Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 11 giugno 2015, n. 24771
1. Con sentenza in data 17/4/2014, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza dei Gup presso il Tribunale di Napoli, in data 11/6/2013, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. 203/91, rideterminava la pena complessiva inflitta a R.M., per ì reati di concorso in associazione di stampo mafioso e trasferimento fraudolento di valori, in anni sette, mesi sei di reclusione 3. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando sei motivi di gravame con i quali deduce:
3.1 Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 416 bis cod. pen. ed all’art. 192, II e III comma cod. proc. pen., in riferimento alla valutazione dì attendibilità dei collaboratori di giustizia; mancanza ed illogicità della motivazione in ordine alla partecipazione del ricorrente al sodalizio criminoso in contestazione. Al riguardo duole di violazione dei criteri che governano la formazione della prova ed eccepisce che i giudici del merito avrebbero omesso di operare il necessario vaglio di attendibilità dei collaboratori di giustizia e della intrinseca consistenza delle loro dichiarazioni. Deduce, in particolare, che il R. rientrava fra i soggetti sottoposti ad estorsione da parte dei clan camorristico; imprenditore vittima piuttosto che colluso.
3.2 Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 416 bis cod. pen. ed all’art. 192, II e III comma cod. proc. pen., in riferimento alla mancata derubricazione del reato di partecipazione in quello di concorso esterno. Al riguardo eccepisce che le circostanze riferite dai collaboratori di giustizia circa la consegna da parte del R. di armi ed autovetture al clan non risultano riscontrate.
3.3 Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 416 bis cod. pen. ed all’art. 192, II e III comma cod. proc. pen., in relazione alla mancata retroatazione della condotta all’anno 2004. Anche in questo caso il ricorrente eccepisce che le circostanze riferite dai collaboratori di giustizia non sono idonee a formare la prova in quanto non riscontrate.
3.5 Vizio della motivazione per totale omissione della motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti che giustificassero la confisca dei beni immobili sequestrati.
1. II ricorso è infondato.
3. Quanto alla valutazione della credibilità soggettiva dei collaboratori di giustizia, le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito che nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l’esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva dei suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale (Sez. U, Sentenza n. 20804 del 29/11/2012 Ud. (dep. 14/05/2013 ) Rv. 255145). In sostanza devono essere superate eventuali riserve circa l’attendibilità del narrato di ciascun dichiarante, vagliandone la valenza probatoria anche alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente acquisiti.
3. Nel caso di specie a carico del prevenuto esistono numerose chiamate in reità provenienti dai collaboratori N., A., G., C. e F., tutte convergenti sul nucleo centrale relativo all’intervento del sodalizio per imporre ai bar della zona di Marcianise l’adozione delle slot machine installate dalla ditta del R.. Costui si avvaleva della forza di intimidazione del sodalizio criminale per imporre l’istallazione delle sue macchine da gioco e poi restituiva al clan una parte dei profitti in tal modo conseguiti, versando con cadenza periodica delle somme di denaro. Non v’è dubbio, pertanto, che il R. non rientrasse nella categoria “dell’imprenditore vittima”, quanto piuttosto in quella “dell’imprenditore colluso”, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte.
5. In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, deve ritenersi “colluso” l’imprenditore che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo della “affectio societatis”, instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per l’imprenditore, nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi o utilità. (Nel caso di specie, l’imprenditore operava nell’ambito del sistema di gestione e spartizione degli appalti pubblici attraverso un’attività di illecita interferenza, che comportava, a suo vantaggio, il conseguimento di commesse e, in favore dei sodalizio, il rafforzamento della propria capacità di influenza nel settore economico, con appalti ad imprese contigue) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 30346 del 18/04/2013 Ud. (dep. 15/07/2013 ) Rv. 256740).
7. Per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso con il quale il ricorrente deduce che la condotta sarebbe cessata nel 2004, occorre considerare che il reato permanente di partecipazione ad associazione di stampo mafioso è stato oggetto di una contestazione aperta, cioè commesso dal 2009 ad oggi. Orbene in giurisprudenza è pacifico che il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis cod. pen.) può continuare a consumarsi anche successivamente all’emissione di una misura cautelare – essendo legato non solo a condotte tipiche ma anche soltanto alla mancata cessazione “dell’affectio societatis scelerum” – fino ad un atto di desistenza che può essere volontaria oppure legale, rappresentato dalla sentenza di condanna anche non definitiva; nel caso di contestazione senza l’indicazione della data di cessazione della condotta, la permanenza deve ritenersi sussistente fino alla data della pronunzia di primo grado (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 31111 dei 19/03/2009 Ud. (dep. 28/07/2009 ) Rv. 244479).
9. Per quanto riguarda il quarto motivo di ricorso in punto di sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 12 quinquies, le censure del ricorrente ripropongono le medesime doglianze sollevate con i motivi d’appello che la Corte territoriale ha rigettato confutandoli con motivazione congrua e priva di vizi logico-giuridici e, pertanto, risultano inammissibili.
11. Ugualmente infondate sono le censure in punto di diniego delle generiche e di trattamento sanzionatorio, avendo la Corte d’appello adeguatamente e specificamente motivato sul punto.
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