Corte di Cassazione, sezione III, 29 settembre 2011, n. 35296. In tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale

 

La massima

In tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47, quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo. La produzione in giudizio, dunque, di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza.

Il testo integrale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 20 aprile – 29 settembre 2011, n. 35296

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Rilevato che con sentenza del 23 aprile 2010 (depositata il 6 maggio 2010), il GUP del Tribunale di L’Aquila ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di Z.S. per tutti i reati a lei ascritti (assorbite le condotte ex art. 326 nelle corrispondenti fattispecie delittuose di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 26 e 167), perchè il fatto non sussiste;

che la Z. era accusata, nella veste di medico di ruolo della ASUR 11, di aver abusato di tale qualità e, al fine di trame profitto, di aver proceduto al trattamento dei dati personali attinenti allo stato di salute di C.C., senza il consenso dell’interessata e l’autorizzazione del garante, al di fuori delle ipotesi consentite di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003 (D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 26 e 167 e art. 61 c.p., n. 9) rivelando a vari soggetti notizie concernenti la patologia di cui aveva sofferto la C. (art. 326 c.p.);

che, in particolare, la Z., per difendersi in un giudizio civile volto alla sua condanna al risarcimento dei danni in favore dell’attrice C., introdotto avanti al Tribunale di Fermo (RG2780/05), si sarebbe procurata, anche attingendole dalla cartella clinica ospedaliera, informazioni relative alla patologia che affliggeva la C., poi comunicandole al proprio difensore e a terzi (mediante capitolazione della prova testimoniale richiesta in sede di giudizio con memoria ex art. 184 c.p.c.);

che, inoltre, la Z., qualche tempo prima, in altro procedimento civile, tenutosi ancora avanti al Tribunale di Fermo (relativo ad una controversia con un proprio collega di lavoro: proc. n. 325/05), avrebbe presentato istanza di ricusazione del giudice, padre della C., consegnando al proprio difensore uno scritto con il quale menzionava (e offriva in comunicazione al detto difensore ed ai terzi) i dati sensibili richiamati, contenenti, tra l’altro, la notizia e le circostanze di un ricovero della detta C. avvenuto nel corso dell’anno 1999 (e degli altri ricoveri avvenuti) presso il servizio psichiatrico ove la medesima Z. svolgeva le sue funzioni di medico e, perciò, di pubblico ufficiale, così palesemente violandone i doveri;

che l’imputata è stata assolta dalle ipotizzate violazioni del reato di cui all’art. 326 c.p. sia in applicazione del principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. con l’altra incriminazione sia per l’insussistenza di un divieto assoluto di comunicazione dei dati riservati;

che, infatti, secondo il GUP, anche il primo reato (D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 26 e 167 e art. 61 c.p., n. 9) era da escludersi sia sotto il profilo oggettivo che quello soggettivo;

che, infatti, la dr.ssa Z. aveva fatto legittimamente ricorso alla comunicazione di quei dati, dapprima, nella controversia che lo vedeva avversaria del proprio collega di lavoro del servizio di psichiatria (il dr. M.A.), medico curante della C. e in rapporti di amicizia con il padre della paziente e giudice designato della vertenza che la contrapponeva al detto sanitario, e poi nella successiva causa intentata dalla paziente, figlia del giudicante;

che, secondo il provvedimento impugnato, la Z. avrebbe agito, nella sede giudiziaria competente, per conseguire un risultato lecito, esercitando un diritto costituzionalmente garantito, che avrebbe scriminato – ex art. 51 c.p. – ognuna delle condotte censurate;

che, sul piano oggettivo, sia nel caso dell’azione giudiziaria proposta dalla C., sia in quello della vertenza con il collega di lavoro, arbitrata dal padre della suddetta, la d.ssa Z. avrebbe fatto valere un proprio diritto; che, nel caso della prima vertenza, ella avrebbe cercato di dimostrare che il tentativo di suicidio della paziente non era stato affatto dovuto – come asserito dall’attrice – al presunto disvelamento della propria patologia psichica indicata nell’istanza di ricusazione, proposta nella seconda vertenza (ma prima sul piano temporale), ma alla sua effettiva e pregressa malattia psichica (prova contraria alle affermazioni di sussistenza dell’illecito capitolata nel giudizio civile); che, nella secondo vertenza (quella con il proprio collega di reparto sanitario), non vi sarebbe nemmeno l’estremo della divulgazione atteso che la comunicazione dei dati sarebbe stata diretta all’AG competente, allo scopo di risolvere il problema della terzietà del giudice (indipendentemente dal fatto che poi l’istanza sarebbe stata respinta ed il giudice C. si sarebbe comunque astenuto);

che la parte civile, C.C., ha proposto ricorso ex art. 428 c.p.p. avverso la detta sentenza, facendo valere quattro mezzi di impugnazione; che, con il primo mezzo (con il quale si duole della nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., lett. b), per inosservanza od erronea applicazione della legge penale e delle previsioni del codice della privacy, particolarmente del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 26, comma 4, e art. 167, comma 2, nonchè dell’art. 51 c.p.c., e per travisamento del fatto in relazione all’accusa relativa al giudizio tra la Z. ed il suo collega medico, primo in ordine di tempo) la ricorrente si duole, anzitutto, della insufficiente, erronea e contraddittoria motivazione del giudice di merito in ordine al provvedimento di rigetto del ricorso di astensione proposto, a suo tempo, dall’imputata. In relazione a quest’ultimo epilogo, inoltre, si lamentano alcuni errori di diritto in ordine all’operato bilanciamento tra il diritto alla tutela dei dati personali sensibili (della ricorrente) ed il diritto di difesa riconosciuto all’imputata. Tale bilanciamento sarebbe stato operato in violazione del principio di concretezza della ponderazione dei valori e di prevalenza del bene della dignità personale rispetto al diritto di credito sottostante alla sua tutela giurisdizionale.

E ciò tanto più in quanto l’imputata avrebbe acquisito tali dati in assenza di una rituale procedura amministrativa e li avrebbe utilizzati con modalità mancanti del nesso di necessità, pertinenza e non eccedenza rispetto all’istanza di ricusazione proposta contro il genitore della interessata al loro trattamento. che, con il secondo mezzo (con il quale si duole della nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., lett. b), per inosservanza od erronea applicazione della legge penale e delle previsioni del codice della privacy, particolarmente del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 26, comma 4, e art. 167, comma 2 in relazione all’accusa relativa al giudizio tra la C. e la Z.: secondo in ordine di tempo) la ricorrente si duole di alcune delle stesse ragioni già esposte con il primo mezzo (scorretto bilanciamento, eccedenza del trattamento);

che, con il terzo mezzo (con il quale si duole della nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., lett. b), per inosservanza od erronea applicazione della legge penale – artt. 15 e 326 c.p. – per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione: in relazione alle due ipotesi di accusa di cui all’art. 326 c.p.) la ricorrente si duole, anzitutto, che il giudice abbia disatteso la diversa oggettività giuridica delle due ipotesi criminose, ritenendo applicabile il principio di specialità. In secondo luogo, censura l’asserita insussistenza del reato che viceversa sussisterebbe per il comportamento accertato in spregio all’art. 26 cod. privacy. che, con il quarto ed ultimo mezzo (con il quale si duole della nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., lett. b), per inosservanza od erronea applicazione della legge processuale penale relativa alla disciplina dell’udienza preliminare: artt. 421 e 425 c.p.p.) la ricorrente si duole del fatto che il GUP abbia disatteso la regola di giudizio secondo la quale quando vi sia insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti questi devono essere esaminati solo in dibattimento.

Considerato che il ricorso è infondato e deve essere respinto;

che l’esame dei primi due mezzi può essere svolto congiuntamente trattandosi, nella sostanza, con qualche distinguo in ordine alla maggior complessità del primo motivo, sostanzialmente delle stesse doglianze; che, in ordine al profilo della reiezione dell’istanza di ricusazione come presupposto ostativo per l’esclusione del reato, di contro operata dal giudice di merito, questa Corte deve affermare il principio secondo cui, ai fini dell’accertamento del reato di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, comma 2, la cognizione del giudice di merito non può essere limitata o condizionata dalla natura di un provvedimento giurisdizionale di qualsivoglia natura e, meno che mai, dal provvedimento del giudice civile che – come nella specie – sia stato adottato a seguito di un ricorso giurisdizionale contenente i dati sensibili del cui presunto trattamento illecito da parte della ricorrente si controverte; che, in sostanza, non solo non vi è pregiudizialità tra l’accertamento civilistico compiuto in quella diversa sede e quella di cui al presente giudizio, ma il detto provvedimento, costituendo uno degli atti del procedimento iniziato con il ricorso contenente i dati sensibili oggetto del preteso trattamento illecito, è solo uno degli elementi, fra i tanti, che il giudice penale deve valutare ai fini del riscontro dei fatti che costituiscono l’elemento oggettivo e quello soggettivo del reato in esame;

che, nella specie il GUP ha valutato come irrilevante, ai fini del decidere l’odierno thema decidendum, l’epilogo di quel ricorso (che, peraltro, ha condotto all’astensione da parte del giudice del giudizio, padre della parte civile) perchè ha ritenuto pienamente scriminato il comportamento dell’imputata, in esercizio del suo diritto costituzionale di difesa, quello di essere giudicato – nella controversia civile con il proprio collega di lavoro incidente sulle rispettive carriere professionali – da un giudice che non fosse amico di uno dei due, anche per la lunga frequentazione dovuta alla cura della propria figlia, affetta da particolari patologie psichiche seguite – sul piano clinico – proprio da quel concorrente in causa con la sua collega;

che tale irrilevanza appare pienamente giustificata proprio per le vantazioni in diritto del giudice della ricusazione, invero piuttosto opinabili, e comunque perchè non incidenti sul sostrato motivazionale adottato (l’esistenza della scriminante), rispetto al quale quell’epilogo decisorio è obiettivamente del tutto irrilevante;

che, quanto al bilanciamento operato dal giudice di merito in favore del diritto di difesa dell’imputata, questa Corte non può non richiamare il principio di diritto già enunciato dalle Sezioni Unite civili in fattispecie relativa al trattamento di altri dati sensibili (inerenti al rapporto di coppia in una controversia di status) laddove esse hanno affermato che “In tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale giacchè detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 193 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47 (c.d. codice della privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti,, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettiva mente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benchè anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy. (Principio affermato dalla S.C. con riguardo alla condotta della parte che aveva notificato l’ordine di esibizione dato dal giudice istruttore ed alcuni verbali d’udienza in collegamento con lo stesso ordine, anche in assenza del consenso del titolare dei dati riportati nei predetti atti)” (Sez. U, Sentenza n. 3034 del 08/02/2011, Rv. 616637);

che, peraltro, tale principio non costituisce una novità essendo già emersa da altre decisioni dello stesso segno come ad es. con la sentenza della Cass, Civ. (Sez. 3) n. 3358 del 11/02/2009 (Rv. 606935) secondo cui “La produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza. La facoltà di difendersi in giudizio utilizzando gli altrui dati personali va tuttavia esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dalla L. n. 675 del 1996, art. 9, lett. a) e d), sicchè la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in un giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni subiti da un avvocato per effetto della cessazione del rapporto professionale con un cliente, aveva ritenuto legittima la produzione di una lettera dello stesso attore indirizzata a terzi, da cui risultava che i motivi della rinuncia all’incarico erano diversi da quelli dedotti in giudizio)”;

che, pertanto, trovandosi a invocare la terzietà del giudice di quel giudizio ove non vi era stata astensione da parte del giudicante, l’imputata ha correttamente proposto ricorso di ricusazione portando a corredo della sua legittima istanza il rapporto di amicizia del suo avversario con il giudice e delle ragioni della loro lunga e risalente frequentazione;

che, quindi, solo sotto quest’ultimo profilo può darsi ingresso alla censura della presunta mancanza di correttezza, pertinenza e non eccedenza dei dati forniti nell’economia del suo ricorso;

che, tuttavia, ciò può essere riguardato solo in astratto, non certo in concreto atteso che il giudice di merito ha, con decisione congruamente motivata (tra l’altro spiegando che l’imputata non aveva alcun motivo di menzionare i detti dati sensibili non avendo ragioni di astio o di rancore, ed anzi – avendo curato la persona offesa nel corso della sua attività professionale- avendo mostrato nei suoi riguardi una positività di comportamento) e immune da vizi logici chiarito non solo la correttezza ma anche la pertinenza (con l’obiettivo di dimostrare tal frequentazione tra parte e giudice a causa del rapporto nato come professionale sanitario) e la non eccedenza dei dati forniti, senza che questo giudice di legittimità possa procedere ad una rivalutazione di tale giudizio;

che, infatti, l’imputata ha svolto le sue comunicazioni, correttamente, all’interno delle forme del processo senza che possa rilevare il fatto che gli addetti all’Ufficio giudiziario interessato siano potuti venire a conoscenza del contenuto del ricorso, essendo gli stessi tenuti al relativo segreto;

che neppure ha pregio l’eccezione relativa alla presa di conoscenza dei detti datti sensibili in quanto, com’è ragionevole desumere, dette informazioni sono state raccolte nel corso dell’esercizio professionale all’interno del medesimo reparto di cura e trattamento della parte civile;

che, per le stesse ragioni dianzi menzionate, deve essere respinto il terzo motivo del ricorso in base al precedente di questa stessa Corte (Sez. 6, Sentenza n. 6058 del 24/01/1989, Crincoli) secondo cui “Al reato di rivelazione di segreti di ufficio è applicabile la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, di cui all’art. 51 c.p., allorchè la rivelazione è fatta per difendersi in giudizio, essendo il diritto di difesa prevalente rigetto alle esigenze di segretezza e buon funzionamento delle P.a.)”;

che avendo operato all’interno delle forme ed osservando le regole processuali, così come accertato nel merito, anche l’imputazione di cui all’art. 326 c.p. deve essere esclusa, così come ha correttamente operato il GUP con la sua decisione qui esaminata, residuando come ultronea ed inessenziale la questione della diversità di oggetto tra i due reati contestati;

che, anche il quarto motivo è infondato, avendo il GUP escluso (implicitamente) la necessità del rinvio a giudizio avendo maturato (correttamente, come si è detto) il convincimento della non illiceità dell’operato dell’imputata odierna da tutti i reati a lei ascritti, al di là di ogni dubbio;

che, in conclusione, il ricorso deve essere respinto e la ricorrente condannata, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

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