Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 27 febbraio 2014, n. 4744
Svolgimento del processo
1) La causa concerne l’azione proposta nel 1986 da alcuni acquirenti di appartamenti posti in un fabbricato condominiale sito in (omissis) , per denunciare la presenza di infiltrazioni di acque meteoriche attraverso il solaio di copertura, a causa dei difetti dei materiali e della negligenza del costruttore, l’odierno ricorrente R.P. .
La controversia, punteggiata dalla chiamata in giudizio di To.Do. e Maeding srl – indicati dal convenuto quali responsabili degli addebiti – e dalla instaurazione di un procedimento cautelare d’urgenza, si è chiusa in primo grado con sentenza del tribunale civile di Barcellona Pozzo di Gotto del 6 marzo 2001.
Il tribunale ha rigettato le eccezioni di decadenza dalla garanzia e di prescrizione sollevate dal convenuto; ha dichiarato la di lui responsabilità per i danni provocati agli appartamenti degli attori e alle parti comuni; lo ha condannato al risarcimento dei danni quantificati in circa 31 milioni di lire e in minori importi quanto a due unità immobiliari di singoli condomini, con interessi legali sulla somma rivalutata.
Ha assolto i chiamati in causa.
La Corte di appello di Messina con sentenza del 19 luglio 2007, n. 392, notificata il 27 marzo 2008, ha rigettato l’appello principale e quello incidentale.
R. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 16 maggio 2008, resistito da controricorso di 15 proprietari delle unità immobiliari.
Motivi della decisione
2) Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2909 c.c. e degli artt. 324 e 325 c.p.c.: mira a sostenere che i giudici di merito avrebbero dovuto rilevare la sussistenza di un giudicato esterno formatosi a seguito di analoga domanda ex art. 1669 c.c. relativa alla terrazza, proposta solo da due condomini, L.R.F. e S. .
La censura è per più aspetti infondata.
In primo luogo la sentenza di appello n. 487del 16.11.1990, che ha rigettato l’appello del R. avverso la sentenza del dicembre 1986 è priva della indispensabile attestazione del passaggio in giudicato (da ultimo Cass. 21469/2013).
In secondo luogo il primo giudizio non pendeva tra le stesse parti e il suo esito non era quindi idoneo a spiegare effetti nei confronti degli odierni resistenti non costituiti nel precedente.
In terzo luogo dall’esame delle sentenze prodotte emerge che i due condomini avevano fatto proposto azione relativa alla riparazione dei danni subiti dal loro appartamento e non per far valere i diritti condominiali.
L’interferenza o addirittura la sovrapponibilità tra le due cause poteva pertanto giustificare la rilevanza della prima sentenza quale fatto storico liberamente apprezzabile, senza effetto di giudicato nei confronti di altri condomini istanti a tutela dell’integrità del bene comune.
3) Con il secondo motivo parte ricorrente si duole della circostanza che i condomini dopo aver avviato la causa per chiedere l’eliminazione dei vizi della cosa comune abbiano ottenuto che fosse dato “ingresso alla diversa domanda risarcitoria di pagamento per equivalente non svolta in via alternativa”, considerata una emendatio libelli.
Il ricorso da atto della circostanza che in corso di causa gli attori avevano proposto ricorso di urgenza per chiedere l’autorizzazione a eseguire interventi urgenti per porre riparo alle infiltrazioni, istanza accolta ritualmente e sfociata, a quanto si comprende dagli atti, nell’esecuzione delle opere.
La Corte di appello, investita dell’odierna doglianza, ha già rilevato che il convenuto aveva accettato il contraddittorio sulla domanda di pagamento del corrispettivo dei lavori così eseguiti e ha ritenuto che la richiesta avesse dato luogo a una mera emendatio libelli e non a una domanda nuova.
Invano il ricorrente lamenta una contraddittorietà della sentenza laddove essa ha narrato che nelle udienze del 1988/89 gli attori avevano chiesto l’autorizzazione alle riparazioni, “salvo rivalsa in esito al giudizio”.
È infatti evidente che l’iniziale salvezza di successiva domanda può essere oggetto di modifica in corso di un giudizio retto, come nella specie, dal rito anteriore alla novella del 1990.
3.1) Il ricorrente, oltre a negare di aver espressamente accettato il contraddittorio, si duole che il tribunale sia pervenuto, lungo questo percorso, a una pronuncia di condanna al risarcimento danni, senza che domanda risarcitoria fosse stata formulata.
La censura è priva di fondamento, poiché la Corte di appello, sia pur con motivazione incompleta, ha correttamente ravvisato un’ipotesi di consentita emendatio libelli.
Va ricordato che con l’azione di responsabilità ex art. 1669 cod. Civ. può essere chiesta la condanna dell’appaltatore, alternativamente, sia al pagamento della somma di denaro corrispondente al costo delle opere necessarie per l’eliminazione dei vizi, sia la diretta esecuzione di tali opere. Infatti tale norma, riferendosi genericamente alla responsabilità dell’appaltatore, senza precisare le forme nelle quali il danno deve essere risarcito, ha inteso richiamare il principio generale secondo cui, nei limiti stabiliti dall’art. 2058 cod. Civ. il risarcimento può disporsi in forma specifica o per equivalente (Cass.2763/84; 1406/89; 5103/95 v. anche utilmente Cass. 10624/96; 8294/99 e amplius 3702/11).
Pertanto, come è stato detto, nel giudizio nei confronti dell’appaltatore per la responsabilità ex art. 1669 cod. civ. non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che, di fronte alla richiesta di condanna dell’appaltatore al pagamento della somma necessaria per la ricostruzione di un impianto, condanni l’appaltatore stesso al pagamento di quella somma a titolo di risarcimento del danno, non essendosi in presenza di un titolo diverso da quello della domanda, in quanto il costo per la sostituzione dell’impianto costituisce solo una parte del generico ed onnicomprensivo risarcimento del danno, che trova titolo nella responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 cod. civ. (così Cass. 2070/78).
Ne consegue, in applicazione di questi principi, il rigetto del motivo di ricorso.
4) Le argomentazioni testé svolte travolgono in parte anche il terzo motivo di ricorso, che lamenta la liquidazione a titolo di risarcimento danni di costi determinatisi attuando il provvedimento di urgenza concesso in corso di causa. Il ricorrente si duole che le modalità di esecuzione non siano state rette da un provvedimento emesso dal giudice ex art. 612 c.p.c. e che la liquidazione sia avvenuta a titolo di risarcimento del danno e non “con riferimento all’art. 614 c.p.c. con nota vistata dall’ufficiale giudiziario”.
Premesso che, per quanto riportato esaminando il secondo motivo, la liquidazione a titolo risarcitorio è corretta, va risposto che nel regime anteriore alla novella 353/90 (entrata in vigore tra il 1993 e il 1995) non era vigente l’art. 669 duodecies, cosicché al fine dell’individuazione del giudice competente per ‘attuazione di un provvedimento cautelare e d’urgenza occorreva distinguere a seconda che il beneficiario del provvedimento stesso avesse preferito ricorrere alla forma coattiva diretta o, invece, – come alternativamente consentito – alla normale procedura di esecuzione forzata, notificando alla controparte il titolo e l’intimazione ad adempiere.
Nella prima ipotesi giudice competente è quello che ha emesso il provvedimento o quello competente per il merito, se risulta già instaurato il relativo giudizio; nella seconda, invece, competente è il giudice della esecuzione secondo le regole ordinarie e così quello del luogo ove il provvedimento deve essere eseguito (Cass. 5947/82).
Ineccepibile è pertanto la decisione della Corte di appello, che ha reputato corretta la attuazione governata dal giudice del merito e la liquidazione dei costi di attuazione quale voce risarcitoria.
5) Il quarto motivo (violazione degli artt. 1224, 1227, 1282 c.c.) torna a ripetere che la spesa affrontata per l’esecuzione del provvedimento doveva essere liquidata come “esborso riferito a tale procedimento” e non poteva essere assoggettata a rivalutazione o interessi.
Si è già rilevato che la qualificazione risarcitoria era invece congrua rispetto alla complessiva azione proposta dagli attori.
Sulla base di questa premessa, per respingere il motivo di ricorso è sufficiente ricordare che la responsabilità’ dell’appaltatore ex art. 1669 cod. civ. dà luogo ad un debito di valore che va liquidato avuto riguardo al potere di acquisto della moneta alla data della decisione. Né l’obbligazione risarcitoria perde la sua natura di debito di valore per il fatto che il danneggiato abbia a proprie spese provveduto ad eliminare o ridurre le conseguenze del fatto dannoso, (così Cass. n. 13/1993; v. 6682/00).
6) Con l’ultimo motivo parte ricorrente denuncia violazione degli artt. 112 e 278 c.p.c., lamentando che siano stati riconosciuti danni anche agli attori P. – F. , sebbene in citazione essi avessero fatto riserva di agire in separato giudizio per i danni subiti dai propri alloggi.
Il ricorso aggiunge che il giudice di merito non aveva considerato che con successivo atto di citazione del 24.3.1986 i suddetti condomini e le rispettive consorti avevano proposto domanda risarcitoria specifica.
Il controricorso ha replicato che sebbene, come evidenziato dalla Corte di appello, l’iniziale citazione contenesse una riserva di separata azione dei due condomini, tuttavia la citazione stessa si concludeva con la richiesta di risarcimento di tutti i danni subiti e di quelli da accertare in corso di giudizio e che questa domanda era stata ribadita in sede di precisazione delle conclusioni.
È questa la lettura che i giudici di merito hanno dato nell’interpretare la citazione: hanno cioè valorizzato (implicitamente il tribunale ed esplicitamente a pag. 11 la sentenza d’appello) il fatto che in conclusioni fosse stata mantenuta la domanda relativa ai danni accertati mediante consulenza tecnica e a un’indennità (che è stata poi negata) per i disagi derivati dall’uso di ambienti malsani.
La Corte d’appello ha quindi inteso che in conclusioni fosse stata effettuata una precisazione (è anche questo lo scopo dell’udienza di precisazione delle conclusioni, va qui osservato) che aveva fatto cadere la contraddittoria riserva contenuta “nel corpo dell’atto di citazione” e ha mantenuto viva la domanda risarcitoria pur introdotta.
Trattasi di lettura logica e coerente della condotta processuale altalenante degli attori sopraindicati, tale da escludere una extrapetizione. Agli attori P. F. poteva forse essere rimproverata contraddittorietà del primo atto e duplicazione di domande, ma la formulazione inequivoca della richiesta risarcitoria in sede di conclusioni valeva a consolidare l’obbligo del giudice di provvedere.
Va infatti rilevato che sono nuove – e dunque inammissibili in questa sede – le doglianze relative alla notifica, poco dopo il primo, di un secondo atto di citazione, questione non trattata in sentenza di appello e di cui non si dice in ricorso ove e in che termini sia stata posta.
Inoltre la richiesta conclusiva, oltre ad essere una precisazione consentita, non risulta essere stata censurata sotto il profilo della novità inammissibile per mancata accettazione del contraddittorio, ma solo per contraddittorietà con la riserva iniziale, contraddittorietà che, come si è detto, non impediva ai giudici di merito di ritenere prevalente la istanza coltivata in corso di causa (anche mediante la sollecitazione e partecipazione alla consulenza tecnica) su quella “riservata” inizialmente.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo in relazione al valore della lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite, liquidate in Euro 3.500 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
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