In tema di risarcimento del danno, il fatto colposo del creditore che abbia contribuito al verificarsi dell’evento dannoso è, ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., rilevabile d’ufficio dal giudice (sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente), per cui la sua prospettazione non richiede la proposizione di un’eccezione in senso proprio, avente natura di mera difesa
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
SENTENZA 8 marzo 2017, n. 5787
Ragioni della decisione
Giova preliminarmente precisare come i cinque motivi di ricorso siano formulati senza la riconduzione nell’ambito di una delle ragioni di impugnazione tassativamente stabilite dall’art. 360 cod. proc. civ. e senza la specificazione delle norme di diritto asseritamente violate: la descritta lacunosità non costituisce tuttavia causa di inammissibilità delle doglianze in tal guisa proposte, dacché, non richiedendo il ricorso per cassazione la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle ipotesi descritte dalla citata disposizione, l’articolato contenuto delle censure esposto nel libello introduttivo e il riferimento alla nullità della decisione impugnata consentono alla Corte di procedere alla corretta qualificazione dei vizi lamentati e di individuare i principi di diritto di cui si denuncia la violazione (sul tema, cfr., Cass., Sez. U., 24/07/2013, n. 17931; Cass. 31/10/2013, n. 24553; Cass. 16/03/2012, n. 4233; Cass. 03/08/2013, n. 14026).
Con il primo motivo, il ricorrente rileva la nullità della consulenza tecnica di ufficio espletata nel corso del giudizio di appello sotto un duplice profilo: per omesso avviso alle parti della data di inizio delle operazioni peritali, con derivante compromissione del diritto di difesa, segnatamente delle facoltà di nomina di un proprio consulente tecnico di parte e di produzione di documenti all’ausiliario officioso; per avere il c.t.u. risposto a quesiti differenti da quelli formulati dal giudice, in specie omettendo la richiesta valutazione sulla menomazione della capacità lavorativa specifica patita dall’ attore.
Il motivo è inammissibile.
In applicazione del principio di necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione, il ricorrente che proponga in sede di legittimità una determinata questione giuridica, la quale implichi accertamenti di fatto, ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ed altresì di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (specificamente, Cass., 19 aprile 2012 n.6118; Cass., 27 maggio 2010 n.12992; Cass., 20 ottobre 2006 n.22540).
Nella specie, disattendendo siffatto onere, parte ricorrente ha totalmente mancato di precisare il momento del giudizio di appello in cui sarebbe avvenuta la deduzione della qui rilevata nullità (peraltro non predicabile con riferimento alle valutazioni ultra mandatum compiute dall’ausiliario, prive di conseguenze inficianti della consulenza: Cass. 08/01/2000, n. 117; Cass. 22/06/2004, n. 11594), circostanza oltremodo imprescindibile integrando gli asseriti vizi procedurali della consulenza tecnica di ufficio cause di nullità relative, da eccepire dalla parte pregiudicata, a pena di decadenza, nella prima udienza o nella prima difesa successiva al deposito dell’elaborato peritale officioso, restando altrimenti il vizio definitivamente sanato (tra le tante, cfr. Cass. 24/01/2013, n. 1744; Cass. 08/04/2010, n. 8347; Cass. 25/10/2006, n. 22843).
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per motivazione apparente sulla valutazione dei danni riportati dall’attore in conseguenza del sinistro, specificamente per avere detta sentenza prestato acritica adesione alle conclusioni rassegnate nell’elaborato peritale officioso in tema di quantificazione delle lesioni permanenti, conclusioni tuttavia connotate da palese illogicità ed ingiustizia.
Anche questo motivo è inammissibile.
Come ripetutamente affermato dal giudice della nomofilachia, in tema di ricorso par cassazione par vizio di motivazione, la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha recepita) ha l’onere di trascrivere integralmente nel ricorso per cassazione i passaggi salienti della consulenza non condivisi o ritenuti erronei e di riportare, poi, il contenuto specifico delle puntuali critiche ad essi sollevate, al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a recepirla (ex plurimis, Cass. 03/06/2016, n. 11482; Cass. 02/02/2015, n. 1815; Cass. 12/02/2014, n. 3224; Cass. 13/06/2007, n. 13845).
Il motivo illustrato dal ricorrente è in tutta evidenza difforme dal descritto paradigma, non riportando nemmeno le parti della consulenza disapprovate e limitandosi ad una critica delle valutazioni peritali tanto generica quanto apodittica.
Del pari apodittico si profila il terzo motivo di ricorso, con cui, sub specie di «omessa motivazione sul punto decisivo della controversia relativo all’ammontare del risarcimento in favore di soggetto minore», parte ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia considerato il carattere ingravescente delle conseguenze lesive riportate dal minore, e cioè che una percentuale di invalidità del 20% abbia effetti ben più gravi su un bambino di tre anni rispetto ad una persona adulta.
Fermi e ribaditi i circoscritti confini delle censure di natura motivazione disegnati dal novellato art.360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. (applicabile ratione temporis alla fattispecie), va detto come il motivo in esame non soltanto non prospetti una delle ipotesi di anomalie motivazionali integranti violazioni di legge costituzionalmente rilevanti individuate dalla elaborazione giurisprudenziale di questa Corte (ovvero un vizio attinente all’esistenza della motivazione in sé, come la «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», la «motivazione apparente», il «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» o la «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile»: basti il richiamo a Cass., sez. un., 22 settembre 2014 n.19881 e a Cass., sez.un., 7 aprile 2014 n.8053), ma si risolva in una argomentazione di carattere astratto e generale, priva cioè di qualsivoglia doglianza riferita alla entità della liquidazione del danno in concreto operata.
Con gli ultimi due motivi, il ricorrente censura il ritenuto concorso di colpa del minore nella causazione del sinistro sotto due distinti profili:
– dal punto di vista processuale, una pronuncia del genere non poteva essere resa nei confronti dei coniugi R. e C., attori quali esercenti la potestà genitoriale sul minore M. R., nemmeno in accoglimento della (tempestivamente spiegata) domanda riconvenzionale della compagnia assicuratrice, in quanto domanda da rivolgere nei confronti dei coniugi in proprio per inosservanza del dovere di vigilanza sul minore (quarto motivo);
– quale omessa motivazione su punto controverso, non evincendosi nella sentenza impugnata se la condotta colposa reputata concausa dell’evento sia stata ascritta al minore o ai suoi genitori, ed in ogni caso con statuizione erronea, nell’un caso per la mancata considerazione delle condizioni del soggetto incapace e nell’altro per l’impossibilità di ridurre il risarcimento spettante al minore per un comportamento ai genitori imputabile (quinto motivo).
I motivi, congiuntamente esaminabili, sono infondati.
In punto di fatto, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, appare chiaro dalla lettura della sentenza gravata come la Corte territoriale abbia (con apprezzamento di merito invero nemmeno specificamente contestato) ravvisato un fatto munito di efficienza causale sulla produzione del sinistro nel contegno imprudente del minore M. R., del quale è stato accertato un attraversamento improvviso della strada, compiuto sfuggendo di mano al genitore che lo accompagnava e spostandosi verso il centro della carreggiata nel momento in cui transitava la vettura poi autrice dell’investimento.
Ciò posto, a confutazione della prima doglianza, va nuovamente riaffermato che in tema di risarcimento del danno, il fatto colposo del creditore che abbia contribuito al verificarsi dell’evento dannoso è, ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ. – rilevabile d’ufficio dal giudice (sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente) , per cui la sua prospettazione non richiede la proposizione di un’eccezione in senso proprio, avente natura di mera difesa (orientamento consolidato: Cass., Sez.U, 03/06/2013, n. 13902; Cass. 15/10/2013, n. 23372; Cass. 10/11/2009, n. 23734).
E la riduzione percentuale del danno in ragione dell’entità percentuale dell’efficienza causale del soggetto danneggiato, in quanto esclude (o attenua) il nesso di causalità tra condotta e danno e fissa pertanto un limite al principio della condicio sine qua, trova applicazione anche qualora la vittima sia una persona minore o comunque incapace di intendere di volere.
Con indirizzo esegetico affatto scalfito dalle argomentazioni del ricorrente, questa Corte ha più volte chiarito che quando la vittima di un fatto illecito abbia concorso, con la propria condotta, alla produzione del danno, l’obbligo del responsabile di risarcire quest’ultimo si riduce proporzionalmente, ai sensi dell’art. 1227, comma primo, cod. civ., anche nel caso in cui la vittima fosse incapace di intendere e di volere (per minore età o altra causa), in quanto la locuzione «fatto colposo» contenuta nel citato art. 1227 deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, e non quale sinonimo di comportamento colposo, per cui l’indagine deve essere limitata all’accertamento dell’esistenza della causa concorrente nella produzione dell’evento dannoso, prescindendo dalla imputabilità del fatto all’incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo (così Cass. 22/06/2009, n. 14548; Cass. 10/02/2005, n. 2704; Cass. 05/05/1994, n. 4332).
Disatteso il ricorso, vanno dichiarate non ripetibili le spese di lite sostenute dal ricorrente, non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questo giudizio.
Avuto riguardo all’epoca di proposizione del ricorso per cassazione (posteriore al 30 gennaio 2013), la Corte dà atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228): in base al tenore letterale della disposizione, il rilievo della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dichiara non ripetibili le spese di lite sostenute da parte ricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.
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