni in materia di Protezione civile di cui agli artt. 2 e 3 L. n. 225 del 1992 (per le categorie di eventi contemplati e all’attività e compiti di protezione civile) nonché gli artt. 14 e 15 (circa le attribuzioni del Sindaco e del Prefetto), in una alle analisi effettuate dalla sentenza di questa Corte di Cassazione (Sez. IV, n. 16761 del 3.5.2010, Catalano ed altri, rv. 247017, 247016, 247015), riteneva che:
– dopo la comunicazione al Comfod di V. Veneto del nulla osta all’intervento per la rimozione dell’ordigno, non veniva dato alcun seguito da parte della Prefettura né alla nota del 24.1.2002 del ten. Col. T. circa l’onere finanziario per le trivellazioni, rimanendo in attesa di determinazione, né a quella successiva del 15.11.2002 con cui segnalava al Comfod e alla Prefettura di non aver avuto alcun riscontro in ordine a quanto indicato nella precedente nota (circa il destinatario degli oneri);
– doveva ritenersi confermato che gl’interventi dell’autorità militare dovessero essere coordinati dalla Prefettura;
– non erano valorizzatali le obiezioni difensive circa l’incapacità del Prefetto di valutare il rischio derivante dalla presenza della bomba e che in ordine al finanziamento lo I. aveva omesso qualsiasi iniziativa;
– il Sindaco B. , pur avendo sin dal 1995, in occasione della ricezione della denuncia del nonno della C. , interessato la Prefettura, successivamente si era rivolta ai Carabinieri affinché si rapportassero con la Prefettura, ma poi, benché destinataria di due segnalazioni da parte del Maresciallo G. , aveva omesso di acquisire notizie ufficiali sull’andamento della pratica e sulla situazione accertata dagli organi militari;
– il Sindaco, inoltre, aveva omesso di adottare plurime iniziative ex artt. 5 e 15 L. 225/92, provvedendo a verificare presso la Prefettura lo stato delle ricerche e sollecitare gli interventi presso le autorità di protezione civile sovraordinata, informare il proprietario dell’area e tutti gli altri soggetti residenti in zona della situazione di pericolo (ex art. 12 L. 265/99), emettere ordinanza ex art. 54 Dlgs 267/2000 per vietare escavazioni o interventi nella zona che potessero avere un’influenza diretta sull’assetto del terreno;
– a parte la risalenza nel tempo (1995) della comunicazione alla B. dell’esistenza dell’ordigno, almeno tra l’invio della lettera al Prefetto in data 30.4.2001 a cura del Comandante G. che aveva poi informato il Sindaco e la data dello scoppio erano passati ben due anni e venti giorni nei quali ai sarebbero potute effettuare le opportune ricerche.
Avverso tale sentenza della Corte bresciana ricorrono per cassazione, i rispettivi difensori di fiducia di I.G. e B.G. (quest’ultima solo in relazione alla conferma delle statuizioni civili).
Nell’interesse del ricorrente I. si deduce:
1. L’erronea applicazione delle norme e della prassi procedimentale che regola la bonifica degli ordigni, assumendo che con l’invio della prima comunicazione al Comfod il Prefetto aveva assolto all’obbligo di intervenire e che il ricorso all’ordinanza straordinaria della Presidenza del Consiglio o del ministro dell’Interno non costituiva prassi prevista dalla legge o prassi discrezionale che potesse apparire necessaria anche senza la manifestazione della esistenza di una situazione di pericolo da parte delle autorità militari, situazione di pericolo che non era stata rappresentata nel caso di specie.
2. Il vizio motivazionale in relazione alle circostanze del fatto e l’insussistenza della condotta che avrebbe consentito di impedire l’evento, contestando il calcolo operato in sentenza in relazione al periodo di due anni un mese e venti giorni per l’effettuazione delle ricerche (che si faceva decorrere dal 30.4.2011, data della lettere del m.llo G. al Prefetto), ribattendo che detto periodo si riduceva a soli sei mesi, intercorrenti tra il 22.11.2002, data dell’arrivo del sollecito del Ten. Col. T. del 15.11.2002 e la data dello scoppio e contestando la sussistenza del nesso di causalità tra le omissioni ascrivibili all’imputato e l’evento che non poteva dedursi dall’identità del luogo in cui la bomba era stata segnalata dal Be. e dove erano intervenuti gli artificieri con mezzi inadeguati, come ritenuto dalla sentenza impugnata.
Nell’interesse della ricorrente B. si deduce:
1. L’inosservanza ed erronea applicazione di legge relativamente alla posizione di garanzia del sindaco, non spettando all’imputata assumere i provvedimenti atti a prevenire e/o evitare l’esplosione dell’ordigno bellico, assumendo l’erroneità del percorso giuridico seguito dai giudici di merito, laddove ritiene che al Sindaco spetti una responsabilità concorrente con quella del Prefetto, sebbene questi sia organo ad esso sovraordinato e quindi con l’impossibilità di ravvisare una culpa in vigilando da parte dell’organo inferiore. Si contesta, altresì, l’assimilabilità della situazione di cui alla richiamata sentenza n. 16761 del 3.5.2010 a quella di specie poiché in quest’ultima vi era solo pericolo di calamità e non si era verificata l’emergenza o la catastrofe che avrebbe imposto (art. 15 comma 3 L. n. 225) l’intervento del Sindaco e questi non aveva i poteri impeditivi richiesti.
2. L’inosservanza ed erronea applicazione di legge penale relativamente alla valutazione circa la sussistenza di un presupposto essenziale, quale la prevedibilità dell’evento, non essendo prevedibile al momento della condotta posta in essere dalla B. una situazione emergenziale quale il probabile scoppio dell’ordigno, rappresentando che il fatto che la lettera e la segnalazione fossero attendibili non valeva a determinare automaticamente quella situazione di pericolo e di emergenza richiesta dalla legge per l’intervento dell’Organo comunale con l’emissione di un’ordinanza di sgombero.
3. L’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale relativamente alla correttezza dell’operato posto in essere a seguito della segnalazione dell’ordigno esplosivo da parte della C. , rilevando come, a fronte delle argomentazioni della Corte territoriale al riguardo, con rispondesse a verità che il Sindaco, a seguito della segnalazione, si fosse disinteressato della questione bomba, avendo invece posto in essere una continua e costante opera di raccolta di informazioni operata nei confronti di Organo direttamente dipendente dalla Prefettura; evidenziando la correttezza del modus procedendi del Sindaco che si era attenuto al parere tecnico del Segretario comunale; osservando che il Sindaco si era risolto a contattare i Carabinieri a seguito di un’attenta ricognizione normativa che individuava tale organo come quello deputato ad interfacciarsi con la Prefettura.
4. L’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in ordine all’interpretazione del comportamento corretto alternativo che non poteva essere tratto, come avevano fatto i giudici di merito, dall’analogo caso “Miante” nel quale il Comune era stato direttamente investito di poteri e delegato in tal senso dalla Prefettura.
5. L’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in ordine alla valutazione della esigibilità del comportamento impeditivo. Questo, infatti, spettava al Prefetto; né l’inerzia, presupposto del sollecito, era conosciuta o conoscibile da parte del sindaco.
6. L’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’interpretazione del reato di cui agli artt. 434-449 c.p., contestando l’inquadrabilità del fatto del crollo colposo nell’ipotesi criminosa del disastro colposo previsto da tali norme, non vertendosi in un caso di pericolo di dimensioni tali da riguardare un numero indeterminato di soggetti.
È stata depositata una memoria difensiva nell’interesse della parti civili S.S. e F.G. a sostegno dell’impugnata sentenza e tesa ad invocare l’inammissibilità o il rigetto dei ricorsi.
Considerato in diritto
I ricorsi sono infondati e vanno respinti.
Non ricorrono le evidenti condizioni che consentano una formula assolutoria ampia nel merito ai sensi dell’art. 129, 2 comma c.p.p. e correttamente sono state confermate le statuizioni civili.
Anzi, l’infondatezza si pone quasi al limite dell’inammissibilità.
Invero sono state riproposte, specie nell’interesse della B. , sostanzialmente le medesime censure rappresentate dinanzi al giudice di appello che le ha disattese con motivazione congrua, ampia ed esente da vizi logici o giuridici. Per altro verso, quasi tutte le censure (salvo, segnatamente, quella suo 6 nell’interesse della B. ), anche quelle ammantate dalla violazione di legge, concernono la ricostruzione e la valutazione del fatto, nonché l’apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.
Per il resto si osserva.
La legge 225/92 ha istituito il Servizio Nazionale della Protezione Civile, avente la finalità di tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni, derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi (art. 1); le attività di protezione civile erano tutte quelle volte alla previsione e alla prevenzione delle varie ipotesi di rischio, al soccorso delle popolazioni sinistrate, nonché quelle necessarie e indifferibili, dirette a superare l’emergenza connessa ad eventi e calamità naturali (art. 3); l’attività di previsione e prevenzione consisteva nelle attività dirette allo studio e alla determinazione delle cause dei fenomeni calamitosi, alla identificazione dei rischi e alla individuazione delle zone del territorio soggette ai rischi stessi (art.3 comma 2) e in quelle volte ad evitare o a ridurre al minimo la possibilità che si verificassero danni conseguenti agli eventi, anche sulla base delle conoscenze acquisite per effetto della attività di previsione (art. 3 comma 3).
Con l’entrata in vigore di questa legge il tema della protezione civile – oltre ad essere essa espressamente estesa anche agli eventi connessi con l’attività dell’uomo non previsti dalla legge del 1970 (anche se da ritenersi implicitamente ricompresi) – inizia ad essere regolato da una disciplina organica anche per quanto riguarda la tipologia degli eventi presi in considerazione, i compiti della protezione civile e la ripartizione delle competenze che era sostanzialmente estranea alla precedente disciplina. Proprio in tema di ripartizione delle competenze inizia a delinearsi un processo (che la normativa degli anni successivi accentuerà) che fa venir meno il “modello centralizzato per una organizzazione diffusa a carattere policentrico” (così Corte cost., 28 marzo 2006 n. 129 che richiama analoghi concetti espressi nel precedente della medesima Corte 30 ottobre 2003 n. 327).
È inoltre da rilevare che con la Legge del 1992 inizia a delinearsi un concetto più ampio di protezione civile che ricomprende anche le attività di previsione e prevenzione delle varie ipotesi di rischio; la previsione e la prevenzione erano temi sostanzialmente estranei alla L. n. 996 del 1970 anche se iniziavano a trovare una limitata disciplina nel regolamento del 1981 (il cui art. 1 finalmente precisa che la protezione civile concerne anche “la prevenzione degli eventi calamitosi mediante l’individuazione e lo studio delle loro cause”). Con l’entrata in vigore della Legge del 1992, la protezione civile inizia a configurarsi come organizzazione autonoma con organi propri. Con questa legge viene istituito il Servizio nazionale della protezione civile (art. 1) e vengono distinte tre tipologie di eventi (art. 2, lett. a, b e c) che, in via di prima sintesi, si riferiscono, quanto agli eventi di cui all’art. 2, lett. a), a quelli che, se limitati all’ambito comunale e fronteggiabili con i mezzi a disposizione del comune, non richiedono l’intervento di altri organi. Per gli eventi di cui alle lett. b) e e) previsti dall’art. 2 v’è invece, come si vedrà, una sovrapposizione di attribuzioni e compiti tra prefetto e sindaco.
L’art. 14 della legge – che disciplina le attribuzioni del prefetto – prevede infatti, tra l’altro (comma 2, lett. b), che al verificarsi di uno di questi eventi il prefetto “assume la direzione unitaria dei servizi di emergenza da attivare a livello provinciale, coordinandoli con gli interventi dei sindaci dei comuni interessati” e (lett. c) “adotta tutti i provvedimenti necessari ad assicurare i primi soccorsi”.
L’art. 15 disciplina (oltre alle competenze del comune) le attribuzioni del sindaco al quale attribuisce la qualità di “autorità comunale di protezione civile” che (come appunto nel caso in esame), al verificarsi dell’emergenza nell’ambito del territorio comunale, “assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite e provvede agli interventi necessari dandone immediata comunicazione al prefetto e al Presidente della Giunta regionale.” (comma 3).
L’art. 15, al comma 4 prevede poi che “quando la calamità naturale o l’evento non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco chiede l’intervento di altre forze e strutture al prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza, coordinando i propri interventi con quelli dell’autorità comunale di protezione civile”.
È da rilevare che l’art. 21 della legge prevede l’abrogazione di “tutte le norme non compatibili con le disposizioni della presente legge” e quindi lascia aperto il problema della sopravvivenza di alcune disposizioni della L. n. 996 del 1970 e, soprattutto, di quelle del regolamento del 1981 non essendo stato emanato alcun regolamento di esecuzione della L. n. 225 del 1992 (che peraltro neppure prevede – salvo quello previsto dall’art. 20 che riguarda la disciplina delle ispezioni – l’emanazione di regolamenti di esecuzione).
Successivamente, il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, emanato in base alla delega contenuta nella L. 15 marzo 1997, n. 59, ha disciplinato anche il trasferimento delle funzioni in tema di protezione civile che sono state in gran parte attribuite alle regioni e agli enti locali.
L’art. 107 descrive le funzioni mantenute allo Stato mentre l’art. 108 descrive quelle attribuite a regioni, province e comuni. La lett. a) descrive le competenze delle regioni, la lett. b) quelle delle province e la lett. c) indica le funzioni conferite ai comuni – peraltro in gran parte già attribuite al sindaco in base alla normativa ricordata – ma con un significativo ampliamento delle funzioni riguardanti la previsione e la prevenzione.
Questa Suprema Corte ha avuto modo di occuparsi della specifica materia evidenziando gli obblighi in materia incombenti sul Sindaco e sul Prefetto, affermando che “…al Sindaco, quale autorità locale di protezione civile e nell’ambito del territorio comunale, compete la gestione dell’emergenza provocata da eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo, di calamità naturali o catastrofi; se questi eventi non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune, questi è tenuto a chiedere l’intervento di altri mezzi e strutture al prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza coordinandoli con quelli del sindaco le cui attribuzioni hanno natura concorrente (e non residuale) con quelle del prefetto che ne ha la direzione. Ne consegue che in tale ultima evenienza, fino a quando il prefetto non abbia concretamente e di fatto assunto la direzione dei servizi di emergenza, il sindaco mantiene integri i suoi poteri e gli obblighi di gestione dell’emergenza ed in particolare quelli di allettamento ed evacuazione delle popolazioni che si trovino nelle zone a rischio, indipendentemente dall’esistenza di una situazione di urgenza” (cfr. la sopra richiamata sentenza n. 16761 del 3.5.2010, Catalano ed altri, rv. 247015). In definitiva, sono incontestabili le posizioni di garanzia che entrambi i ricorrenti, per legge, ricoprivano in occasione della vicenda in esame.
Ma se il Sindaco, destinatario di una informativa che rappresentava come certa l’esistenza di un ordigno bellico interrato in zona sia pur approssimativamente indicata, è incorso nell’omissione di iniziative evidenziate nella sentenza impugnata e richiamate nella sopra esposta narrativa, di certo il Prefetto non è stato da meno, avendo del tutto ignorato le missive del ten. col. T. , così di fatto impedendo la naturale progressione del procedimento di intervento che subiva un arresto fatale sino alla deflagrazione dell’ordigno, che altrimenti avrebbe potuto essere tempestivamente individuato e disinnescato.
Ci si trova, insomma, in cospetto di comportamenti non solo non conformi a quella tempestività e fattività che la situazione richiedeva ma anzi, a ben vedere, ai limiti dell’incoscienza, dal momento che l’esistenza dell’ordigno era stata da tempo (1995, al Sindaco e 2001 al Prefetto) segnalata in prossimità di una strada su cui transitavano famiglie e situata nei pressi di ben tre case, né era necessaria una sacramentale dichiarazione di pericolosità da parte delle autorità militari competenti (che, del resto, giammai avevano escluso l’esistenza della bomba e quindi l’assenza di rischi), trattandosi di situazione gravemente e palesemente pericolosa di per sé e, come tale, del tutto prevedibile, come appunto ritenuto dal Giudice a quo: invero, si trattava di una bomba d’aereo dell’ultimo conflitto mondiale, come tale giacente in loco da oltre 60 anni ad 1 o 2 metri sotto il piano calpestabile, che, a causa di una sommatoria di fattori era stata rimossa dall’originaria posizione sub-orizzontale di quiete sino ad inclinarsi ulteriormente in avanti l’ogiva (con attivazione dell’ampolla di acetone che ne costituiva la spoletta detonante) e che le opportune e tempestive trivellazioni con carotaggi da 5 a 8 metri, omesse a causa della condotta colposa degli imputati, avrebbero consentito di individuare tempestivamente.
Né il palleggiamento delle responsabilità, per vero svolto prevalentemente in via unidirezionale dalla difesa del Sindaco nei confronti del Prefetto, può avere miglior sorte, dal momento che, come già evidenziato dalla Corte territoriale, “La cooperazione nel delitto colposo si distingue dal concorso di cause colpose indipendenti per la necessaria reciproca consapevolezza dei cooperanti della convergenza dei rispettivi contributi, che peraltro non richiede la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta in tutti quei casi in cui il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli” (Cass. pen. Sez. IV, n. 1786 del 2.12.2008 Rv. 242566), come, appunto, deve ritenersi valga nel caso di specie.
Quanto all’integrazione del reato contestato, si osserva quanto segue.
prevede congiuntamente il delitto di crollo doloso di costruzioni e il delitto di disastro doloso innominato (alias, altro disastro), ed è ricompreso tra i delitti di comune pericolo mediante violenza (Libro 2, Titolo IV, Capo I, artt. da 422 a 437 c.p.).
Orbene, secondo i principi giuridici affermati da questa Corte di Cassazione, il delitto di cui agli artt. 449 e 434 c.p., contestato agli odierni ricorrenti richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo (ovvero, circostanza o complesso di circostanze da cui si teme che possa derivare grave danno: Treccani) per la vita o l’incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed inoltre, l’effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere, con valutazione ex ante, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l’evento dannoso non si sia verificato.
In coerenza con tali principi, è necessario ancorare l’accertamento del requisito essenziale del delitto de quo, non già all’avvenuto verificarsi dell’evento dannoso, collegato eziologicamente alla condotta colposa degli imputati, bensì alla effettiva capacità diffusiva del pericolo per la pubblica incolumità, dalla quale il crollo o il disastro innominato colposo (espressione che rappresenta una formula sommaria capace di assumere nel linguaggio comune una gamma di significati ampiamente diversificati) deve essere caratterizzato.
Deve aversi riguardo, pertanto, alla prospettiva ex ante dell’accertamento al fine di verificare se il fatto contestato abbia avuto attitudine a mettere in pericolo un numero indefinito di persone e di cose, in quanto essa si pone in logica correlazione con la nozione di pericolo come realtà futura che si presenta necessariamente incerta, anche se probabile. Ne consegue la logica conclusione che la prova del pericolo non debba essere traslata da quella dell’avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa, in quanto si andrebbe incontro inevitabilmente ad una contraddizione in punto di diritto, quella, cioè, di travisare la vera natura del delitto di crollo totale o parziale di edificio o di disastro innominato colposo, di cui all’art. 449 c.p., negandone l’appartenenza al genus dei delitti colposi di comune pericolo, il quale richiede – per effetto del richiamo alla nozione di altro disastro preveduto dal capo I del titolo VI del libro 2^ del codice penale, del quale fa parte l’art. 434 c.p. – soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per la incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno (cfr. Cass. pen. Sez. IV, n. 19342 del 20.2.2007, Rv. 236410; Sez. I, n. 47475 del 29.10.2003, Rv. 226459).
La richiamata sentenza di questa Corte n. 18977 del 9.3.2009 (Rv. 244043), esclude che possano configurare il reato in questione condotte colpose integranti il pericolo di crollo di una costruzione che, pertanto, assume non siano previste dalla legge come reato. Per giungere a tale conclusione, assume che il disastro colposo innominato (ipotizzato dal giudice di merito a seguito di quella vicenda portata all’esame di questa Corte), che costituisce – al pari di quello nominato – un evento fortemente connotato sul piano naturalistico e contrassegnato da forza distruttiva di dimensioni assai rilevanti, non riesce in alcun modo a distinguersi dalla fattispecie di pericolo di crollo ed appare quindi piuttosto come il frutto di uno sforzo creativo, obliterando i principi di determinatezza e di frammentarietà ed accreditando il pericoloso ruolo creativo della giurisprudenza penale paventato anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 327 del 2008.
Non si ritiene di condividere integralmente siffatto orientamento.
Invero, la previsione di altro disastro senza ulteriore specificazione, se indubbiamente implica, essendo il termine illuminato dalla finalità dell’incriminazione e dalla sua collocazione nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumità, un evento diverso ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai disastri contemplati negli articoli compresi nel capo relativo ai delitti di comune pericolo mediante violenza, non per questo preclude la configurabilità di qualsiasi situazione, senza eccezioni, che presenti tali caratteristiche anche se di imminente e potenzialmente assai probabile manifestazione, in cui cioè, il rischio o pericolo di crollo ceda il posto alla quasi certezza dell’evento.
Sicché non può escludersi dal novero delle variegate ipotesi fattuali anche quella (concernente il caso in esame) in cui si sia verificata, per effetto dell’esplosione di un ordigno bellico, la definitiva compromissione delle strutture essenziali della costruzione che si presenti talmente fatiscente (come nel caso di specie), da consigliarne l’artata demolizione totale o parziale ad opera dell’uomo: invero, questa costituisce una mera anticipazione dell’autonomo evento ritenuto tecnicamente inevitabile in un frangente successivo, che s’impone come indispensabilmente cautelare al fine di preservare proprio quell’incolumità pubblica alla cui salvaguardia la norma è preposta. Inoltre, non va sottaciuto che se nella vicenda che ci occupa le lesioni erano evidenti ed era stata compromessa la stabilità della costruzione, deve ragionevolmente inferirsi che siano anche venute meno parti delle strutture portanti dell’edificio stesso.
In tale fattispecie si è ben al di là dalla fattispecie del pericolo di crollo, vertendosi in una situazione in cui la residuale staticità dell’immobile è frutto di una mera convergenza di fattori accidentali favorevoli, ponendosi, comunque, quale concreto ed attuale pericolo per la pubblica incolumità.
Per giunta, si deve ritenere che già l’esplosione dell’ordigno bellico rappresenti di per sé un disastro innominato colposo idoneo a porre in pericolo l’incolumità di un numero indefinito di persone e di cose per quanto sovra rilevato (v. pagg. 9-10) e, al contempo, abbia provocato gravissimi danni strutturali agli immobili interessati atti ad integrare il crollo parziale delle costruzioni ai sensi dell’art. 434 c.p. (che non richiede necessariamente la disintegrazione delle strutture essenziali dell’edificio: cfr. Cass. pen. Sez. IV, n. 2390 del 13.12.2011, Rv. 251749), con ulteriore pericolo a persone e cose.
L’effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere accertata in concreto. Nel caso di specie, l’apprezzamento della gravità delle condizioni degli immobili, con particolare riguardo a quello S. e F. , è stato effettuato dalla Corte territoriale con riferimento alle fotografie scattate dalla P.G. dopo la deflagrazione, agli accertamenti effettuati nell’immediatezza dei fatti e di quelli peritali (p. 26 sent.).
Si tratta di valutazioni di fatto riservate esclusivamente al Giudice di merito, sicché le considerazioni di segno contrario svolte sul punto dalla difesa della B. , mirando a sovrapporre una diversa vantazione delle risultanze processuali rispetto a quella compiuta, con congrua motivazione, dai Giudici di merito, s’appalesa improponibile nel giudizio di legittimità.
Né la qualificazione di grave pericolosità può venire meno per il fatto che le condizioni degli immobili fossero Gravemente compromesse e non avessero provocato, per una coincidenza favorevole, danno alle persone. Ciò che rileva è che certamente fosse ravvisabile, con valutazione “ex ante”, la probabilità (cioè il pericolo o rischio) della produzione di un danno notevole per la vita o l’incolumità delle persone.
I ricorsi vanno, pertanto, rigettati e, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., a tale pronuncia deve seguire la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili, relative a questo giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti ciascuno al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese in favore delle parti civili per questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge.
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