Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 3 dicembre 2015, n. 47772
Ritenuto in fatto
Con la sentenza impugnata la corte di appello di Potenza, in parziale riforma della sentenza del tribunale della medesima città in data 10 aprile 2013, appellata da N.G. , M.F.C. , Mo.Fr. e D.F.P. , ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati in ordine ai reati loro ascritti limitatamente alle condotte consumate fino al mese di ottobre 2006, perché estinti per prescrizione. Ha confermato nel resto la condanna per i reati di cui agli artt. 81 cpv., 483, 640 cpv., 61 n. 9 cpv., cod. pen., giacché gli imputati, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, tutti nella loro qualità di consiglieri regionali della regione Basilicata, attestavano falsamente in dichiarazioni autocertificate presentate all’ente regionale di avere la residenza in luogo diverso dal suddetto capoluogo: in particolare attestando falsamente di risiedere, rispettivamente, il N. a (…), il M. a (…), il Mo. ad (…) e il D.F. a (omissis) . Tenevano tale condotta artificiosa e raggirante al fine di ottenere per gli anni dal 2004 al 2008 il rimborso delle spese dovute ai consiglieri non residenti nel capoluogo di regione (ossia nella città di (…) privi di auto di servizio. Affermando pertanto una circostanza contraria al vero – risiedendo tutti gli imputati stabilmente in (…) – gli stessi inducevano in errore la regione Basilicata circa la sussistenza a loro vantaggio dei requisiti previsti della legge regionale n. 38 del 2002 per ottenere il menzionato rimborso spese: così procurandosi un ingiusto profitto rappresentato dalle somme dai suddetti indebitamente percepite nel periodo indicato, e corrispondentemente arrecando un danno alla regione.
Le argomentazioni difensive esposte nei ricorsi degli imputati risultano ampiamente sovrapponibili e pertanto sono, per ragioni di economia espositiva, trattate congiuntamente (segnalando ove occorra la diversità riscontrabile su talune posizioni rispetto alle altre).
Un primo ordine di doglianze concerne il vizio di motivazione e la violazione delle norme processuali sulla valutazione della prova (artt. 192, 546 cod. proc. pen.). Si assume che la ricostruzione dei fatti svolta dai giudici di merito non corrisponda alla realtà, manifestandosi come conseguita in violazione di legge e sulla base di una motivazione carente sotto il profilo logico. In difesa del N. si ribadisce come la residenza anagrafica e la dimora effettiva dell’imputato siano da individuare nella abitazione dello stesso nel comune di XXXXX. Nel ricorso si esaminano dettagliatamente le prove a carico dell’imputato circa la sua effettiva dimora, per il periodo in contestazione, nel comune di (…). Si sottopone a critica la sufficienza del materiale probatorio raccolto, consistente nelle risultanze di servizi di indagine di polizia giudiziaria e nell’acquisizione del traffico telefonico delle utenze all’imputato. Si segnala come le risultanze di tale traffico telefonico dimostrerebbero che moltissime telefonate erano state effettuate non in Potenza ma in Ruoti. Nel ricorso si svolge, inoltre, una dettagliata ricostruzione fattuale in cui sono anche riportati ampi stralci delle prove testimoniali raccolte al processo, le quali sono sottoposte ulteriormente a vaglio critico (cfr. fogli 5-13 del ricorso). Anche in difesa del M. si ribadisce come sia la residenza anagrafica che la dimora effettiva dell’imputato siano da individuare nella abitazione nel comune di (…), segnalandosi la documentazione portata a sostegno di detta ipotesi e concernente le ricevute di pagamento per le utenze di fornitura dell’acqua, dell’energia elettrica e del gas nella abitazione di (…). Si afferma come la presunzione della verità della residenza anagrafica non sarebbe stata superata dalle prove raccolte in atti, dettagliatamente esaminate, specialmente a pagina 57 del ricorso.
Infine, le difese del Mo. e del D.F. , sempre contestando la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, argomentano non troppo dissimilmente da quanto finora esposto che questi imputati hanno avuto per lungo tempo residenza anagrafica ed effettiva, rispettivamente, nei comuni di (…) e di (omissis) e che in ogni caso forti interessi di natura personale e di natura elettorale hanno sempre indotto gli stessi a costanti presenze in quei comuni di origine.
Un ulteriore ordine di motivi concerne la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
Oggetto di considerazione è l’art. 8, comma 1, lett. c) della legge regionale 29.10.2002, n. 38, il quale prevede un meccanismo di rimborso per costi di benzina riservato ai consiglieri residenti in comuni diversi da Potenza, in cui ha sede il consiglio regionale, senza specificare se il riferimento al concetto di “residenza” debba intendersi nella concezione di “residenza anagrafica” oppure in quella di “luogo di stabile dimora”.
La quale questione deve essere affrontata in considerazione del fatto che nel corso del procedimento penale è intervenuta la legge regionale del 22 luglio 2009 n. 21 – epigrafata “interpretazione autentica dell’articolo comma 2 del comma 5 della legge regionale 29.10.2002 N. 38 – testo unico in materia di indennità di carica, di funzione, di rimborso spese, di missione, di fine mandato di assegno vitalizio spettanti ai consiglieri regionali della regione Basilicata” – il cui art. 1 recita: “I commi 2 e 5 dell’articolo 8 della Legge Regionale 29 ottobre 2002, n. 38, si interpretano nel senso che per i Consiglieri “non residenti nel capoluogo di Regione”, la percorrenza dalla propria residenza è da intendersi unicamente quale parametro, ai fini del calcolo della distanza dal luogo di residenza anagrafica dei Consiglieri stessi al capoluogo di Regione, per la determinazione del rimborso spese forfettario di cui alla lettera e), comma 1 del medesimo articolo”.
I rilievi difensivi concernono, sotto un primo profilo, la interpretazione oggettiva della norma extrapenale che integra il precetto penale richiamato nel presente processo.
A tal riguardo sono presentati diversi argomenti.
Si difende innanzitutto la tesi che il riferimento, non ulteriormente qualificato, al luogo di “residenza” dei consiglieri regionali contenuto nell’art. 8 della legge regionale n. 38 del 2002 non possa che essere inteso in senso formale, come residenza anagrafica degli stessi, piuttosto che – come invece ritenuto dai giudici di merito – luogo della dimora abituale degli imputati. Nei ricorsi si richiama la costante prassi interpretativa di tale disposizione, svoltasi negli anni precedenti a quelli relativi alle condotte oggetto di processo, nel senso del significato meramente formale attribuito al termine, pacificamente inteso come residenza anagrafica e non dimora o domicilio. Si critica che la corte d’appello abbia motivato sulla mancanza di prova di tale fatto invece evidenziato da chiari rilievi istruttori (si richiama la deposizione del teste C. all’udienza del 13.3.2013).
Taluni ricorrenti precisano inoltre come le autocertificazioni richieste dall’ente regionale ai propri consiglieri non riguardavano soltanto un generico riferimento alla “residenza” ma anche un chiaro riferimento al “domicilio”, cosicché veniva contemporaneamente dichiarata l’esistenza della residenza, intesa come residenza anagrafica, nel luogo nella quale essa era stabilita, e invece il domicilio nel comune di Potenza: svolgendo limpide dichiarazioni all’ente comunale.
Ulteriori argomentazioni sono presentate con riguardo all’art. 1 della legge regionale n. 21 del 2009 e al suo valore di norma di interpretazione autentica, con efficacia retroattiva nel senso a loro favorevole, della disposizione citata, per affermare la mancata integrazione della fattispecie sotto il profilo della condotta (non potendosi ritenere sussistente nessuna condotta artificiosa o raggirante nella dichiarazione, corrispondente a verità, circa il luogo della propria residenza anagrafica, per come richiesto dalla legislazione regionale di riferimento, ai fini della realizzazione del rimborso spese legalmente previsto).
Si osserva che la legge del 2009 contiene una chiarificazione sull’uso del termine di “residenza” nella legge del 2002. Infatti è chiaro e testuale il riferimento alla “residenza anagrafica” come accezione specifica, tra le diverse, di intendere il non altrimenti specificato termine di “residenza”. Il legislatore del 2009 dichiara che i commi 1 e 5 dell’art. 8 della legge regionale 29 ottobre 2002, n. 38, “si interpretano” – dunque devono essere letti nello specifico significato, già implicito nel dato testuale, nel senso che per “residenza” deve intendersi la residenza anagrafica dei consiglieri regionali, e ciò per la determinazione del rimborso spese forfettario di cui alla lettera C comma 1 del medesimo art. 8.
Poiché il concetto di “residenza anagrafica” non può non ritenersi incluso tra le varie possibilità di interpretazione del generico concetto di “residenza” contenuto nella legge del 2002, allora la legge del 2009 ha chiaramente natura interpretativa. Tale norma interpretativa soddisfa anche il limite costituzionale della ragionevolezza, esprimendo in effetti uno dei tanti possibili significati da riconnettersi al termine generico di “residenza” e non un significato non ragionevole (proprio perché deve ritenersi ricompreso tra i vari possibili che vengono in questione). A tal punto si ridimensiona anche l’interrogativo sulla natura interpretativa o innovativa della disposizione in esame, giacché riferita ad un ragionevole significato già insito nella disposizione interpretata.
Oltre a ciò la decisione della corte di appello è stigmatizzata sotto un complesso e diverso profilo. In primo luogo, giacché ha ritenuto la norma regionale del 2009 (in oggetto) priva del carattere di interpretazione autentica e invece, genericamente, innovativa per l’inconferente argomento che la natura interpretativa della legge sarebbe argomentabile in presenza di contrasti giurisprudenziali preesistenti e in caso di soluzioni divergenti, tali da giustificare l’intervento legislativo a fini interpretativi: si osserva infatti che tale ragionamento non ha nessuna base logico giuridica. E in secondo luogo perché, sulla scorta di tale infondata premessa e pur rilevando i profili di eventuale incostituzionalità della norma medesima, piuttosto che sollevare la relativa questione sospendendo il processo, ha ritenuto di disapplicare la disposizione. In tal modo, si osserva, sarebbe stata commessa violazione dell’art. 2 cod. pen. e più in generale del principio per cui la non applicazione di una legge sospettata d’incostituzionalità non è affidata ai giudici di merito ma unicamente alla corte costituzionale. Si richiama anche Cass. sez. un. 19.4.2012, n. 34472 per cui “Il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e circoscriverne temporalmente, in contrasto con la sua ratio ispiratrice, l’area operativa, perché finirebbe in tal modo per disapplicarla, mentre l’autorità imperativa e generale della legge gli impone di adeguarvisi, il che delinea il confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale”.
Sotto altro diverso profilo, nei ricorsi si evidenzia l’insussistenza del dolo giacché la dichiarazione degli imputati sul proprio luogo di residenza sarebbe stata effettuata in completa buona fede anche alla luce della costante prassi interpretativa formatasi negli anni a riguardo e di cui già si è detto.
In ogni caso, infine, tale condotta di buona fede si baserebbe al più su un errore interpretativo avente tuttavia ad oggetto non già la fattispecie penalmente rilevante bensì la norma, di natura extrapenale, integratrice del precetto. Cosicché non rileverebbe nel caso di specie un errore sulla legge penale, bensì un errore sulla legge extrapenale, con conseguente non deducibilità del caso nella sfera dispositiva dell’art. 5 cod. pen.;
In ordine al trattamento sanzionatorio la difesa del D.F. lamenta infine violazione di legge e vizio di motivazione sulla circostanze attenuanti generiche, la cui concessione si assume sia stata ingiustamente negata dal tribunale, con decisione confermata dalla corte di appello con motivazione evidentemente lacunosa su tutti i profili di critica alla decisione del tribunale esposti nell’atto di appello e sintetizzati nel ricorso per cassazione.
Considerato in diritto
I ricorsi sono fondati per come di seguito esposto.
La motivazione della sentenza impugnata si avvia con l’illustrazione di un primo argomento, volto a difendere l’interpretazione del termine di “residenza” contenuto nell’art. 8 della I. reg. n. 38 del 2002, secondo cui lo stesso indicherebbe non la residenza anagrafica del soggetto, bensì il luogo della sua stabile dimora. Si nota come tale norma contempli la corresponsione di un emolumento ai consiglieri non residenti nel capoluogo di regione, secondo la percorrenza dalla propria residenza, a condizione che non usufruiscano di autovettura di servizio, per concludere come tali condizioni siano compatibili esclusivamente con la ragionevole interpretazione che il consigliere che risiede effettivamente in luogo diverso dal capoluogo di regione, e giunga nella sede del consiglio regionale con mezzi propri (senza avvalersi di autovetture di servizio), abbia diritto di essere ristorato dalle spese di viaggio sopportate. La disposizione avrebbe pertanto una chiara funzione risarcitoria delle spese subite e non certo una funzione retributiva (della quale nemmeno sarebbero chiari i presupposti).
La motivazione prosegue con l’esposizione di un secondo argomento, relativo alla l. reg. n. 21 del 2009, secondo la quale (cfr. sempre il citato art. 1) i commi 1 e 5 dell’art. 8 della legge regionale 29 ottobre 2002, n. 38, “si interpretano” – dunque vanno intesi nel significato, già implicito nel dato testuale, che per “residenza” deve intendersi la residenza anagrafica dei consiglieri regionali, e ciò per la determinazione del rimborso spese forfettario di cui alla lettera C comma 1 del medesimo art. 8.
La corte territoriale, pur riconoscendo sulla scorta del dato letterale – la legge in esame è intitolata “interpretazione autentica dell’articolo 8…. della legge regionale 29.10.2002 N. 38 – che l’intenzione del legislatore regionale era di varare una legge di interpretazione autentica, nega tale natura alla legge medesima, di cui afferma invece la natura innovativa e di cui deduce, per conseguenza, ai sensi dell’art. 11 prel. – la non retroattività: per concludere circa l’estraneità della legge in parola alla fattispecie concreta in esame.
I passaggi motivazionali si snodano sull’assunto che le leggi di interpretazione autentica avrebbero valore meramente ricognitivo e giammai innovativo; del resto la funzione di interpretazione autentica presupporrebbe la necessità di dirimere un insanabile contrasto di interpretazioni giurisprudenziali, nel caso non sussistente; pertanto poiché la legge del 2009, attribuirebbe alla legge del 2002 un significato “che quella legge non poteva avere, non potrà riconoscersi ad essa efficacia retroattiva, fatta salva la volontà contraria del legislatore” che nel caso di specie si assume non espressa (cfr. p. 9 e 11 della motivazione).
La corte territoriale afferma anche che la legge del 2009, nel collegare il diritto al rimborso al requisito inconferente della residenza anagrafica del richiedente, contrasterebbe con il principio di ragionevolezza contenuto nell’art. 3 Cost. “in quanto ricollega il diritto al rimborso delle spese ad una situazione soggettiva (residenza anagrafica) che risulta estraneo alla ratio ed alla funzione del diritto medesimo (spese sostenute per spostarsi dal luogo di stabile ed effettiva permanenza)”. E tuttavia aggiunge: “Ciò posto, questo collegio, pur ravvisando profili di incostituzionalità della disposizione contenuta nella L.R. n. 21/2009, ritiene che la questione in esame si può dirimere, nel processo di che trattasi, senza che vi sia la necessità di adire la Corte Costituzionale, sul presupposto che nel caso di specie non si è in presenza di una norma di interpretazione autentica, dotata, in quanto tale, di efficacia retroattiva” (cfr. p. 10 della motivazione).
Dunque, la corte di appello sostiene la tesi della incostituzionalità della legge del 2009 ma non ritiene di sollevare la relativa questione, in quanto afferma la natura dispositiva e innovativa della legge medesima, la conseguente non retroattività, e pertanto l’inapplicabilità al caso di specie.
Gli argomenti esposti dalla corte territoriale per giungere a queste conclusioni sono giuridicamente errati.
L’affermazione che le leggi di interpretazione autentica presupporrebbero l’esistenza di insanabili contrasti interpretativi di natura giurisprudenziale è apodittica e non riscontrata dalla realtà (giacché assume una plausibile ragione pratica per l’intervento legislativo di interpretazione autentica a presupposto giuridico dello stesso).
L’ulteriore affermazione che le leggi di interpretazione autentica avrebbero natura meramente ricognitiva e non anche dispositiva e innovativa è contraddetta dalla giurisprudenza costituzionale citata dalla stessa corte territoriale a p. 9 della motivazione, dove si ricorda in particolare la sentenza n. 257 del 2011 secondo cui “con riferimento ad altre leggi d’interpretazione autentica, questa Corte ha già affermato che non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva), ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Infatti, il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost.. Pertanto, il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Sotto l’aspetto del controllo di ragionevolezza, dunque, rilevano la funzione di “interpretazione autentica”, che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l’idoneità di una disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge dispone soltanto per l’avvenire. In particolare, la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 162 e n. 74 del 2008)”.
Come ampiamente argomentato dai ricorrenti, nel caso di specie si è verificato che la disposizione del 2009 – dichiarata espressamente nella stessa rubrica della legge di interpretazione autentica di quella del 2002 – abbia attribuito alla seconda un significato tra i possibili e ragionevoli. Infatti, ha attribuito al termine generico di “residenza” il significato specifico di “residenza anagrafica”, il quale è certamente ricompreso nel novero di significati che il primo termine può in concreto assumere (accanto a quello di “luogo di stabile dimora”). In altri termini, ha assunto il concetto generico di “residenza” nella concezione specifica di “residenza anagrafica”.
Può essere il caso di indugiare rilevando inoltre come ciò che qui conta è che il significato attribuito sia ragionevole rispetto al termine di riferimento, e non ovviamente al più vasto contesto occasionale, di natura normativa, in cui lo stesso si trova ad essere.
In altri termini, è necessario, ma anche sufficiente ai fini che qui interessano, che il significato di “residenza anagrafica” stabilito nella disposizione del 2009, sia censibile tra quelli ragionevolmente collegabili al termine generico “residenza”. Non è invece rilevante che tale attribuzione di significato appaia ragionevole o non ragionevole qualora il termine a cui lo stesso è attribuito dalla legge interpretativa sia considerato nel contesto normativo in cui è inserito. Dunque, non è rilevante se l’attribuzione di un significato in se stesso ragionevole non appaia adeguato alla luce del più generale contesto normativo in cui si trova ad essere inserito: se perciò il significato di “residenza anagrafica” appaia nel caso in esame irragionevole ai sensi dell’art. 3 Cost., in quanto attributivo di un diritto al rimborso per spese non sostenute. Infatti, tale ultimo aspetto rileva ai fini del vaglio di costituzionalità della legge, e non della soluzione del problema sulla valenza interpretativa della legge medesima, e in essa della norma che lo stabilisce.
Occorre pertanto che la corte di appello svolga un nuovo giudizio considerando la legge del 2009 come di interpretazione autentica del più volte citato art. 8 della legge n. 38 del 2002.
Spetterà a tal punto alla corte territoriale valutare – con giudizio di fatto sottratto alla corte di legittimità e relativo alle conclusioni a cui può giungersi all’esito della valutazione del compendio istruttorio acquisito – l’eventuale rilevanza di tale prodotto normativo rispetto alla questione oggetto di processo, e conseguentemente valutare i profili di costituzionalità della regola interpretativa sollevando, se del caso, la relativa questione di legittimità costituzionale.
Tutti gli ulteriori motivi sollevati nei ricorsi restano assorbiti.
Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla corte di appello di Salerno.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla corte di appello di Salerno.
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