Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 18 novembre 2014, n. 24468
Svolgimento del processo
1. Nel 2005 il sig. C.G. convenne la sig.a T.P. dinanzi al Tribunale di Avellino, esponendo che:
(-) nel 2002 concesse in comodato alla sig.a T.P. , all’epoca dei fatti sua moglie, un immobile al piano terra del fabbricato sito a (omissis) ;
(-) tale immobile era destinato dalla convenuta all’esercizio dell’attività di estetista;
(-) dopo la separazione dei coniugi e la cessazione della convivenza, aveva inutilmente richiesto il rilascio dell’immobile.
Concluse pertanto chiedendo la condanna della convenuta al rilascio dell’immobile ed al risarcimento del danno derivante dall’occupazione senza titolo.
2. Con sentenza 29.12.2008 n. 2280 il Tribunale di Avellino rigettò la domanda, sul presupposto che:
– alla donna, in sede di separazione, erano stati affidati i figli della coppia;
– il centro estetico era essenziale per l’attività lavorativa della donna, e tale attività lavorativa era a sua volta necessaria per il mantenimento dei figli;
– l’immobile era stato concesso in comodato senza fissazione di termine, e dunque non ne era esigibile la restituzione sino a quando non fosse esaurito l’uso cui era adibito.
3. La sentenza, appellata dal soccombente, venne confermata dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza 2.2.2011 n. 106.
4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da C.G. , sulla base di due motivi.
Ha resistito con controricorso T.P. .
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. Si assumono violati gli artt. 1803, 1809 e 1810 c.c..
Espone, al riguardo, che l’immobile era stato concesso in comodato senza fissazione di termine: esso pertanto doveva ritenersi “precario”, e risolubile ad nutum del comodante.
1.2. Il motivo è fondato.
La Corte d’appello ha correttamente ritenuto che, anche quando un immobile sia concesso in comodato senza fissazione espressa d’un termine, l’apposizione d’un termine di durata possa comunque desumersi dall’uso cui è destinato il bene.
Ne ha tratto però l’erronea conseguenza che quando l’immobile oggetto di comodato sia destinato ad un uso specifico, la restituzione potrebbe essere domandata solo una volta che sia cessato dell’uso cui l’immobile è destinato.
1.3. Tale affermazione della Corte d’appello è erronea in diritto.
L’errore in ture commesso dalla Corte d’appello è consistito nel ritenere che il comodato di un immobile che sia destinato ad una determinata attività sia implicitamente soggetto ad un termine di durata corrispondente alla durata dell’attività che vi si svolge.
Questa interpretazione non è consentita dall’art. 1810 c.c..
Tale norma stabilisce infatti una regola, e due eccezioni ad essa.
La regola è che l’immobile concesso in comodato debba essere restituito non appena il comodante lo richieda.
Le due eccezioni sono:
(a) che sia stato pattuito espressamente un termine di durata;
(b) che il termine di durata del comodato “risulti dall’uso cui la cosa è destinata”.
La norma prevede dunque tre ipotesi: quella in cui al comodato non sa fissato alcun termine; quella in cui sia fissato un termine esplicito, e quella in cui sia fissato un termine implicito.
Il termine di durata risultante “dall’uso cui la cosa è destinata”, cui fa riferimento l’art. 1810 c.c., è un termine implicito. In quanto implicito può non essere previsto espressamente, ma in quanto termine deve essere inequivoco.
Tale ipotesi ricorre, ad esempio, nel caso di comodato di un immobile destinato ad ammassare prodotti agricoli all’epoca del raccolto: in una simile ipotesi è innegabile che, terminata l’epoca del raccolto, il comodato cessa; ovvero nel caso di comodato di un immobile per consentire al comodatario di soggiornarvi durante gli studi universitari.
L’apposizione al comodato d’un termine derivante “dall’uso cui la cosa è destinata” non può invece ravvisarsi nel solo fatto che nell’immobile si svolga una determinata attività, commerciale o di altro tipo: per la semplice ragione che tale attività potrebbe non avere alcun termine prevedibile, nel qual caso il comodato sarebbe di fatto sine die. Conclusione, quest’ultima, che snaturerebbe la causa del contratto (il “prestito ad uso” degli antichi) ed esproprierebbe di fatto il comodante.
Esistono infatti attività il cui svolgimento è necessariamente espressione d’un termine implicito di durata del comodato (esigenze temporanee, occupazioni stagionali, necessità transeunti); ed attività che non sono soggette ad alcun termine di durata. Solo il primo tipo di attività, se svolte nell’immobile dato in comodato, consentono di ritenere che quest’ultimo sia soggetto ad un termine implicito.
La Corte d’appello ha dunque confuso il termine del comodato col termine dell’attività che si svolge nell’immobile dato in comodato, ritenendo che il fatto stesso che nell’immobile si svolga una attività commerciale ancori la durata del comodato alla cessazione di quell’attività.
Tale conclusione è tuttavia non solo contraria alla lettera dell’art. 1810 c.c., per quanto già detto, ma anche insostenibile sul piano logico, perché condurrebbe a conclusioni aberranti, ed in particolare:
(a) il comodato di immobili destinato ad attività che vi si svolgono sine die, sarebbe pur esso sine die;
(b) poiché la destinazione d’uso dipende dalla volontà del comodatario, e poiché non può concepirsi che un immobile non abbia una destinazione d’uso (sia pure solo di svago), a seguire il ragionamento della Corte d’appello la durata di ogni comodato finirebbe per essere rimessa alla volontà mera del comodatario.
Le conclusioni che precedono sono state già più volte affermate da questa Corte: pacifico, in particolare, è il principio secondo cui il termine del comodato può risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata solo “se tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo”. In mancanza, invece, di particolari prescrizioni di durata, ovvero di elementi certi ed oggettivi che consentano ab origine di prestabilirla, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a titolo precario, e, dunque, revocabile ad nutum da parte del comodante, a norma dell’art. 1810 c.c. (Cass. civ., sez. III, 25-06-2013, n. 15877, nonché, in precedenza, Cass. civ., sez. un., 09-02-2011, n. 3168).
1.4. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata, in applicazione del seguente principio di diritto:
La circostanza che nell’immobile dato in comodato sia svolta una attività commerciale non basta per ritenere quel comodato soggetto ad un termine implicito, ai sensi dell’art. 1810 c.c., e di conseguenza che il comodante non possa chiedere la restituzione dell’immobile sino a che non cessi l’attività in esso svolta.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c..
Espone, al riguardo, che poiché il comodato era gratuito, esso andava interpretato in caso di dubbio nel senso meno gravoso per l’obbligato: la Corte d’appello pertanto avrebbe violato l’art. 1371 c.c., nell’escludere che l’immobile fosse stato concesso a titolo di precario.
2.2. Il motivo è assorbito dall’accoglimento del primo motivo di ricorso.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello, condividendo la sentenza del Tribunale là dove aveva affermato che il comodato doveva ritenersi “funzionalizzato” ai bisogni della famiglia, perché la moglie separata esercitava il proprio lavoro nell’immobile concesso in comodato, ha adottato una motivazione irrazionale perché, gravando l’obbligo di mantenimento dei figli anche sul padre, questi non avrebbero subito pregiudizio per il solo fatto della cessazione del comodato.
3.2. Il motivo è fondato.
Che la concessione in comodato dell’immobile fosse “funzionale” ai bisogni della famiglia è affermazione immotivata del Tribunale, impugnata dal ricorrente con un motivo d’appello del tutto trascurato dalla Corte d’appello. Ma è affermazione irragionevole, giacché da un lato nulla è dato sapere circa i redditi dei coniugi e la regolazione degli oneri di mantenimento disposta in sede di separazione; dall’altro – a tutto concedere – funzionale ai bisogni della famiglia poteva essere ritenuta l’azienda materna, non l’immobile nel quale essa veniva esercitata: e la restituzione dell’immobile certamente non avrebbe soppresso l’azienda, che ben poteva essere esercitata altrove.
4. La decisione nel merito.
4.1. La sussistenza nella sentenza d’appello dei vizi sopra evidenziati non comporta la necessità d’una cassazione con rinvio con riferimento a tutte le domande formulate dal ricorrente.
La sentenza impugnata andrà cassata con rinvio alla Corte d’appello di Napoli affinché statuisca sulla domanda di risarcimento del danno, rimasta assorbita dal rigetto dell’appello.
La domanda di restituzione, invece, può essere decisa nel merito in questa sede, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
4.2. Non essendo dunque controverso che l’immobile sia stato concesso in comodato e non restituito; e che il comodante abbia manifestato la volontà di ottenerne la restituzione; T.P. va condannata alla restituzione in favore di C.G. dell’immobile sito in (omissis) , libero da persone e cose, nel termine di giorni 30 dal deposito della presente sentenza.
5. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell’art. 385, comma 3, c.p.c..
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
-) separa le domande proposte da C.G. ;
-) con riferimento alla domanda di restituzione, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna T.P. alla restituzione in favore di C.G. dell’immobile sito in (omissis) , piano terra, libero da persone e cose, nel termine di giorni 30 dal deposito della presente sentenza;
-) con riferimento alla domanda di risarcimento, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, affinché provveda sulla domanda non esaminata nel precedente grado di appello;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi di merito.
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