La massima
Qualora sia proposta domanda di annullamento di un contratto per incapacità naturale, l’indagine relativa alla sussistenza dello stato di incapacità del soggetto che abbia stipulato il contratto ed alla malafede di colui che contrae con l’incapace di intendere e di volere si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito, sottratto al sindacato del giudice di legittimità ove congruamente e logicamente motivato.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 24 gennaio 2013, n.1745
Ritenuto in fatto
Con atto di citazione notificato in data 8 giugno 1995 il sig. G.L. , nella qualità di tutore provvisorio della madre D.C.V. , aveva convenuto, dinanzi al Tribunale di Modena, il fratello G.V. e la moglie del medesimo, C.F. , chiedendo, in via principale, l’annullamento dei contratto stipulato con rogito notarile del 17 ottobre 1991 con il quale i convenuti avevano acquistato un immobile dalla predetta signora D.C.V. , sul presupposto dell’incapacità di quest’ultima di intendere e di volere causata da una malattia psichica già insorta all’epoca della compravendita e, in subordine, instando per la declaratoria di risoluzione dello stesso contratto per inadempimento degli acquirenti oltre che per il risarcimento dei danni. Nella costituzione dei convenuti e, di seguito, degli eredi della signora D.C.V. , nelle more deceduta, nelle persone dei figli G.L. e G.F. (che avevano fatto proprie le domande proposte dal tutore provvisorio), il Tribunale adito, con sentenza n. 653 del 2002, depositata il 3 giugno 2002, accoglieva la domanda principale e, per l’effetto, dichiarava l’annullamento della compravendita dedotta in giudizio per accertata incapacità di intendere e di volere dell’alienante D.C.V. , con conseguente condanna dei convenuti alla rifusione delle spese giudiziali.
Interposto appello da parte di G.V. e C.F. e nella costituzione di entrambi gli appellati G.V. e C.F. (che formulavano, a loro volta, appello incidentale), l’adita Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 976 del 2005 (depositata il 24 agosto 2005), in totale riforma della sentenza impugnata, respingeva sia la domanda di annullamento per incapacità naturale, ai sensi dell’art. 428 c.c., del contratto di compravendita che quella di risoluzione dello stesso contratto, dichiarando l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza dell’appello incidentale e condannando gli appellati al pagamento, in solido fra loro, delle spese di entrambi i gradi di giudizio. A sostegno dell’adottata decisione, la Corte felsinea rilevava che, sulla scorta degli esiti del”istruzione probatoria esperita e, in particolare, delle conclusioni cui era pervenuto il c.t.u., delle risultanze della deposizione testimoniale del notaio che aveva rogato l’atto e della valorizzazione delle dichiarazioni rese dalla stessa D.C. successivamente alla stipula dell’atto, si era potuto evincere che quest’ultima, al momento della redazione e della sottoscrizione dell’atto pubblico di compravendita per cui era controversia, non era propriamente incapace di intendere e di volere e, comunque, non affetta da un grado di deterioramento mentale superiore a quello richiesto per l’inabilitazione di una persona, ovvero tale da far perdere alla medesima ogni consapevolezza dell’atto da lei compiuto. La Corte territoriale ravvisava, inoltre, non sussistendone i presupposti, l’infondatezza del motivo di gravame con cui era stato asserito che la vendita dell’immobile era avvenuta ad un prezzo pari alla metà del suo valore effettivo (così da giustificare l’azione generale di rescissione per lesione ex art. 1448 c.c.) e si era sostenuta la mancata riscossione del prezzo della compravendita da parte della signora D.C. , la quale non aveva poi mai avuto la disponibilità del denaro.
Avverso la suddetta sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione G.F. e G.L. , articolato in cinque motivi, al quale hanno resistito con controricorso gli intimati G.V. e C.F.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 342, 163 e 164 c.p.c. (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) nonché l’omessa motivazione in ordine alla nullità dell’atto di citazione in appello (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), sul presupposto che lo stesso atto di citazione non conteneva né l’esposizione dei motivi specifici della proposta impugnazione, né gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, senza che essi potessero ritenersi ‘tacitamente’ introdotti e ‘virtualmente’ contenuti nelle conclusioni dedotte nel secondo grado di giudizio, poiché queste ultime, tra l’altro, non erano state neppure specificate nell’atto di appello.
1.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere respinto.
Contrariamente a quanto dedotto con la doglianza in esame (peraltro non costituente nemmeno oggetto di una precedente specifica eccezione da parte degli appellati in sede di gravame), i sigg. G.V. e C.F. , con il formulato gravame principale, avevano mosso delle censure sufficientemente precise nei confronti della sentenza di primo grado, peraltro diffusamente motivandole per come evincibile dallo stesso contenuto dell’atto di appello (esaminabile anche in questa sede in virtù della natura processuale del vizio denunciato) e per come dimostrato dalla piena comprensione manifestata dalla Corte di secondo grado attraverso la chiara esplicitazione del percorso argomentativo adottato nella sentenza impugnata in risposta alla distinte doglianze articolate. In particolare, i predetti appellanti principali, nel confutare la sentenza di prime cure, avevano prospettato – avendo riguardo al rigetto della domanda di annullamento del contratto in relazione all’art. 428 c.c. – l’irragionevolezza del motivo con cui era stata disattesa la c.t.u. del prof. L. , l’omessa valutazione delle deposizioni di alcuni testi particolarmente affidabili (e, quindi attendibili, tra le quali, soprattutto, quella del notaio che aveva rogato l’atto pubblico di compravendita), l’erroneità della valutazioni di altre circostanze probanti in senso favorevole alla loro versione, contestando, altresì, l’ingiustificata condanna alle spese statuita in primo grado, con conseguente riforma della sentenza emanata dal primo giudice. Di quest’ultima, perciò, erano state fatte valere l’ingiustizia e l’illegittimità in relazione sia all’intervenuto accoglimento della domanda pura fronte dei rigorosi presupposti previsti dall’art. 428 c.c., sia alla negazione del fatto dell’esecuzione effettiva del pagamento da parte di essi appellanti sia con riferimento all’indebita condanna alle spese giudiziali.
È, quindi, insussistente la dedotta violazione dell’art. 342, comma 1, c.p.c. (sulla quale, peraltro, la Corte territoriale non aveva nemmeno ravvisato la necessità di adottare una motivazione in concreto, in virtù dell’implicita ritenuta pacificità della specificità delle doglianze formulate, per come deducibile anche dalla mancata proposizione di un’apposita eccezione, con la costituzione in appello, da parte degli attuali ricorrenti).
Del resto, è risaputo che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. n. 24834 del 2005 e, da ultimo, Cass., S.U., n. 23299 del 2011), il requisito della specificità dei motivi d’appello, fissato a pena d’inammissibilità dall’art. 342 cpc, esige la formulazione di censure che siano attinenti alla ‘ratio’ della sentenza impugnata e contengano notazioni in fatto e in diritto potenzialmente in grado di infirmarla, senza che si richieda lo specifico richiamo delle norme applicabili (spettando al giudice d’individuarle), e senza che rilevi, al fine dell’ammissibilità dell’appello, l’indagine in ordine alla dimostrazione, alla consistenza e alla decisività delle allegazioni dell’appellante, trattandosi di questioni influenti in sede di esame del fondamento del gravame. Oltretutto, è stato anche chiarito (cfr. Cass., SU, n. 28057 del 2008 e, di recente, Cass. n. 25218 del 2011) che, ai fini della specificità dei motivi richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno prospettato la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli arti 978, 1350 n. 1, 2643 n. 2 e 2733, comma 2, c.c. (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) nonché (ai sensi dell’art. 360, comma n. 5, c.p.c.) la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata sul punto decisivo della controversia relativo alla valutazione della ritenuta insussistenza della incapacità di intendere e di volere della signora D.C.V. all’atto della conclusione, in data 17 ottobre 1991, del contratto di compravendita dedotto in controversia. In particolare, i ricorrenti, con questa complessa doglianza, hanno inteso criticare la sentenza della Corte emiliana, sostenendo che essa aveva omesso di valutare la rilevanza dei documenti attestanti la sindrome psico-organica con atrofia cerebrale della signora D.C.V. ed aveva fondato la motivazione della sentenza su presunzioni e giudizi probabilistici oltre che su valutazioni contraddittorie circa la supposta autosufficienza della predetta D.C. al momento della stipula dell’anzidetto atto pubblico di compravendita.
Inoltre, i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata prospettando l’erroneità dell’impianto argomentativo adottato dalla Corte territoriale circa l’esclusione della sussistenza degli ulteriori requisiti del ‘pregiudizio’ e della ‘malafede’ degli altri contraenti, malgrado il grave danno subito dalla venditrice dalla stipula dell’atto sia con riferimento al prezzo praticato di L. 138.500.000 (essendo, invece, il valore dell’immobile quantificabile -secondo l’assunto dei medesimi ricorrenti – in L. 280.000.000) sia con riguardo alla circostanza che non risultava dall’atto di compravendita una riserva di usufrutto, risultando, altresì, trascurata anche la rilevanza del fatto relativo al mancato pagamento del prezzo stesso, non essendo stati incassati gli assegni emessi dal figlio acquirente. Ancora, i ricorrenti hanno manifestato la volontà di censurare la sentenza impugnata con riguardo all’esclusione della circostanza della conoscenza, da parte di G.V. e di C.F. , dello stato di alterazione psichica della signora D.C.V. , oltre che in relazione alla circostanza della possibile distrazione delle somme costituenti il prezzo dell’operazione contrattuale di vendita.
2.1. Anche questo secondo articolato è infondato e deve, perciò, essere respinto. È, in via generale, risaputo (cfr., ad es., Cass. n. 21050 del 2004 e Cass. n. 4677 del 2009) che, qualora sia proposta domanda di annullamento di un contratto per incapacità naturale, l’indagine relativa alla sussistenza dello stato di incapacità del soggetto che abbia stipulato il contratto ed alla malafede di colui che contrae con l’incapace di intendere e di volere si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito, sottratto al sindacato del giudice di legittimità ove congruamente e logicamente motivato. Orbene, sulla scorta di tale presupposto, il collegio ritiene che la Corte territoriale abbia offerto una motivazione assolutamente adeguata e logica (e, perciò, incensurabile in questa sede) in ordine all’accertamento della insussistenza dell’incapacità di intendere di volere della signora D.C.V. al momento della stipula della compravendita dedotta in controversia. A tal proposito la Corte bolognese ha valorizzato, in modo compiutamente argomentato, sia le risultanze della relazione del c.t.u. del prof. L. (sulla scorta delle quali – come, del resto, degli altri accertamenti medico-scientifici precedentemente espletati – non era stata, comunque, desunta la prova, in positivo, della ricorrenza, in modo univoco, delle condizioni per ravvisare il predetto stato di incapacità in capo alla D.C. nel richiamato momento temporale) sia i riscontri obiettivamente evincibili dall’altra conferente documentazione medica ritualmente prodotta in giudizio sia gli esiti delle deposizioni testimoniali maggiormente attendibili e compatibili con le risultanze medico-scientifiche. In particolare, la Corte di secondo grado ha adeguatamente posto in risalto sia la significatività della testimonianza del notaio davanti al quale fu redatto l’atto pubblico (dalla quale era emersa che, al momento della stipula del contratto, la signora D.C. aveva univocamente dimostrato di essere in grado di capire e di volere e di ragionare con logica e coerenza, intrattenendosi con il pubblico ufficiale discorrendo anche di altri argomenti) sia la decisività del risultato scaturito dall’esame della stessa signora D.C. effettuato dal giudice istruttore del procedimento di interdizione promosso da G.F. , sei mesi dopo la stipula della compravendita, sulla scorta del quale era emersa la lucidità mentale della stessa D.C. , la quale dimostrò di essere consapevole, anche a distanza di tempo, della vendita che aveva compiuto e del prezzo da lei corrisposto, tanto è vero che lo stesso giudice non aveva ritenuto necessario, nell’immediatezza dell’espletato esame, nominare un tutore provvisorio, concludendo, soltanto all’esito dell’esperimento di apposita c.t.u. (e dopo oltre un anno dal momento in cui era stata conclusa la contestata compravendita), per la proposta di inabilitazione della signora D.C. e non per la sua interdizione.
L’evidenziato ragionamento operato dalla Corte territoriale – ricondotto alla valorizzazione degli elementi probatori più pertinenti ed affidabili (non smentiti decisivamente da altre contrapposte emergenze) – è da ritenere logicamente coerente ed adeguatamente fondato su plurimi e convergenti accertamenti di fatto, ragion per cui la complessiva valutazione di merito compiuta si appalesa incensurabile in questa sede di legittimità. Del resto costituisce principio pacifico (v., tra le tante, Cass. n. 2399 del 2004; Cass. n. 9368 del 2006 e Cass. n. 15604 del 2007) che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge); ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione. Al fine della congruità della motivazione è sufficiente che da questa risulti che i vari elementi probatori acquisiti siano valutati nel loro complesso, anche senza una esplicita confutazione di altri elementi non menzionati, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito a quelli utilizzati.
L’accertata congruità e logicità della motivazione adottata dalla Corte felsinea sulla ritenuta insussistenza dell’incapacità di intendere e di volere della signora D.C. al momento della stipula del contratto di compravendita dedotto in controversia determina il superamento dell’esame (siccome ultroneo) degli ulteriori (riportati) profili di critica relativi alla supposta conoscenza dello stato di alterazione psichica della predetta signora da parte degli acquirenti ed alla prospettata correlata malafede degli stessi acquirenti. Anche l’ulteriore censura, attinente al motivo in esame, riguardante il supposto grave pregiudizio subito dalla venditrice (con riferimento all’assunta sproporzione del prezzo convenuto rispetto al presunto valore reale dell’immobile oggetto del contratto) è infondato. Pure con riguardo a questo aspetto la Corte territoriale ha adottato una motivazione logica e sufficiente, avendo adeguatamente richiamato, in ordine all’individuazione del prezzo, la stima, computata nell’ordine di L. 230.000.000, operata dall’istituto di credito che aveva operato un finanziamento, e la valorizzazione della riserva di usufrutto risultante da una scrittura privata conclusa contestualmente al rogito notarile, restando ininfluente tra le parti che la scrittura stessa non fosse stata trascritta, attenendo tale adempimento alla sola opponibilità dell’usufrutto ai terzi, oltre a considerare correttamente irrilevante, ai fini della possibile rescissione del contratto, la risultante differenza tra l’importo reale del bene immobile calcolato in L. 161.000.000 (determinato a seguito dell’abbattimento imputabile al costituito usufrutto) e quello, effettivamente concordato, di L. 138.500.000. Sul pagamento di quest’ultimo prezzo la Corte distrettuale ha, inoltre, ulteriormente motivato in senso logico e sufficiente il suo convincimento con il richiamo all’acquisto di titolo di Stato per l’ammontare di L. 110.000.000 ed all’imputazione del residuo a spese fiscali, agli esborsi determinati dalla redazione del rogito ed a quelli riconducibili al mantenimento ed assistenza garantiti alla D.C. .
3. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc, oltre che dell’art. 428 c.c. (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), congiuntamente al vizio di insufficiente in riferimento al punto decisivo della controversia già indicato con la seconda doglianza (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.).
3.1. Questo motivo è da ritenersi inammissibile perché (pur essendo latamente collegato al primo profilo di censura dedotto con il precedente motivo) è da qualificarsi generico, dal momento che esso si risolve essenzialmente nel richiamo del disposto dell’art. 428, comma 1, c.c. (con riferimento al quale la Corte territoriale aveva escluso la sussistenza del presupposto dell’incapacità di intendere e di volere della venditrice) e nella elencazione acritica di una serie di massime della giurisprudenza di legittimità, senza alcuna loro specifica correlazione con la sentenza impugnata mediante l’apposita deduzione di precise censure.
3.1.4. Con il quarto motivo i ricorrenti ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc. oltre che degli artt. 1453 e segg. c.c. (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), nonché la contraddittorietà della motivazione (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.). In particolare, con questa doglianza, i ricorrenti hanno inteso censurare la sentenza impugnata perché fondata su presunzioni e giudizi probabilistici, completamente avulsi dalle prove acquisite nel corso del giudizio, asserendo, illegittimamente, che fosse intervenuto il pagamento del prezzo, pur risultando impossibile che la signora D.C. poteva aver distrutto gli assegni ed avendo il figlio acquirente depositato il ricavato dei titoli acquistati con le somme da lui dovute quale prezzo sul proprio conto corrente bancario, essendo stato, altresì, contestato il conto di gestione delle somme stesse, con la conseguenza che da tali comportamenti si sarebbe dovuto desumere l’inadempimento al pagamento del prezzo con la correlata configurabilità dei presupposti per giungere alla declaratoria di risoluzione del contratto di compravendita in questione.
4.1. Anche questa ulteriore doglianza – che attiene, essenzialmente, a vizi di tipo motivazionale – non appare meritevole di pregio e deve, perciò, essere disattesa. Infatti, anche a questo riguardo, la Corte territoriale ha esposto, in modo adeguato e sufficientemente logico, un idoneo percorso argomentativo sulla ritenuta insussistenza della gravità dell’inadempimento dedotto e sulla irrilevanza della prospettata appropriazione delle somme ricavate dalla vendita dei titoli acquistati con il denaro corrisposto quale prezzo in funzione della ravvisata mancata configurazione dell’inadempimento a carico degli acquirenti. A tal proposito, la Corte felsinea ha – sulla scorta di appositi accertamenti di fatto valorizzati con conferenti valutazioni di merito – sottolineato che alla D.C. , all’atto della stipula del rogito riguardante la compravendita, furono consegnati due assegni corrispondenti all’importo complessivo di L. 138.500.000 tratti su. c/c del G.V. (come attestato nello stesso atto pubblico ed ammesso dalla medesima venditrice) e che tali assegni non furono, tuttavia, mai incassati, poiché il loro controvalore (con addebito sullo stesso c/c del G.V. ) furono investiti in titoli di Stato, ancorché limitatamente all’importo di L. 110.000.000 (come, del resto, comprovato da oggettivi riscontri documentali). Inoltre, la Corte emiliana ha sufficientemente giustificato, sul piano logico, la verosimile sussistenza della circostanza dell’intervenuta distruzione dei due titoli ad opera della signora D.C. , per come desumibile da apposita dichiarazione sottoscritta dalla medesima (ancorché non scritta, nel testo, di pugno dalla stessa D.C. ), in dipendenza delle operazioni di investimento che erano state decise di realizzare. Con riferimento alla differenza corrispondente alla somma residuata in conseguenza della detrazione dell’importo investito in titoli (rispetto a quello del prezzo totale della vendita), la Corte distrettuale (v. pagg. 35 e 36 della sentenza) ha dato sufficientemente conto delle distinte causali per le quali essa era stata impegnata, ivi compresa quella ricollegabile alle spese per l’assistenza ed il mantenimento della signora D.C. (senza che, peraltro, il prodotto documento relativo al conto gestione per il periodo 1990-1994 fosse stato idoneamente contestato dalle controparti). Alla stregua di tali risultanze, perciò, il giudice di secondo grado, con valutazione insindacabile in sede di legittimità perché adeguatamente motivata, ha escluso che potessero ricorrere le condizioni per la configurazione dell’inadempimento a carico degli acquirenti, rilevando, in ogni caso, che, seppure lo si fosse voluto riferire alla somma rimanente (detratto, cioè, l’importo impiegato nel reinvestimento in titoli, nonché l’importo imputabile alle spese risultanti a carico della venditrice e quello determinato dagli esborsi occorrenti per l’assistenza di quest’ultima), esso sarebbe stato qualificabile in termini di scarsa importanza e, quindi, come tale, inidoneo a determinare la risoluzione del contratto, in relazione al disposto generale di cui all’art. 1455 c.c..
Inoltre, la stessa Corte bolognese ha, al riguardo, congruamente rilevato la sostanziale ininfluenza della circostanza che i titoli (nei quali era stato reimpiegato il suddetto importo di L. 110.000.000) erano stati successivamente parzialmente disinvestiti ed accreditati in parte sul c/c del G.V. (che si era fatto carico delle spese di mantenimento e di assistenza della madre), poiché tale condotta era da considerarsi estranea all’atto di compravendita costituente l’oggetto della controversia, attenendo, piuttosto, alla successiva gestione del patrimonio della signora D.C. e potendo, quindi, semmai, rappresentare, nella sussistenza dei relativi presupposti, la possibile causa di attribuzione di una responsabilità a carico degli acquirenti (e, in particolare, del G.V. ) per un titolo diverso di inadempimento, non direttamente riconducibile al richiamato contratto ma ad altra fattispecie contrattuale che, considerati i rapporti tra la D.C. ed il figlio G.V. , si sarebbe potuta identificare con il mandato (con riferimento all’eventuale violazione degli obblighi discendenti dagli artt. 1710 e 1713 c.c.).
5. Con il quinto motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione dell’art. 436 c.p.c. (rectius: art. 346 c.p.c.), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., sul presupposto della dichiarata erroneità, nella sentenza impugnata, della ritenuta rinuncia degli appellati (corrispondenti ad essi ricorrenti) alla domanda di risarcimento dei danni in quanto non riproposta in secondo grado con appello incidentale.
5.1. Anche quest’ultimo motivo è privo di fondamento e va rigettato. Per quanto risulta anche dalla sentenza impugnata in questa sede (cfr. pagg. 7-8) la domanda – proposta dai sigg. G.L. e F. – di condanna al risarcimento dei presunti danni subiti per effetto della compravendita e dell’iscrizione di ipoteca volontaria a favore della Banca popolare dell’Emilia Romagna era stata espressamente rigettata all’esito del giudizio di primo grado, con la conseguenza che – come correttamente rilevato dalla Corte territoriale – gli stessi sigg. G.L. e G.F. , in quanto appellati – erano propriamente onerati a formulare (cfr., ad es., Cass. n. 9479 del 2009 e, da ultimo, Cass. 5735 del 2011), con riferimento a tale capo della sentenza di prime cure, appello incidentale (in quanto risultati soccombenti), donde, in difetto della sua rituale proposizione, la relativa richiesta è stata dichiarata legittimamente inammissibile dal giudice di secondo grado (del resto, l’accoglimento dell’appello principale – la cui pronuncia è stata confermata in questa sede in virtù di quanto scaturito dai precedenti motivi – aveva determinato la caducazione dell’interesse degli attuali ricorrenti ad insistere nella incompatibile richiesta risarcitoria).
6. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con conseguente condanna dei ricorrenti, in via fra foro solidale, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell’art. 41 dello stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.
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