Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 27 gennaio 2014, n. 1634
Svolgimento del processo
Con atto in data 31.3.2000 O.P. citava a comparire innanzi al tribunale di Messina M.M.F. , coniuge superstite del padre, O.C. , e la sorella consanguinea, O.A. .
Chiedeva, previa declaratoria di nullità e/o inefficacia della rinunzia all’eredità del genitore, deceduto in data 21.11.1986, rinunzia da egli attore operata il 27.11.1986, che gli si riconoscesse la qualità di coerede legittimo del padre e, quindi, che si procedesse alla divisione dell’eredità del de cuius nonché si ordinasse alle convenute di rendere il conto della gestione dei beni ereditari.
A sostegno delle esperite istanze deduceva che la rinunzia all’eredità doveva considerarsi nulla o, comunque, inefficace, giacché effettuata nell’ambito di un accordo sostanzialmente divisorio intercorso fra gli eredi legittimi di O.C. , ossia tra egli attore, il fratello F. , la sorella consanguinea A. e la seconda moglie del padre, M.M.F. , ed, in ogni caso, giacché operata a seguito e successivamente al compimento da parte di egli attore di atti comportanti accettazione tacita o legale dell’eredità; soggiungeva che analoga rinunzia era stata effettuata dal fratello F. e che, viceversa, le convenute avevano accettato l’eredità.
Costituitesi, le convenute eccepivano l’intervenuta prescrizione del diritto dell’attore di accettare l’eredità e, comunque, l’infondatezza nel merito delle avverse domande, strumentalmente esperite onde contrastare l’azione da esse proposta al fine di conseguire il rilascio di un immobile dal medesimo attore detenuto.
Con sentenza in data 14.9.2004 il tribunale di Messina rigettava le domande dell’attore e condannava il medesimo O.P. a rimborsare alle controparti le spese di lite.
Interponeva appello O.P. , instando per la riforma della gravata sentenza.
Si costituivano e resistevano le appellate.
Con sentenza dei 25.10/5.11.2007 la corte d’appello di Messina rigettava il gravame, così confermando la statuizione di prime cure, e condannava l’appellante a rimborsare alle appellate le spese del grado.
In particolare, disattesa previamente la reiterata eccezione di parte appellata di intervenuta prescrizione del diritto dell’appellante di accettare l’eredità, la corte distrettuale, in relazione al secondo, al terzo, al quarto ed al quinto motivo di gravame e, quindi, ai fini del riscontro dell’asserita accettazione tacita dell’eredità, idonea, a giudizio dell’appellante, in dipendenza del principio semel heres, semper heres, a render nulla e, comunque, priva di effetti l’operata rinuncia all’eredità, opinava per “la scarsa se non nulla rilevanza… della escussa prova testimoniale e la rilevanza contraria all’assunto attoreo della documentazione prodotta dalle parti” (così sentenza d’appello, pag. 6); in relazione al primo motivo di gravame, ai fini cioè del riscontro della valenza non meramente abdicativa o dismissiva, della rinunzia all’eredità, la corte messinese opinava nel senso che “tutti gli esaminati elementi se, in sé considerati, non valgono a costituire accettazione tacita o legale della eredità da parte dell’attore, complessivamente considerati non valgono, con evidenza, ad escludere alla rinunzia dell’attore all’eredità la tipica funzione abdicativa per ricollegarvi invece l’invocata (dall’attore) funzione traslativa” (così sentenza d’appello, pag. 9); ed, altresì, soggiungeva “che, anche secondo l’assunto dell’attore, nella specie non si avrebbe propriamente una rinunzia traslativa comportante accettazione ai sensi dell’art. 478 c.c., ma una rinunzia collegata ad una convenzione tra i chiamati alla medesima eredità (peraltro alcuni soltanto, restando escluso il coniuge superstite) diretta a limitare, nei rapporti interni, l’efficacia della rinunzia” (così sentenza d’appello, pag. 9).
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso O.P. , chiedendone, sulla scorta di quattro motivi, la cassazione; con il favore altresì delle spese di ogni grado.
M.M.F. ed O.A. hanno depositato controricorso; concludono per il rigetto dell’avverso ricorso, con il favore delle spese del giudizio di legittimità.
Il ricorrente ha depositato in data 4.12.2013 memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Va dato atto, previamente, che M.M.F. ed O.A. hanno, dapprima ed invano, in data 30.4.2013, tentato la notificazione del controricorso alla via (OMISSIS), di questa città, ove, presso lo studio dell’avvocato Fulvio Lunari, O.P. ha eletto domicilio; indi hanno, in data 14.5.2008, atteso alla notificazione del controricorso presso la cancelleria di questa Corte.
Più esattamente va precisato, per un verso, che all’indirizzo suindicato, alla stregua delle dichiarazioni rese dal portiere dello stabile, l’avvocato Lunari è risultato sconosciuto, per altro verso, che il tentativo di notifica nel domicilio eletto – siccome pretende l’art. 370, 1 co., c.p.c. – è stato inutilmente esperito – appunto – in data 30.4.2008, allorché, dunque, il termine di venti giorni a decorrere dal dì – 10.4.2008 – di scadenza del termine ex art. 369, 1 co., c.p.c. per il deposito del ricorso ex art. 360 c.p.c. non era ancora giunto a compimento.
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 102, 2 co., e 354, 1 co., c.p.c..
All’uopo adduce che il giudice dell’appello ha dato atto della mancata proposizione delle iniziali istanze di egli ricorrente nei confronti del fratello F. , coerede e litisconsorte necessario; nondimeno, sulla scorta di tale rilievo il medesimo giudice di seconde cure avrebbe dovuto applicare l’art. 354, 1 co., c.p.c. e rimettere la causa al giudice di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce in relazione all’art. 360, 1 co., n. 5), c.p.c. il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.
All’uopo adduce che la corte messinese “in un primo momento ha ritenuto rilevante e necessario al fine del decidere considerare nel loro complesso i comportamenti prima atomisticamente vagliati e poi, del tutto immotivatamente, non ha proceduto a tale coordinata disamina ed ovviamente non ha nemmeno spiegato (né avrebbe potuto sulla base di tale premessa) le ragioni che imponevano il rigetto del primo motivo di appello” (così ricorso, pag. 6);
Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1343, 1362, 2 co., e 1324 c.c. nonché degli artt. 476,478 e 527 c.c..
All’uopo adduce che la corte di merito “ha attribuito rilievo decisamente negativo ed ostativo… alla circostanza che alcune delle vicende (dalle quali si doveva trarre la predetta nullità e/o inefficacia) si erano svolte a distanza di tempo dalla rinuncia medesima” (così ricorso, pagg. 6 e 7); che “tuttavia tali assunti si pongono… in irrimediabile contrasto con l’art. 1362 cpv c.c. (applicabile alla specie in virtù del rinvio contenuto nell’art. 1324…) in quanto la norma dettata in tema di interpretazione del contratto impone di tenere conto del comportamento tenuto dalle parti anche successivamente alla conclusione del contratto e, nel nostro caso, posteriormente all’atto unilaterale costituito dalla rinuncia il quale doveva necessariamente essere interpretato anche alla luce dei comportamenti successivi tenuti dal dichiarante” (così ricorso, pag. 7); che “se la C.A. avesse osservato tale precetto non avrebbe potuto non ritenere incompatibili con la rinuncia (e tali da paralizzarne l’efficacia e/o pregiudicarne la validità) l’essersi l’O. attribuiti beni dell’eredità paterna e crediti spettanti al de cuius, a prescindere dal momento in cui tali comportamenti si erano verificati” (così ricorso, pagg. 7 e 8); che, “avuto riguardo all’accordo in ordine alla divisione dei beni mobili provenienti dall’eredità paterna, che risulta per tabulas intervenuta tra i germani O. …, deve essere argomentato che la collocazione cronologica non aveva e non ha alcun rilievo ponendosi, al contrario, come parziale attuazione del più comprensivo accordo divisorio intervenuto dagli eredi prima della rinunzia all’eredità e di cui quest’ultima era soltanto un passaggio” (così ricorso pag. 8); che la riferita conclusione trova riscontro nel letterale tenore della missiva in data 10.9.1994, missiva di cui né la M.M.F. né O.A. avevano mai messo in dubbio e contestato, la paternità, il contenuto e la veridicità; che “il Giudice di Appello… avrebbe dovuto assegnare alla divisione dei beni ereditari… il valore che essa ha (e non può non avere) ai sensi dell’art. 476 c.c.. Così procedendo non si sarebbe potuto fare a meno di applicare il principio semel heres semper heres dichiarando così inefficace la rinuncia all’eredità” (così ricorso pag. 9); che “nel medesimo errore di prospettiva è poi incorsa la Corte messinese quando si è trattato di valutare, ai fini della inefficacia e/o invalidità della rinuncia, il pagamento di L. 6.000.000 effettuato dall’odierno ricorrente in favore dello zio O.G. …: ciò che andava verificato è se il pagamento in questione è atto che non poteva che essere effettuato se non nella qualità di erede” (così ricorso, pagg. 9 e 10); che “proprio la circostanza che nella specie l’O. abbia adempiuto ad “un modus/obbligazione naturale gravante sul padre in virtù del testamento del nonno paterno”, dimostra al di là di ogni possibile dubbio che l’odierno ricorrente si sia comportato proprio come il continuatore della personalità (anche e soprattutto morale) del padre e quindi appunto nella qualità di erede” (così ricorso, pag. 10).
Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 112 e 116 c.p.c..
All’uopo adduce che, in relazione alle deposizioni rese dai testimoni T. e O. , la corte di merito ha affermato che i medesimi testimoni “hanno confermato solo il versamento da parte dell’attore allo zio O.G. della somma di L. 6.000.000” (così sentenza d’appello, pag. 6); che, nondimeno, in considerazione di quanto esplicitamente riferito dagli stessi testimoni, “non può dirsi affatto (come argomentava già il giudice di primo grado) che le testi abbiano negato la circostanza che il denaro con il quale è stato effettuato il pagamento di L. 6.000.000 da O.P. allo zio G. non sia stato prelevato dall’asse ereditario. In realtà le sig.re T. ed O. non hanno puntualizzato tale circostanza”; che, benché la corte distrettuale, sin dall’atto d’appello fosse stata sollecitata a disporre la rinnovazione parziale della deposizione testimoniale affinché tale circostanza fosse opportunamente precisata, nulla ha statuito al riguardo; che “in tal guisa la Corte territoriale ha disatteso e violato gli artt. 112 e 116 c.p.c. in quanto non ha accolto una istanza istruttoria certamente rilevante e conducente, ma al contempo ha attribuito alla prova orale una portata che essa non ha” (così ricorso, pag. 12).
Si reputa opportuno attendere congiuntamente al vaglio e del primo e del secondo motivo di ricorso; entrambi, ancor prima che destituiti di fondamento, si svelano senz’altro inammissibili.
È fuor di dubbio che il ricorso ex art. 360 c.p.c., a pena di inammissibilità, deve contenere l’esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata ed, altresì, che i medesimi motivi devono connotarsi alla stregua dei requisiti della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione censurata (cfr., tra le altre, Cass. 17.7.2007, n. 15952).
Ebbene il riferimento che nella motivazione della censurata statuizione è dato rinvenire a O.F. , fratello del ricorrente ed al pari di costui rinunziante all’eredità paterna, “coerede e litisconsorte necessario in caso di nullità delle rinunzie” (così sentenza d’appello, pag. 10), è del tutto marginale, giacché si iscrive nel contesto di una più ampia argomentazione a sua volta protesa, ad adiuvandum, a dar ragione della già riscontrata – alla luce dei rilievi motivazionali che il giudice di seconde cure aveva in precedenza svolto – infondatezza della pretesa azionata dall’appellante, attuale ricorrente.
In tal guisa il primo motivo non risulta in alcun modo correlato alla ratio decidendi.
È innegabile comunque che O.F. , siccome ha correttamente rilevato il giudice del gravame, sol nell’evenienza in cui la sua personale rinunzia all’eredità paterna fosse stata nulla ovvero inefficace, avrebbe – acquisito il riscontro dell’accettazione da parte sua dell’eredità – assunto veste di erede e di litisconsorte necessario.
E, giacché non vi è motivo per negare validità ed efficacia alla sua rinunzia, ne consegue che, siccome esattamente rimarcano le controricorrenti (cfr. pagg. 4 – 5 del controricorso), O.F. , giusta il disposto del 1 co. dell’art. 521 c.c., è di certo estraneo all’eredità relitta dal padre ed, al contempo, inesorabilmente collocato all’esterno e destinato a rimaner all’esterno della presente vicenda giudiziaria.
Del tutto ingiustificato è, d’altro canto, l’assunto di parte ricorrente – di cui al secondo motivo – a tenor del quale il giudice di seconda istanza non avrebbe atteso alla coordinata disamina degli elementi di prova acquisiti né avrebbe dato conto delle ragioni atte a giustificare il disposto rigetto del primo motivo di gravame.
Invero, siccome emerge patente dalla lettura del passaggio motivazionale concernente il primo dei motivi d’appello, il giudice di secondo grado ha univocamente esplicitato che le medesime circostanze in precedenza analiticamente scrutinate e reputate inidonee a dar ragione dell’asserita – a giudizio di O.P. – accettazione tacita o legale dell’eredità paterna, non valevano, in pari tempo, pur considerate l’una in combinazione con le altre, a dar contezza del difetto, nella rinunzia all’eredità operata dall’appellante – attuale ricorrente -della tipica funzione abdicativa, difetto idoneo a sortire l’effetto di cui all’art. 478 c.c..
Propriamente ha opinato nel senso che le risultanze istruttorie, ancorché poste in reciproca correlazione, non denotavano profili di contraddizione, sì che inducevano, concordemente, al riscontro della sussistenza di una funzionalità meramente abdicativa.
Il motivo di impugnazione si risolve, dunque, nella prefigurazione di una censura del tutto astratta, del tutto generica, priva di qualsivoglia concreto connotato di specificità.
Destituito di fondamento è in ogni caso il terzo motivo di ricorso: in nessun modo si prospettano e la violazione e la falsa applicazione delle disposizioni codicistiche che parte ricorrente ha inteso denunciare col motivo de quo agitur.
Al riguardo va posto in risalto che, alla stregua della prefigurazione che il medesimo O.P. ha operato sin dal giudizio di prime cure, vi sarebbe stato margine perché la rinunzia all’eredità che in data 27.11.1986 ebbe ad effettuare, potesse esser riconosciuta inefficace e tamquam non esset, solo se ed in quanto si fosse, in primo luogo, acquisita conferma del compimento da parte dello stesso ricorrente, ovviamente nell’esiguo lasso temporale compreso tra il 21.11.1986, di del decesso del padre, e il 27.11.1986, di della rinunzia all’eredità, di atti valevoli come accettazione dell’eredità a lui delata (invero, l’indiscutibile operatività nel nostro sistema positivo del principio semel heres, semper heres avrebbe reso vano, sterile il susseguente atto di rinunzia), solo se ed in quanto, in secondo luogo, fosse stato possibile ascrivere la rinunzia del ricorrente nel solco delle astratte prefigurazioni di cui all’art. 478 c.c., solo se ed in quanto, infine, fosse stata acquisita conferma del compimento di atti rilevanti ex art. 527 c.c..
In questi termini si rimarca che più che correttamente il giudice di secondo grado ha provveduto a verificare il riferimento cronologico delle risultanze istruttorie e ad acclararne puntualmente la posteriorità rispetto alla data del 27.11.1986.
In questi termini si rimarca, al contempo, che è assolutamente fuor di luogo il riferimento all’art. 1362, 2 co., c.c.. Quindi, che del tutto ingiustificatamente O.P. si duole del fatto che la corte distrettuale ha reputato inidonee a vanificare la pregressa rinuncia circostanze avvenute in epoca – per giunta significativamente – successiva al medesimo dì; che del tutto ingiustificatamente si duole per l’asserita violazione del canone ermeneutico di cui al 2 co. dell’art. 1362 c.c.; che del tutto ingiustificatamente si duole per l’obliterazione di comportamenti da egli tenuti posteriormente alla rinunzia ex art. 519 c.c.; che del tutto ingiustificatamente pretende di negar rilievo alla collocazione temporale dell’accordo divisorio, invero, sol genericamente riscontrato in sede di merito; che del tutto ingiustificatamente – e contraddittoriamente – pretende poi di collocare, per giunta nonostante il difetto di qualsivoglia dimostrazione in tal senso (la corte distrettuale ha opinato nel senso che dalla missiva in data 10.9.1994 è desumibile sol un generico e non meglio definito accordo divisorio, accordo, comunque, insuscettibile di retrodatazione), “l’accordo divisorio intervenuto dagli eredi prima della rinunzia all’eredità” (così ricorso, pag. 8).
D’altro canto, in relazione alla pretesa valenza traslativa della rinunzia, in quanto tale rilevante – a dire del ricorrente – a norma dell’art. 478 c.c., la corte messinese, per un verso, ha evidenziato che le risultanze istruttorie non deponevano chiaramente nel senso dell’attribuzione al rinunziante, O.P. , a titolo di corrispettivo della rinunzia, della divisione di alcuni ordinari beni mobili, per altro verso, ha reputato “inverosimile che la attribuzione di alcuni ordinari beni mobili possa costituire corrispettivo della rinunzia ad eredità comprendente alcuni immobili” (così sentenza d’appello, pag. 8).
In tal maniera la corte di merito non ha né errato nella individuazione della norma di legge destinata se del caso ad operare nella fattispecie delibata, né ha errato nella interpretazione della medesima norma di legge; la corte territoriale, più semplicemente, ha opinato nel senso che, siccome riscontrata alla luce delle risultanze istruttorie, la fattispecie sottoposta al suo vaglio non giustificasse l’operatività dell’art. 478 c.p.c..
La corte cioè ha atteso ad un mero giudizio di fatto, a rigore censurabile ai sensi del n. 5) del 1 co. dell’art. 360 c.p.c. (l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499), giudizio di fatto che, alla stregua delle argomentazioni sostanzianti il terzo motivo di ricorso, il ricorrente non ha propriamente censurato.
I rilievi svolti testé vanno puntualmente reiterati in ordine alla presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 527 c.c. e delle ulteriori disposizioni codicistiche asseritamente violate o falsamente applicate in relazione al pagamento di L. 6.000.000 che O.P. ebbe ad eseguire in favore dello zio O.G. .
Il giudice di seconde cure, da un lato, ha opinato, in fatto, nel senso che “manca del tutto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 527 c.c., la prova della sottrazione o dell’occultamento da parte dell’attore di beni mobili ereditari” (così sentenza d’appello, pag. 8); dall’altro, ancorché abbia specificato che il pagamento inerisse ad una situazione giuridica non trasmissibile agli eredi, ha correttamente opinato, in fatto, che non era stato acquisito probatorio riscontro dell’esecuzione del pagamento con danaro prelevato dall’asse ereditario (al riguardo cfr. Cass. 27.8.2012, n. 14666, secondo cui in tema di successioni per causa di morte, un pagamento transattivo del debito del de cuius ad opera del chiamato all’eredità, a differenza di un mero adempimento dallo stesso eseguito con denaro proprio, configura un’accettazione tacita dell’eredità, non potendosi transigere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede).
In verità tal ultimo giudizio di fatto è oggetto di censura mercé il quarto motivo di impugnazione, con cui, segnatamente, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c..
Nondimeno pur tal ultimo motivo è destituito di fondamento.
Invero, in aderenza all’insegnamento di questa Corte, non può che ribadirsi in questa sede il principio per cui l’esercizio del potere di disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni previsto dall’art. 257 c.p.c., esercitabile anche nel corso del giudizio di appello in virtù del richiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c., involge un giudizio di mera opportunità che non può formare oggetto di censura in sede di legittimità neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (cfr. Cass. 1.8.2002, n. 11436; Cass. sez. lav. 3.10.1995, n. 10371).
In ogni caso non può non sottolinearsi che il capitolo di prova in ordine al quale T.M.C. e O.M.C. sono state chiamate, in virtù dell’ordinanza assunta in prime cure in data 22.5.2002, a rendere testimonianza, contemplava espressamente, alla stregua della sua letterale formulazione (siccome testualmente riprodotta a pag. 11 del ricorso) la circostanza del possibile l’utilizzo, ai fini del pagamento, di danaro proveniente dall’asse ereditario.
Or dunque, se né l’una né l’altra testimone hanno riferito alcunché a tal specifico proposito, benché abbiano fornito nel complesso risposte senza dubbio articolate (siccome testualmente riprodotte a pag. 11 del ricorso), c’è da reputar che nulla sapessero al riguardo, sicché correttamente la corte di merito ha disatteso l’istanza ex art. 257, 2 co., seconda parte, c.p.c..
Il rigetto del ricorso giustifica la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
La liquidazione segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alle controricorrenti la somma di Euro 2.800,00 per compensi, la somma di Euro 200,00 per esborsi.
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