La massima

Le sentenze, pronunciate tra i coniugi e passate in cosa giudicata (in cause, rispettivamente, di divorzio e di caduta in comunione legale di altro bene acquistato separatamente da uno dei coniugi), le quali, nell’interpretare il contenuto e la portata precettiva di una precedente pronuncia intervenuta tra le stesse parti, abbiano ritenuto non idonea a determinare l’allentamento del legame matrimoniale la sentenza di primo grado di separazione personale in pendenza di un appello sul titolo della separazione stessa, sull’affidamento dei figli e sulla misura dell’assegno di mantenimento, non vincolano, in relazione a detto accertamento incidentale, il terzo che, ante rem iudicatam, abbia acquistato da uno dei coniugi la quota di contitolarità di un bene immobile; ne consegue che, nel successivo giudizio, al quale partecipi anche l’acquirente, in cui si controverta della validità di detta alienazione di quota in relazione alla regola dell’amministrazione congiuntiva dettata dall’art. 184 c.c., il giudice è abilitato a stabilire autonomamente quando è passata in giudicato la sentenza che ha pronunciato la separazione personale tra i coniugi, al fine di determinare il momento di scioglimento del regime di comunione legale.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

SENTENZA 16 aprile 2012, n.5972

Con sentenza in data 1 marzo 2005, il Tribunale di Lecce ha annullato, su domanda di C.D., l’atto pubblico stipulato il 1 marzo 1996 per notar Rossi, con il quale il marito dell’attrice, L.G., aveva venduto a E.R. la nuda proprietà della quota indivisa di 1/2 dell’immobile sito in (omissis) e censito in catasto al foglio 15, p.lla 548 sub 1 e sub 2. Ha rilevato il Tribunale che la vendita era avvenuta in violazione del disposto di cui all’art. 184 c.c.: il bene era stato infatti acquistato dal L. con la moglie C.D. in regime di comunione legale, mentre la vendita di cui all’atto impugnato era intervenuta prima della cessazione della comunione legale, avutasi solo a seguito della separazione tra i predetti coniugi pronunciata in via definitiva con sentenza della Corte d’appello di Lecce in data 7 marzo 1997. 2. – La Corte d’appello di Lecce, con sentenza depositata il 19 luglio 2007, ha accolto il gravame del L. e, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di annullamento del contratto avanzata dalla C.. 2.1. – La Corte territoriale ha rilevato: – che quando il L. alienò la sua quota di proprietà dell’immobile con l’atto pubblico del 1 marzo 1996, il bene non era più soggetto al regime della comunione legale, essendo la comunione legale cessata, ex art. 191 c.c., a seguito della separazione personale dei coniugi pronunciata dal Tribunale di Brindisi in data 10 giugno 1989; – che la formazione del giudicato sulla separazione non era stata impedita dal fatto che la sentenza di primo grado era stata appellata, dal momento che il gravame aveva riguardato esclusivamente il rigetto della domanda di addebito: l’appello non aveva quindi riguardato la separazione in sè ed il relativo capo della sentenza doveva ritenersi coperto dal giudicato allo spirare del termine di impugnazione della sentenza 10 giugno 1989, ben prima che sull’impugnazione pronunciasse la Corte d’appello con la sentenza 7 marzo 1997; – che l’atto di disposizione del quale la C. ha chiesto l’annullamento, riguardando appunto un bene regolato oramai dalle norme sulla comunione ordinaria, non è invalido per difetto di legittimazione dell’alienante, giacchè ciascun comproprietario può liberamente disporre della sua quota ideale del bene, indipendentemente dal consenso prestato dall’altro o dagli altri comproprietari (art. 1103 c.c.). 3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la C. ha proposto ricorso, con atto notificato il 2 ed il 3 settembre 2 008, sulla base di due motivi, illustrati con memoria. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Considerato in diritto

1. – Con il primo mezzo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 184 e 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Premette la ricorrente che, nelle more dell’appello avverso la sentenza di separazione del Tribunale di Brindisi in data 26 aprile 1989, il L. aveva proposto domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio: e mentre il Tribunale di Lecce aveva accolto la domanda, la Corte d’appello, con sentenza in data 3 dicembre 1998, ne aveva dichiarato l’inammissibilità, perché il divorzio era stato richiesto prima della definitività della sentenza del Tribunale di Brindisi, avutasi soltanto con il passaggio in giudicato della decisione della Corte di Lecce del 7 marzo 1997.

Tanto premesso, la ricorrente osserva che la decisione impugnata avrebbe violato il giudicato, quello derivante dalla sentenza della Corte salentina del 3 dicembre 1998, la quale, dichiarando inammissibile la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha dichiarato che la separazione tra i coniugi L. – C. si è prodotta solo con il passaggio in giudicato della sentenza in data 7 marzo 1997.

Di qui l’invalidità dell’alienazione, perchè effettuata – come eccepito già nel grado di merito – prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione, quindi in persistenza del regime di comunione dei beni.

Facendo seguito ad analoga prospettazione avanzata nel corso del giudizio di gravame, la ricorrente richiama anche la sentenza della Corte d’appello di Lecce in data 17 ottobre 2003, con la quale è stato accertato che ‘il bene immobile acquistato da L.G. e C.S., in comunione tra loro, a seguito di decreti emessi dal giudice delegato ai fallimenti del Tribunale di Lecce, in data 19 aprile 1993, nelle more del giudizio di appello avverso la indicata sentenza di separazione, è entrato, ope legis, ex art. 177 c.c., quanto alla quota di spettanza del L., in comunione con il coniuge C., a nulla rilevando che quest’ultimo non abbia partecipato all’atto di acquisto’.

1.1. – Il motivo è infondato.

La complessiva doglianza muove dall’assunto che la statuizione, contenuta nella sentenza (divenuta definitiva) del giudice investito della domanda di divorzio, di inammissibilità di detta domanda, per non essersi verificato il passaggio in giudicato della pronuncia sullo status di separazione nella pendenza dell’appello sulla richiesta di addebito, costituisca un giudicato esterno sull’interpretazione da dare alla sentenza di separazione del Tribunale di Brindisi del 26 aprile 1989, rilevante anche nel presente giudizio, nel quale – per stabilire se sia o meno valida la vendita della quota compiuta separatamente da un coniuge, senza il consenso dell’altro – occorre stabilire se, al momento dell’alienazione, sussistesse ancora il regime di comunione legale tra gli stessi o se esso non si fosse sciolto a seguito della separazione personale tra i coniugi.

Al medesimo risultato condurrebbe, ad avviso della ricorrente, un’altra sentenza, pronunciata tra la C. ed il L., la quale, nel ricomprendere nella comunione legale un bene acquistato dal marito nella pendenza del giudizio di appello avverso la sentenza di separazione, ha rilevato che ‘lo scioglimento del regime di comunione tra i coniugi è avvenuto… solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione emessa, in sede di gravame contro quella del Tribunale di Brindisi, dalla Corte d’appello di Lecce in data 7 marzo 1997′.

L’assunto alla base della doglianza è radicato su un erroneo presupposto interpretativo.

In primo luogo, perchè, ai fini della preclusione derivante dall’esistenza di un giudicato esterno, fondamentale ed imprescindibile risulta il raffronto della situazione contenuta nella precedente decisione con l’oggetto specifico del processo nell’ambito del quale il giudicato dovrebbe fare stato, e quindi il riscontro dell’esistenza di una relazione giuridica tra i diritti dedotti nei due giudizi (Cass., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass., Sez. 5, 5 febbraio 2007, n. 2438; Cass., Sez. Lav., 10 novembre 2008, n. 26927). Nella specie siffatta preclusione deve essere esclusa, mancando la riferibilità al medesimo rapporto giuridico: nella presente controversia, infatti, non si discute nè di ammissibilità del divorzio né di ricomprensione nella comunione legale tra i coniugi del bene acquistato dal L. dal fallimento, ma della validità dell’alienazione compiuta dal L. in relazione ad un altro cespite. Tale evidente diversità non viene meno per il fatto che il giudice si sia trovato, allora, e si trovi, ora, a dare soluzione ad una questione relativa ad un punto comune, vale a dire l’essere o meno i coniugi L. – C. già separati a seguito della sentenza del Tribunale di Brindisi del 10 giugno 1989, prima della definizione del giudizio di appello avverso quella sentenza.

Inoltre, condizione dell’efficacia del giudicato esterno è che esso si sia formato tra le stesse parti, non essendo sufficiente che esso riguardi un accertamento riferibile ad una questione di fatto comune ad entrambe le cause (tra le tante, Cass., Sez. 3, 24 gennaio 2007, n. 1514; Cass., Sez. 5, 15 settembre 2008, n. 23658); e tale condizione di identità soggettiva nella specie non sussiste, giacché mentre al giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e alla controversia sull’ambito oggettivo della comunione legale (in relazione al bene acquistato in data 19 aprile 1993 da un fallimento) hanno preso parte i coniugi, a questo procedimento partecipa anche l’acquirente della quota, il quale non può trovarsi vincolato ad una accertamento compiuto in un giudizio al quale non ha partecipato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. 3, 22 maggio 1979, n. 2959; Cass., Sez. 2, 24 febbraio 1981, n. 1131; Cass., Sez. 3, 23 ottobre 1985, n. 5194), infatti, gli aventi causa nei cui confronti, a norma dell’art. 2909 c.c., fa stato l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, sono quei soggetti che, dopo la formazione del giudicato, sono subentrati nella titolarità delle correlative situazioni giuridiche, attive e passive, dedotte in giudizio e sulle quali incide il comando giurisdizionale passato in giudicato.

Nella specie, per un verso la E. ha acquistato la contitolarità del bene in un momento cronologicamente anteriore alla formazione del giudicato, ossia nel marzo 1996, laddove la sentenza che ha dichiarato l’inammissibilità del divorzio è stata pronunciata nel dicembre 1998 e la sentenza che ha ritenuto ricompreso nella comunione legale altro bene acquistato in comunione con un terzo dal L. in un’asta fallimentare dell’aprile 1993, è dell’ottobre 2003; per l’altro verso, il diritto che l’ E. ha acquistato a titolo derivativo dal L. non è il medesimo oggetto dell’uno o dell’altro giudicato né un diritto diverso ma che tuttavia da uno dei due tragga origine.

Conclusivamente, deve affermarsi il principio secondo cui le sentenze, pronunciate tra i coniugi e passate in cosa giudicata (in cause, rispettivamente, di divorzio e di caduta in comunione legale di altro bene acquistato separatamente da uno dei coniugi), le quali, nell’interpretare il contenuto e la portata precettiva di una precedente pronuncia intervenuta tra le stesse parti, abbiano ritenuto non idonea a determinare l’allentamento del legame matrimoniale la sentenza di primo grado di separazione personale in pendenza di un appello sul titolo della separazione stessa, sull’affidamento dei figli e sulla misura dell’assegno di mantenimento, non vincolano, in relazione a detto accertamento incidentale, il terzo che, ante rem iudicatam, abbia acquistato da uno dei coniugi la quota di contitolarità di un bene immobile; ne consegue che, nel successivo giudizio, al quale partecipi anche l’acquirente, in cui si controverta della validità di detta alienazione di quota in relazione alla regola dell’amministrazione congiuntiva dettata dall’art. 184 c.c., il giudice è abilitato a stabilire autonomamente quando è passata in giudicato la sentenza che ha pronunciato la separazione personale tra i coniugi, al fine di determinare il momento di scioglimento del regime di comunione legale.

2. – Il secondo motivo lamenta violazione dell’art. 191 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La ricorrente contesta che possa esservi ‘autonomia decisoria sulla domanda di separazione rispetto all’effettivo titolo di cui alla pronuncia’. E precisa che, in ogni caso, l’autonomia della richiesta di addebito è stata affermata, in giurisprudenza, soltanto a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite 4 dicembre 2001, n. 15279, laddove l’indirizzo precedente era di segno contrario: sicché, ove i giudici avessero deciso tempestivamente la causa, che era stata proposta dalla C. con citazione del 23 luglio 1996, l’esito dell’impugnazione sarebbe stato diverso, in applicazione del precedente orientamento.

2.1. – Il motivo è privo di fondamento.

Lo scioglimento della comunione legale dei beni tra i coniugi si verifica ex nunc con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale; e poiché l’appello proposto con esclusivo riferimento all’addebito, all’affidamento dei figli e agli aspetti economici della separazione segna acquiescenza alla pronuncia sulla separazione, e quindi definitività della stessa, quale parte autonoma della decisione, deve escludersi che la pendenza del gravame su tali aspetti precluda il passaggio in giudicato della separazione stessa ed impedisca la cessazione del regime di comunione legale, cessazione alla quale si riconnettono l’inoperatività del complesso normativo di cui agli artt. 177 e segg. c.c. (e, in particolare, dell’art. 184 c.c.) e l’automatica instaurazione delle regole proprie della comunione legale, ivi compresa quella, ex art. 1103 c.c., che abilita ciascun contitolare a disporre del suo diritto nei limiti della quota senza il consenso dell’altro comunista.

Inoltre, contrariamente a quanto ritiene la ricorrente (la quale sostiene di avere riposto un legittimo affidamento sul precedente, costante orientamento giurisprudenziale che negava la possibilità di scindere la pronuncia di separazione e quella di addebito all’interno dello stesso processo in cui l’una e l’altra fossero state richieste), l’indirizzo interpretativo inaugurato da Cass., Sez. Un., 4 dicembre 2001, n. 15279, non è suscettibile di operare solo per il futuro, cioè per le cause introdotte in data successiva.

Infatti, dal mutamento di indirizzo discendente dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite non derivano preclusioni o decadenze per la parte, il cui diritto di azione e difesa non è compromesso;

pertanto, non trova applicazione il principio, in tema di overruling, secondo cui il mutamento da parte della Corte della propria precedente interpretazione di una norma processuale non opera nei confronti della parte che in detta interpretazione abbia incolpevolmente confidato (Cass., Sez. lav., 27 dicembre 2011, n. 28967; Cass., Sez. 6 – 1, 30 dicembre 2011, n. 30111).

3. – Il ricorso è rigettato.

Nessuna statuizione sulle spese deve essere adottata, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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