In tema di causalità nei reati colposi, va esclusa la responsabilità dell’agente quando l’evento si sarebbe comunque verificato in relazione al medesimo processo causale, nei medesimi tempi e con la stessa gravità od intensità, poiché in tal caso dovrebbe ritenersi che l’evento imputato all’agente non era evitabile

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV penale

sentenza  1 agosto 2016, n. 33582

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Catanzaro ha confermato quella emessa dal Tribunale di Rossano, che aveva mandato assolti dai reati loro rispettivamente ascritti Pi.Gi. , T.G. e V.M. , tratti a giudizio per rispondere di omicidio colposo, il primo in qualità di ginecologo, per aver somministrato alla gestante Vu.Ro. un farmaco in grado di produrre una ipercontrattilità uterina ed aver omesso di disporre il monitoraggio continuo cardiotocografico dall’inizio del travaglio, e le seconde quali infermiere ostetriche dell’ospedale di (omissis) , per aver omesso di informare il personale medico delle condizioni della paziente e di sorvegliare l’esecuzione del monitoraggio, e quindi per aver cagionato la morte del bimbo portato in grembo dalla Vu. , il quale decedeva per asfissia acuta insorta durante il travaglio di parto.
Il Tribunale era giunto alla pronuncia assolutoria perché, pur ritenendo accertato che fosse stata omessa la prescrizione e la esecuzione del monitoraggio continuo del feto, così come contestato, nonostante la loro doverosità nelle condizioni presentate dallo specifico travaglio (la Vu. era paziente portatrice di ipertensione ed obesità), – avendo, per contro, escluso che la somministrazione del farmaco trasgredisse le legis artis – aveva giudicato non raggiunta la prova della efficienza causale di quella omissione – comune a tutti gli imputati – non essendo accertabile il momento nel quale era insorta la sofferenza fetale, risultando dalle indagini tecniche che quand’anche la sofferenza fetale fosse stata tempestivamente segnalata da un tracciato, l’evento morte si sarebbe verificato ugualmente perché il tempo necessario all’azione salvifica (approntamento ed esecuzione di taglio cesareo) sarebbe stato pari o superiore a quello che era stato necessario all’espulsione spontanea del feto.
La Corte di Appello, dal canto suo, definito il perimetro del proprio approfondimento alla luce di quanto risultava ormai non controverso tra le parti (esclusione del primo profilo di colpa ascritto originariamente al Pi. ; sussistenza del secondo profilo di colpa, comune a tutti gli imputati), ha ribadito il giudizio del Tribunale rammentando che i consulenti tecnici del P.M. avevano accertato che la morte era stata dovuta ad asfissia prenatale insorta improvvisamente durante il travaglio, determinata da un prolungato insulto meccanico a carico del follicolo, verosimilmente dovuto all’effetto svolto dal farmaco somministrato alla Vu. ; e che gli esperti avevano concluso che non era certo che un corretto monitoraggio avrebbe scongiurato l’evento infausto.
Su tali basi ha ribadito il giudizio assolutorio.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione la parte civile P.R. , a mezzo del difensore di fiducia, avv. Ornella Nucci.
2.1. Con unitario motivo deduce vizio motivazionale perché la Corte di Appello, dopo aver riportato un passaggio della relazione dei cc.tt. del p.m., giunge a conclusioni che stravolgono i principi in tema di causalità dei reati colposi omissivi. Gli esperti avevano affermato che non sempre il rilevamento cardiotocografico di uno stato asfittico fetale, seguito da taglio cesareo, evita il decesso. Assume il ricorrente che su tale premessa il giudice di secondo grado avrebbe dovuto giungere a pronuncia di condanna perché, indiscussa la condotta omissiva colposa, non era stata raggiunta la prova dell’assenza di responsabilità degli imputati. Il richiamo operato dalla Corte di Appello all’elaborato peritale del dr. M. nulla aggiunge alla motivazione, perché da esso non si trae alcun riferimento alla prova dell’inesistenza del nesso causale tra condotta doverosa ed evento-morte; sicché risulta carente la motivazione. Anche a voler seguire il percorso logico-giuridico utilizzato dalla Corte di Appello, si dovrebbe concludere che, non essendo state rispettate le tempistiche del monitoraggio ed essendo stato pertanto rilevato il battito cardiaco in una fase in cui il feto era in evidente sofferenza, risulta provato che se il monitoraggio fosse stato eseguito per tempo l’evento non si sarebbe verificato. Sostiene il ricorrente che ove il monitoraggio fosse stato eseguito come prescritto dalle linee guida in materia lo stato di sofferenza si sarebbe potuto rilevare con molto anticipo e l’evento morte evitare con elevato grado di probabilità logica. Né vale quanto sostenuto dalla Corte di Appello, ovvero che anche il comportamento alternativo lecito non avrebbe evitato la morte per i tempi necessari all’esecuzione del parto cesareo. Infatti, nel caso di gravidanza a rischio con induzione farmacologica del travaglio la sala parto deve essere già allestita per qualunque evenienza e le linee guida prevedono che, in caso di asfissia intrapartum, i tempi di estrazione del feto debbono essere contenuti in dieci minuti.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. Le censure indirizzate dal ricorrente alla sentenza impugnata tradiscono un qualche fraintendimento dei principi formulati da questa Corte a riguardo della responsabilità per colpa nei reati omissivi propri. Ed infatti, l’insistita sottolineatura della sicura violazione di regole cautelari da parte dei sanitari tratti a giudizio – segnatamente il mancato monitoraggio continuo con cardiotocografia delle condizioni del feto – sembra assunta a fattore risolutivo del giudizio di imputazione penale, laddove esso rappresenta solo il primo tassello di un disegno ben più ampio. Lo ha correttamente rilevato la Corte di Appello (come già il primo giudice), che sulla premessa di una non contestata violazione delle legis artis si è volta a verificare se gli elementi processuali permettessero di affermare che il decesso del piccolo si fosse determinato proprio per effetto di quella trasgressione. È principio consolidato, infatti, che in tema di causalità nei reati colposi, va esclusa la responsabilità dell’agente quando l’evento si sarebbe comunque verificato in relazione al medesimo processo causale, nei medesimi tempi e con la stessa gravità od intensità, poiché in tal caso dovrebbe ritenersi che l’evento imputato all’agente non era evitabile (Sez. 4, n. 28782 del 09/06/2011 – dep. 19/07/2011, Cezza, Rv. 250713; Sez. 4, n. 31980 del 06/06/2013 – dep. 23/07/2013, Nastro, Rv. 256745; Sez. 4, n. 37094 del 07/07/2008 – dep. 30/09/2008, Penasa, Rv. 241025).
In questa esplorazione la Corte di Appello si è imbattuta nel dato evidenziato dagli esperti, ovvero che l’asfissia era insorta improvvisamente nella fase del travaglio; ma, soprattutto, in quello negativo, della impossibilità di determinare – anche a causa del mancato monitoraggio – il preciso momento in cui si era determinata la sofferenza fetale (e risulta quindi non convalidata dalla sentenza impugnata l’affermazione del ricorrente che il battito cardiaco sarebbe stato rilevato in una fase in cui il feto era in evidente sofferenza), tanto che questa avrebbe potuto insorgere anche cinque minuti prima del decesso e quindi in un tempo che non avrebbe consentito alcuna azione salvifica.
Tale coerente e nient’affatto illogica motivazione viene contrastata dal ricorrente in primo luogo invertendo i termini del ragionamento giuridico, che non sono quelli per i quali, posta una sicura condotta non cautelare e determinatosi l’evento che la cautela intendeva evitare deve andarsi alla ricerca della prova dell’assenza di responsabilità; che è come dire ritenere sufficiente i due termini di una astratta relazione causale, senza interessarsi che questa si sia determinata in concreto. Piuttosto è vero che, dati i primi due elementi, deve ancora ricercarsi la prova della responsabilità, ovvero in primo luogo della valenza causale della condotta omissiva colposa, la quale richiede quel giudizio ipotetico che va sotto il nome di giudizio controfattuale, che nel caso di specie può essere così formulato: ove si fosse eseguito un monitoraggio continuo e corretto delle condizioni del feto, e la sofferenza fetale fosse stata quindi percepita, si sarebbe comunque determinata la morte del piccolo? A questa domanda, che nella sentenza impugnata trova risposta negativa perché non identificabile il momento di insorgenza della sofferenza, e quindi non affermabile la compatibilità di un’azione salvifica con la possibile tempistica, il ricorrente fa seguire una risposta positiva che prescinde totalmente da quanto evidenziato dalla Corte di Appello a proposito della non identificabilità del momento di insorgenza della sofferenza, prospettando la preparazione della sala parto “per ogni evenienza”, senza cogliere che – nella ricostruzione della Corte di Appello – anche qualora ciò fosse stato fatto non sarebbe stato evitato il decesso ove la sofferenza fetale si fosse determinata in limine mortis.
I rilievi sin qui esaminati risultano quindi persino inammissibili, perché aspecifici, mancando di correlazione con la motivazione impugnata. La consolidata giurisprudenza di questa Corte insegna che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (ex multis, Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3.2. Tuttavia occorre ancora soffermarsi su ciò che costituisce il fulcro dell’intera struttura motivazionale, ovvero la assenza di informazioni circa il tempo di insorgenza della sofferenza fetale e il connesso giudizio relativo alla tipologia di intervento in astratto salvifico.
Su questo tema la sentenza è sostanzialmente priva di motivazione se non anche manifestamente illogica.
Occorre considerare che a pagine 7 ed 8 della sentenza impugnata si rammenta che i periti avevano escluso l’insorgenza di eventi acuti interruttivi degli scambi respiratori materno-fetali per patologie materno-fetali o patologie di natura malformativa a carico del feto, sicché gli stessi avevano concluso che causa del decesso del feto era stato “un prolungato insulto meccanico a carico del follicolo durante il travaglio”, dovuto verosimilmente all’effetto svolto dalle prostaglandine somministrate alla gestante. Emerge, quindi, una causa del decesso che si è realizzata in un arco temporale (“prolungato insulto…”) e non in modo istantaneo. Ciò nonostante la Corte distrettuale assume il dato della sofferenza fetale come se questa fosse stata rapidamente produttiva della morte; infatti, si afferma che dal momento dell’insorgere di essa il tempo dell’intervento salvifico era talmente ridotto da risultare superiore a quello del prodursi dell’infausto evento.
Ben diversamente, sarebbe stato necessario chiarire se al prolungato insulto corrisponde una sofferenza che più o meno istantaneamente conduce a morte il feto o se, invece, essa si produce progressivamente, in corrispondenza della persistenza del menzionato insulto. È infatti evidente che in questo secondo caso il tempestivo rilievo della sofferenza avrebbe offerto ai sanitari un più ampio lasso temporale entro il quale dispiegare l’intervento salvifico.
Inoltre, come correttamente rilevato dal ricorrente, la motivazione impugnata non esplica le ragioni per le quali ha ritenuto che l’azione salvifica fosse rappresentata dal solo parto cesareo e non da altre pratiche di più rapida esecuzione (manovra di Kristeller, utilizzo della ventosa, episotiomia); l’unico riferimento esplicito è stato fatto all’uso del forcipe, anche in questo caso senza indicazione alcuna delle ragioni della sua esclusione. Né può risultare sufficiente il lapidario richiamo delle conclusioni alle quali era pervenuto il perito di ufficio, perché non emerge la valutazione critica dell’operato di questi.
Viene da una sentenza di questa Corte la migliore definizione di cosa debba intendersi, nel presente momento storico, con l’espressione, riferita al giudice, “peritus peritorum”; essa allude al ruolo del giudice di “custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo” (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010 – dep. 13/12/2010, Cozzini e altri, Rv. 248944).
In un tempo nel quale straordinaria è la complessità e frastagliata e molteplice è la specializzazione dei saperi, ipotizzare che il giudice possa sostituirsi al perito sembra espressione di una sostanziale negazione della modernità e sottrae al processo la funzione di vaglio critico degli elementi assumibili a base del giudizio. Come si legge nella decisione appena citata, le informazioni che attraverso l’indagine peritale, e non solo, penetrano nel processo devono essere valutate nella loro affidabilità ed imparzialità. A ciò serve la dialettica processuale; a porre le basi di un giudizio critico che è compito precipuo del giudice perché garante dell’affidabilità delle basi scientifiche del giudizio.
I giudici di merito, invece, hanno omesso qualsiasi valutazione critica del contributo offerto dagli esperti, limitandosi a far loro le relative considerazioni.
4. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per nuovo esame. Il giudice del rinvio provvederà anche al regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame al giudice civile competente per valore in grado di appello cui demanda anche la regolamentazione delle spese di questo giudizio.

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