Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 4 agosto 2015, n. 34095
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 5.12.2013, la Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, confermava la decisione emessa in data 17.3.2009 con la quale il Tribunale di Taranto in composizione monocratica, sezione distaccata di Manduria, aveva condannato C.U. alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 6 L. n. 895/67 e lo aveva assolto dalla concorrente imputazione di simulazione di reato (art. 367 c.p.).
La Corte territoriale, in sintonia con il primo Giudice, riteneva provato, in base al testimoniale assunto e alle ammissioni rese dallo stesso imputato, che il C., la sera del 17.11.2005, al fine di incutere timore a un numero imprecisato di presenti, aveva esploso un colpo di fucile sulla pubblica via, nel centro abitato di Manduria, a distanza di poche centinaia di metri da un esercizio commerciale frequentato da diversi avventori.
Negava la Corte pugliese la sussistenza dell’invocata scriminante della legittima difesa, in quanto, nel caso di specie, l’imputato, oltre ad essersi posto volontariamente in una situazione di pericolo iniziando un’accesa lite con la sua ospite R.A. sulla pubblica via, aveva avuto la possibilità di scegliere una soluzione non violenta per eventualmente difendersi dagli sconosciuti che gli si erano avvicinati – verosimilmente per soccorrere la R. – armati di una bottiglia e di un coltello, semplicemente rientrando in casa anziché riuscire con il fucile ed esplodere in aria un colpo.
Né poteva ravvisarsi, nella vicenda in esame, la scriminante dello stato di necessità, non essendosi verificata una concreta situazione di pericolo né per il C., il quale aveva avuto la possibilità e il tempo di entrare in casa per armarsi di un fucile, sia per la R. che, a suo dire, si trovava chiusa a bordo della propria auto e, dunque, al riparo da un presunto pericolo.
2. Ricorre per cassazione C.U. per il tramite dei difensore.
2.1. Con il primo motivo, si deduce erronea applicazione della legge penale in relazione alla qualificazione giuridica del fatto, da sussumersi nell’ipotesi delittuosa di minaccia aggravata ex art. 612, comma 2, c.p..
Il C. certamente non si trovava in una pubblica piazza o in presenza di una moltitudine di persone, bensì rispondeva a una sfida rivoltagli da un determinato gruppetto di giovani con i quali era intervenuto un contrasto, in un’ora tarda e nei pressi della sua abitazione.
Della fattispecie prevista dall’art. 6 L. n. 895/67 mancavano, dunque, sia l’oggetto giuridico della tutela penale, ossia la lesione o il pericolo per l’incolumità pubblica o l’ordine pubblico, sia l’elemento soggettivo del reato, posto che l’esplosione del colpo di fucile, nel caso in questione, era esclusivamente volta a spaventare tre ragazzi e non altri.
2.2. Con il secondo motivo, si denunciano violazione di legge in relazione all’art. 6 L. n. 895/67 e carenza di motivazione in ordine alla esclusione della scriminante della legittima difesa.
II Giudice territoriale aveva accertato, nel caso di specie, il fine di incutere timore senza alcun evidente riscontro negli atti istruttori, né, tanto meno, fornendo giustificazione logica in riferimento a detto fine.
Di contro, dalle emergenze dibattimentali risultava provato il soggettivo stato di timore dell’imputato per la propria incolumità.
Dalle testimonianze assunte risultava acciarato che a tarda ora, in una serata di novembre, si era avvicinato con fare minaccioso al C. e alla R., intenti a litigare in strada, un gruppo di sconosciuti, tra i quali taluno verosimilmente armato di coltello ed altri brandendo bottiglie di birra.
Non era, perciò, intuitivamente ravvisabile l’intenzione di “incutere pubblico timore” necessaria per la fattispecie disciplinata dall’art. 6 L. n. 895/67, quanto, piuttosto, una situazione di percepito pericolo e di minorata difesa del C., il quale, al solo fine di far allontanare i giovani, aveva sparato un unico colpo in aria dal suo fucile regolarmente detenuto e non sulla pubblica via, ma sull’uscio della propria abitazione. Era evidente, quindi, in base alla stessa ricostruzione del fatto storico, che sussistevano, nella specie, gli estremi dell’esimente dell’art. 52 c.p., reale o putativa, che il Giudice dell’appello aveva ritenuto frettolosamente di escludere.
Quanto al requisito della “proporzione”, doveva rilevarsi che il C., sentendosi minacciato dall’atteggiamento dei giovani sconosciuti, aveva reagito con quello che a suo avviso poteva essere un metodo idoneo ad evitare lo scontro e a convincere il gruppo a desistere dalla condotta iniziata.
Eventualmente, sotto il profilo della “proporzione”, poteva porsi un problema di configurabilità dell’eccesso colposo in legittima difesa.
2.3. Con il terzo motivo, si lamenta contraddittorietà della motivazione.
Alla pag. 7 della sentenza impugnata la Corte di Appello scriveva che “non era concretamente apprezzabile una situazione di pericolo né per io stesso C. … sia per la R.”, per poi sostenere, a distanza di poche righe, che “l’atteggiamento aggressivo e minaccioso dei giovani deve (doveva) ritenersi provato e le dichiarazioni rese sul punto dall’imputato non possono (potevano) considerarsi false”.
Appariva, quindi, manifestamente illogico l’iter motivazionale seguito dai Giudici del gravame, i quali da un iato accertavano la minaccia posta in essere dai giovani e, dall’altro, non riconoscevano la situazione di pericolo in cui intuitivamente poteva essersi trovato il C., in un’ora tarda e circondato da perfetti sconosciuti.
Doveva parimenti ritenersi illogico qualificare come “volontaria” la situazione di pericolo in cui versava il C., tenuto conto del comportamento minaccioso ed aggressivo del gruppo di giovani riconosciuto in sentenza.
Considerato in diritto
1. II ricorso è fondato nei termini di cui in motivazione.
2. Con il primo motivo, il ricorrente ha posto il tema della qualificazione giuridica dei fatto in contestazione, che, a suo avviso, avrebbe dovuto essere sussunto nella fattispecie della minaccia aggravata ex art. 612, comma 2, c.p., anziché in quella originaria di cui all’art. 6 L. n. 895/67.
Il rilievo è corretto, anche se, poi, deve essere necessariamente integrato dal raffronto con l’ulteriore fattispecie di reato contravvenzionale di cui all’art. 703 c.p…
Va, invero, ricordato, al riguardo, che il bene giuridico tutelato dall’art. 6 L. n. 895/67 è quello dell’ordine pubblico (Sez. 1, n. 37384 del 10/11/2006, Rv. 235082), mentre l’ipotesi sanzionata dall’art. 703 c.p. descrive un reato di pericolo, in relazione alla possibilità concreta che esplosioni di ordigni in centro abitato, o sulla pubblica via – senza la predisposizione delle cautele che vengono imposte a chi ottiene la prescritta autorizzazione – compromettano l’incolumità fisica delle persone (Sez. 1, n. 1321 del 18/11/1994, dep. 10/2/1995, Rv. 200232).
Allorché, come nel caso di specie, vi sia coincidenza dell’elemento materiale tra le due figure di reato (l’esplosione di un colpo di fucile), ciò che le distingue è l’elemento soggettivo. Infatti, nella contravvenzione è richiesta la semplice volontarietà cosciente del fatto, mentre per il delitto è necessario il dolo specifico, consistente nel fine di incutere pubblico timore o di suscitare tumulto o pubblico disordine o di attentare alla sicurezza pubblica (Sez. 1, n. 11872 del 12.11.1980, Rv. 146636).
Dallo stesso testo dei provvedimento impugnato (per la verità, anche dal capo d’imputazione, dove si menziona “il fine di incutere timore” senza l’indispensabile aggettivo “pubblico”, voluto dalla norma), emerge che il C., nell’esplodere il colpo di fucile, abbia inteso incutere timore non ad un gruppo indiscriminato di persone, ma solo al circoscritto numero di giovani che, allarmati dai toni accesi del suo litigio con la R., si erano avvicinati alla coppia.
Il difetto del dolo specifico del reato originariamente contestato consente, quindi, di riqualificare la condotta, in primo luogo, nell’alveo del reato contravvenzionale di cui all’art. 703 c. p.. Inoltre, è pacifico che la medesima condotta presenti, secondo lo schema del concorso formale di reati, i connotati – oggettivo e soggettivo (la minaccia attuata con arma, per la realtà oggettiva dell’azione consumativa, è in ogni caso ex se produttiva dell’evento, cosiddetto “formale”, dell’ipotesi grave del reato: Sez. 5, n. 5624 del 30/1/1986, Rv. 173138) – della minaccia aggravata dall’uso dell’arma, come, dei resto, prospettato dallo stesso ricorrente.
3. In conseguenza della riqualificazione della condotta come originariamente contestata nei reati di cui all’art. 612, comma 2, e 703 c.p., rilevato che la data di commissione degli stessi risale al 17.11.2005, verificata ex actis l’assenza di periodi di sospensione, deve ritenersi ampiamente maturato, alla data odierna, il tempo di prescrizione dei reati come riqualificati nella sua durata massima di cinque anni prevista dal combinato disposto degli artt. 157 e 161 c.p., nel testo attuale in concreto applicabile al ricorrente.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. a) cod. proc. pen., perché i reati sono estinti per prescrizione.
P.Q.M.
Qualificato il fatto ai sensi degli artt. 612, comma 2 e 703 c.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché estinti i reati per prescrizione.
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