Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 6 giugno 2014, n. 12830
Svolgimento del processo
1. B.E. convenne, davanti al tribunale di Perugia, il Dott. L.L. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito di un intervento di chirurgia estetica volto alla rimozione di un tatuaggio sulla spalla.
Il L. , costituitosi, contestò il fondamento della domanda e chiamò in giudizio la propria assicuratrice SIS compagnia di Assicurazioni spa, oggi Milano Assicurazioni spa.
Il tribunale, con sentenza del 12.9.2005, rigettò la domanda.
A diversa conclusione pervenne la Corte d’Appello che, sull’appello principale proposto dalla B. , accolse la domanda condannando il L. al risarcimento del danno; rigettò, invece, quello incidentale del L. in ordine alla disposta compensazione delle spese del giudizio di primo grado.
Nel giudizio di appello si costituì anche la Milano Assicurazioni contestando che l’appellante avesse azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice e che l’azione di garanzia svolta dal professionista fosse fondata.
Quest’ultimo ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso B.E. .
Il L. e la B. hanno anche depositato memoria.
L’altra intimata non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e seguenti codice civile, concernenti i criteri di determinazione dei danni risarcibili, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. vizio di motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c..
Il nucleo argomentativo del motivo può essere sintetizzato nei seguenti passaggi logici: a) non vi è stata imperizia medica ma solo omissione di informazione; b) il danno derivato alla paziente consiste in un esito cicatriziale; c) per dimostrare l’efficienza causale della condotta omissiva del medico (omessa informazione) occorrerebbe dimostrare – con giudizio contro fattuale – che se la paziente fosse stata adeguatamente informata, non avrebbe dato il proprio consenso all’intervento; d) questo accertamento non è stato compiuto dalla sentenza impugnata: di qui il vizio logico su un punto decisivo. Il motivo non è fondato.
Queste le ragioni.
Le informazioni processualmente rilevanti sono le seguenti: a) non è controverso che l’intervento sia stato eseguito a regola d’arte; b) parimenti incontroverso è che si sia verificato un danno alla salute sotto il profilo del peggioramento delle condizioni estetiche; c) infine, è pacifico che non sono state fornite alla paziente le informazioni rilevanti per consentirle di maturare una decisione libera e consapevole.
Con molteplici pronunce questa Suprema Corte ha ritenuto in ipotesi siffatte la responsabilità del medico per i danni alla salute derivate dall’intervento compiuto con perizia ma in base ad un consenso viziato.
Il comune argomento a base di tali pronunce può così riassumersi:
una volta accertata l’omissione di informazione doverosa e il peggioramento dell’aspetto fisico del paziente, nessun accertamento causale va svolto nel senso postulato dal ricorrente.
La mancanza di informazione rende illegittimo l’intervento.
E questo significa che diventa ingiusto e contra ius il danno derivatone al paziente.
Il nesso di causalità si atteggia diversamente da quanto prospettato dal motivo di ricorso.
Si verte infatti in tema di causalità attiva e non di causalità omissiva.
Il nesso causale da accertare (e – nel nostro caso – incontroverso).
è tra intervento e danno.
Non tra omessa informazione e danno.
L’omessa informazione determina – potremmo dire: causa l’illegittimità e quindi l’antidoverosità dell’intervento. Nel senso cioè che l’intervento non deve essere compiuto se manca il consenso informato.
L’intervento diventa il fatto illecito che provoca un danno ingiusto.
Secondo un più recente, condivisibile, indirizzo – Cass. 9.2.2010 n. 2847 – “In tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute”.
In questa prospettiva occorre partire da una distinzione fondamentale tra diritto alla salute e diritto ad una libera e consapevole autodeterminazione del paziente.
Trattasi, all’evidenza, di diritti diversi dal momento che vi può essere lesione di un diritto e non dell’altro (per esempio, consenso viziato per carenza di informazioni rilevanti ma esito terapeutico migliorativo delle condizioni del paziente).
I due diritti vanno distinti perché pongono tematiche diverse.
Invero, consideriamo il nostro caso sotto il profilo del diritto alla salute.
Qui c’è una condotta attiva del medico da cui è derivato – senza colpa – un effetto lesivo.
C’è nesso di causalità tra condotta ed evento, ma non c’è colpa.
Trattandosi di comportamento attivo, e non omissivo, nessun giudizio controfattuale va compiuto al fine di accertare il nesso causale. Non si tratta di prefigurare ipoteticamente la condotta omessa e desumerne, in base a leggi universali o statistiche, l’effetto.
Si tratta di collegare in base ad un criterio di inferenza scientifica una condotta reale ad un effetto reale.
Indugiamo ora a considerare il nostro caso sotto il profilo del diritto all’autodeterminazione del paziente.
Qui c’è una condotta omissiva (omessa comunicazione di informazioni rilevanti) e c’è un consenso (viziato) all’operazione.
Non possiamo applicare alcun automatismo logico del tipo: post hoc, ergo propter hoc.
Occorre applicare il giudizio controfattuale per accertare se in presenza della condotta alternativa ipotetica (comunicazione delle informazioni omesse) si sarebbe verificato o meno l’evento (cioè la prestazione del consenso all’operazione).
Se giungiamo alla conclusione che il paziente – avendo conosciuto l’informazione omessa – avrebbe comunque prestato il proprio consenso, allora dobbiamo concludere che quell’omissione non ha avuto alcuna efficienza causale sulla prestazione del consenso.
Fin qui l’impostazione del motivo di ricorso appare corretta.
Ma occorre procedere oltre e trarre tutte le implicazioni da tale impostazione.
La ratio decidendi della sentenza da ultimo evocata ne restringe la sua portata come precedente. Infatti, quella sentenza in più punti ribadisce che deve trattarsi di intervento medico necessario.
La necessità dell’intervento chirurgico preclude la possibilità di qualificare contra ius l’intervento stesso: l’ordinamento non può – pena l’autocontraddizione – qualificare contra ius un intervento medico necessario.
Invece, nel campo degli interventi non necessari (secondo la scienza medica del tempo), un intervento compiuto senza valido consenso perde qualsiasi fonte di legittimazione.
Diventa un intervento contra ius, che espone chi lo compie a tutte le conseguenze della sua condotta. Anche se l’intervento fosse compiuto secondo i migliori protocolli terapeutici.
Infatti, occorre separare le due qualificazioni giuridiche: quella che riguarda l’intervento in sé (potremmo dire l’an dell’intervento) e quella che riguarda l’esecuzione dell’intervento (potremmo dire il quomodo dell’intervento).
La seconda qualificazione può essere secundum ius e nondimeno essere contra ius la prima qualificazione: infatti, ben può essere illegittimo un intervento eseguito correttamente.
E questo avviene in tutti i casi in cui l’intervento terapeutico non trova legittimazione né nel consenso, né nella necessità.
Ora, nel campo della chirurgia estetica raramente un intervento può ritenersi necessario. Ma certamente non può qualificarsi tale l’intervento compiuto nel nostro caso.
Pertanto, quell’intervento era illegittimo sia perché non necessario, sia perché non autorizzato da un valido consenso.
Va rimarcata la particolare rilevanza del consenso negli interventi di chirurgia estetica.
Secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub n. 4 del Considerato in diritto) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Invero, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (fra le varie Cass. 11.12.2013 n. 27751; Cass. 31.7.2013 n. 18334; Cass. 27.11.2012 n. 20984; Cass. 28.7.2011 n. 16543).
Il medico è tenuto ad informare il paziente dei benefici, delle modalità di intervento, dell’eventuale scelta tra tecniche diverse, dei rischi prevedibili.
Questo dovere di informazione è particolarmente pregnante nella chirurgia estetica, perché il medico è tenuto a prospettare in termini di probabilità logica e statistica al paziente la possibilità di conseguire un effettivo miglioramento dell’aspetto fisico, che si ripercuota anche favorevolmente nella vita professionale e in quella di relazione (Cass. 6.10.1997 n. 9705; Cass. 1985 n. 4394).
In sostanza, il miglioramento del proprio aspetto fisico – che è il risultato che il paziente intende raggiungere con l’intervento acquista un particolare significato nel quadro dei doveri informativi cui è tenuto il sanitario, anche perché soltanto in questo modo il paziente è messo in grado di valutare l’opportunità o meno di sottoporsi all’intervento di chirurgia estetica. In questa materia, infatti, può parlarsi nella maggioranza dei casi, di interventi non necessari, che mirano all’eliminazione di inestetismi e che, come tali, devono essere oggetto di un’informazione puntuale e dettagliata in ordine ai concreti effetti migliorativi del trattamento proposto.
Sotto questo profilo, le caratteristiche e le finalità del trattamento medico – estetico, impongono un’informazione completa proprio in ordine all’effettivo conseguimento del miglioramento fisico e – per converso – ai rischi di possibili peggioramenti della condizione estetica.
La necessità di una informazione puntuale, completa e capillare è funzionale alla delicata scelta del paziente: se rifiutare l’intervento o accettarlo correndo il rischio del peggioramento delle sue condizioni estetiche.
È questa la fondamentale caratteristica dell’intervento estetico non necessario.
Nel caso in esame, l’assenza di informazione nei sensi descritti non ha, quindi, consentito all’attuale resistente, di valutare l’opportunità o meno di eseguire l’intervento proposto o di sceglierne di alternativi.
Va, in definitiva, ribadito che – nel caso di interventi non necessari – il “consenso informato” costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Del resto, anche a voler, per un attimo, accogliere la prospettiva del ricorrente, occorre considerare che il giudizio controfattuale va compiuto, non con una avventurosa indagine nella psiche del paziente, ma facendo richiamo alle categorie della razionalità e della normalità.
Ci si dovrebbe cioè chiedere cosa avrebbe deciso una persona normale e razionale se avesse avuto tutte le informazioni rilevanti.
Ora, in difetto di una corretta e puntuale informazione sulle possibilità che l’esito del trattamento potesse addirittura risolversi in un peggioramento del suo aspetto fisico (intervento di chirurgia plastica con escissione epidermica della parte interessata per l’eliminazione di un tatuaggio sulla spalla dal quale è residuata una cicatrice “a forma di losanga, il cui asse maggiore è pari a cm. 4,5 il minore a 2,5 cm, non aderente ai tessuti sottostanti, con colorazione simil-cutanea, ma con striature ipercromiche” (pag. 3 della sentenza), deve ritenersi che la paziente – come qualsiasi soggetto normale e razionale – avrebbe opposto un rifiuto a sottoporsi alla tecnica di intervento proposta.
Con tali precisazioni, le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito sono corrette.
Va, quindi, sul punto enunciato il seguente principio di diritto:
“Quando ad un intervento di chirurgia estetica consegua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare, all’accertamento che di tale possibile esito il paziente non era stato compiutamente e scrupolosamente informato consegue ordinariamente la responsabilità del medico per il danno derivatone, quand’anche l’intervento sia stato correttamente eseguito. La particolarità del risultato perseguito dal paziente e la sua normale non declinabilità in termini di tutela della salute consentono infatti di presumere che il consenso non sarebbe stato prestato se l’informazione fosse stata offerta e rendono pertanto superfluo l’accertamento, invece necessario quando l’intervento sia volto alla tutela della salute e la stessa risulti pregiudicata da un intervento pur necessario e correttamente eseguito, sulle determinazioni cui il paziente sarebbe addivenuto se dei possibili rischi fosse stato informato”.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1882 e seguenti del codice civile, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c..
Il motivo non è fondato.
La Corte di merito, sui rilievi prospettati nel giudizio di appello dalla Milano Assicurazioni in ordine alla infondatezza dell’azione di garanzia, relativa soltanto ai rischi connessi ad errori tecnici del chirurgo, ha ritenuto che “la causa della responsabilità del medico risiede in una sua negligenza del dovere informativo, non in un errore di applicazione della tecnica chirurgica, evento questo che costituiva oggetto del rischio assicurato, come risulta dal contratto stipulato tra le parti e prodotto in primo grado, il cui rischio relativo alla responsabilità per danno estetico cagionato al paziente è garantito per il solo caso di danno causato da errore tecnico nell’intervento, come emerge dalle condizioni aggiuntive di polizza depositate anche dal professionista”.
Ora, anche a prescindere dai profili di inammissibilità ai sensi degli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 c.p.c., per non essere riportato per esteso il contenuto delle invocate clausole della polizza assicurativa e le condizioni generali di polizza (con le condizioni aggiuntive), senza neppure indicare in quale sede processuale tali documenti siano stati prodotti, sta di fatto che anche il ricorrente concorda con il riconoscere che la polizza avrebbe coperto i danni “connessi all’attività diagnostica e terapeutica svolta”, ritenendo, però, che anche il c.d. consenso informato rientrerebbe nella funzione diagnostica oggetto del rischio assicurato.
La tesi non può essere seguita.
Il cosiddetto “consenso informato”, pur rientrando nel rapporto sanitario a contenuto contrattuale è espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, e non può essere considerato un equipollente della fase e della funzione diagnostica che lo precede temporalmente, mentre è finalizzato proprio a quella successiva, terapeutica, in ordine alla quale deve essere richiesto e prestato.
Quanto poi al richiamo alle condizioni aggiuntive, cui fa riferimento la Corte di merito per affermare che il rischio relativo alla responsabilità per danno estetico era garantito per il solo caso di danno causato da “errore tecnico nell’intervento”, la loro mancata riproduzione integrale toglie pregio alla tesi del ricorrente che ne vorrebbe la validità “a condizione che fossero richiamate nella polizza”; ciò che non può, neppure sotto questo profilo, essere oggetto di esame in questa sede.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 del codice di procedura civile, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c..
Il motivo non è fondato per le ragioni che seguono.
Materialmente il dispositivo sul capo della sentenza relativo alla domanda di manleva proposta dal L. nei confronti della compagnia di assicurazioni SIS difetta; ma questa carenza non determina le conseguenze che vorrebbe trarne il ricorrente.
Il decisum è chiaramente desumibile dalla motivazione sul punto adottata dalla Corte di merito, che ha ritenuto che la garanzia assicurativa coprisse soltanto errori di applicazione della tecnica chirurgica, ma non la riconosciuta responsabilità per la violazione del diritto informativo. D’altro canto, nella specie, risulta pienamente assicurata la finalità cui la norma dell’art. 132 n. 5 c.p.c. fa riferimento, che è quella di consentire all’interessato di esplicare il suo diritto di difesa attraverso l’impugnazione della statuizione a lui negativa.
Ed è ciò che il L. ha fatto impugnando, con il secondo motivo di ricorso – infondato per le ragioni più sopra espresse – proprio il mancato riconoscimento della copertura assicurativa.
Pertanto, alcuna lesione al diritto di difesa dell’interessato è stata in questo caso arrecata dalla omissione materiale della riproduzione del contenuto della statuizione.
Ed il suo diritto all’impugnazione è stato pienamente rispettato.
In definitiva, i dubbi del dispositivo possono essere chiariti dalla motivazione ed, in questo caso, è evidente che vi è stata una valutazione del motivo di impugnazione ed una decisione reiettiva dello stesso, puntualmente impugnata con ricorso per cassazione.
La sentenza ha, infatti, ritenuto che non sussistessero le condizioni per l’accoglimento della domanda di manleva.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo in favore della resistente, sono poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della resistente che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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