Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza del 15 novembre 2012, n. 20008
Svolgimento del processo
Con sentenza del 17.10.2002, pubblicata l’11.11.2002 il Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda proposta dal Fallimento della società Il C.s.r.l. nei confronti di P.M. , pronunziò la risoluzione, per inadempimento di quest’ultimo, della compravendita immobiliare, disposta con sentenza ex art. 2932 c.c. n. 2267/95 del medesimo tribunale, contestualmente dichiarata inefficace, per mancato pagamento da parte del suddetto, promissario acquirente, del prezzo dell’immobile.
Avverso detta sentenza il P. propose appello, cui resistette l’appellato, preliminarmente eccependo l’inammissibilità del gravame, in quanto tardivo.
In accoglimento di tale eccezione, la Corte di Milano, con sentenza del 30/5-9/6/2006 dichiarò il gravame inammissibile, con condanna dell’appellante alle spese, sulla base delle seguenti essenziali ragioni:
a) la sentenza di primo grado era stata notificata al P. , presso il suo procuratore e difensore domicilitario in data 19.5.2003 e l’atto di appello notificato il 27.12.2003, con notevole ritardo dunque in relazione al termine breve di cui all’art. 326 c.p.c.;
b) le condizioni di salute (malattia depressiva) addotte dall’appellante non avrebbero potuto giustificare il ritardo, in assenza di alcuna prova circa l’eventuale negligenza, nel renderlo edotto dell’atto notificatola parte del suo procuratore;
c) la domanda di rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c., oltre ad essere tardiva, perché proposta soltanto in sede di trattazione della causa in appello, era inammissibile, essendo stato invocato un istituto applicabile alla sola fase istruttoria, di carattere eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica;
d) conseguentemente irrilevante era la questione di legittimità costituzionale dedotta, peraltro “in termini molto generici”, dall’appellante.
Contro la suddetta sentenza il P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
Ha resistito il fallimento intimato con rituale controricorso. Vi sono memorie di ambo le parti.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 183 e 294 c.p.c., per essergli stata negata la rimessione in termini, per ritenuta tardività, senza considerare che la relativa istanza era stata formulata dopo che la parte interessata appreso che quella avversa aveva eccepito la “pretesa avvenuta notificazione della sentenza”, nell’udienza immediatamente successiva alla proposizione di tale eccezione.
Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 184 bis, 294 e 327 c.p.c., censurandosi l’affermazione della corte di merito secondo cui le norme sulla rimessione in termini si applicherebbero soltanto alla fase istruttoria, e non anche a quella impugnatoria, senza tener conto della portata generale dell’istituto, secondo il testo della norma come modificata dalla L. 534/95, non più contenente il limitato riferimento agli artt. 183 e 184 c.p.c., né considerando il rinvio generalizzato alle norme del processo di primo grado, contenuto nell’art. 359 c.p.c.
Con il terzo motivo si deduce omessa motivazione in relazione al fatto decisivo e controverso, ai fini della decadenza dell’appellante dal gravame, derivante dalla notifica della sentenza di primo grado. Si sostiene che la difesa del P. aveva rilevato che l’eccezione avversa si era basata sulla produzione di una semplice fotocopia della suddetta sentenza notificata, priva di attestazione di passaggio in giudicato, e si lamenta che la corte territoriale abbia del tutto omesso l’esame di tale controeccezione, cui avrebbe dovuto far seguito il deposito dell’atto originale.
Con il quarto motivo si deduce “insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo, in ordine ad onere della prova erratamente imposto all’appellante”.
La corte di merito, considerando che non vi sarebbe stata prova che il suo procuratore domiciliatario non l’avesse reso edotto dell’avvenuta notificazione della sentenza, avrebbe preteso una impossibile prova del fatto negativo, peraltro irrilevante, poiché comunque avrebbe dovuto anzitutto accertarsi della sussistenza o meno di una incapacità di intendere e di volere impeditiva di una valida determinazione al riguardo.
Con il quinto motivo, infine, si ripropone ed illustra la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 327 c.p.c., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., per contrarietà ai principi di eguaglianza e diritto alla difesa in ogni stato e grado del processo, della mancanza di una esplicita norma sulla rimessione in termini applicabile finalizzata ad evitare la decadenza dalle impugnazioni, in caso di non imputabilità del ritardo alla parte.
Tanto premesso, va anzitutto esaminato il terzo mezzo d’impugnazione, per l’evidente priorità logico-giuridica rispetto ai rimanenti.
Il motivo di ricorso risulta infondato per tabulas, rilevandosi, dall’esame (in questa sede consentito, in ragione della natura processuale della censura) del processo verbale della prima udienza di trattazione del giudizio di appello (tenutasi il 20.4.04), che nessuna specifica contestazione fu dalla parte appellante sollevata in relazione all’avversa produzione della copia della sentenza di primo grado, con riferimento alla cui notificazione l’appellata aveva, nella propria comparsa di costituzione e risposta, eccepito l’inammissibilità del gravame.
Il tenore delle argomentazioni difensive opposte dall’appellante a tale eccezione, segnatamente nella parte in cui si chiedeva, per le ragioni in narrativa indicate, la rimessione in termini per appellare, presupponevano quale dato non controverso l’avvenuta notificazione della sentenza in questione al procuratore e difensore del P. e, tuttavia, la mancata conoscenza da parte di quest’ultimo della relativa circostanza.
Non essendovi stata, nella prima udienza o difesa successiva alla sua produzione, una contestazione, neppure implicita, della conformità all’originale di tale copia, contestazione che peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, oltre che tempestiva, avrebbe dovuto essere chiara e specifica: v. nn. 21133/11, 10855/10, 28096/09, 16232/04), alla stessa andava riconosciuta, sensi dell’art. 2712 c.c., piena efficacia probatoria nel giudizio.
Altrettanto manifesta è l’infondatezza dei rimanenti motivi, da esaminarsi congiuntamente per la stretta connessione delle relative censure.
Dirimente al riguardo è la considerazione (anche in questo caso derivante dal diretto esame degli atti, consentito dalla natura processuale delle censure) che il P. , nel rilasciare al proprio procuratore e difensore, in calce alla copia passiva dell’atto di citazione, un mandato ampio ed illimitato (comprensivo anche di poteri di rinunzia e, sul piano sostanziale, di transazione), espressamente esteso ad “ogni fase e grado” del processo, avesse implicitamente conferito al medesimo anche la facoltà di proporre appello avverso l’eventuale decisione sfavorevole, così al riguardo rimettendosi ex ante alle valutazioni di opportunità processuale del proprio legale.
In siffatto contesto nel quale il convenuto risultava adeguatamente rappresentato, anche per la fase successiva al giudizio di primo grado, dal proprio difensore, quale unico organo esterno della parte processuale, come tale abilitato ad attivare quello di secondo grado, poco o punto rilevavano, sul versante esterno, eventuali disfunzioni incorse nello svolgimento di tale incarico e dovute a difetto di comunicazione, all’uno o all’altro soggetto ascrivibili ed esclusivamente attinenti alla dinamica interna del rapporto tra cliente ed avvocato.
Ne consegue l’irrilevanza, agli effetti processuali, sia della circostanza (peraltro rimasta allo stato di affermazione generica, non corredata da dati specificità pur appresi ex post) che l’avvocato domiciliatario avesse epistolarmente informato della ricevuta notifica il P. , sia di quella successiva, che quest’ultimo, a cagione del suo stato depressivo, neppure si fosse curato di ritirare o, comunque, di leggere la non meglio precisata lettera, posto che il professionista ben avrebbe potuto, in forza dell’ampia delega ricevuta, nell’ipotesi in cui non gli fosse stato possibile comunicare con il cliente e nel limitato tempo consentito dagli artt. 325 e 326 c.p.c., proporre il gravame, ove ritenuto necessario o anche solo opportuno, restando salva la successiva facoltà del suo assistito, quando informato, di recedere dallo stesso.
Conseguentemente difettano di rilevanza sia la questione (proposta nel secondo motivo) della estensibilità, ai termini impugnatori, della norma prevista dall’art. 184 bis c.p.c. (introdotta dalla L. 353/90 e poi abrogata da quella n. 69/09) temporalmente ed astrattamente applicabile al processo in questionerà quella (oggetto del secondo motivo), nell’ipotesi positiva, della tempestività dell’istanza, sia ancora, per l’ipotesi della non estensibilità, della questione di legittimità costituzionale dell’esclusione (oggetto del quinto motivo), così come irrilevante risulta, per le ragioni in precedenza evidenziatela questione (oggetto del quarto motivo) in ordine all’onere della prova circa l’eventuale negligenza del difensore.
Al rigetto del ricorso consegue, infine, la condanna del soccombente alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio in favore del controricorrente, in misura di complessivi Euro 2.700,00 di cui 200 per esborsi.
Depositata in Cancelleria il 15.11.2012
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