Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 26 settembre 2013, n. 22099
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 23 dicembre 2003 il sig. G.F.G. e la F.G.F. Financière Gazzoni Frascara s.r.l. citarono in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, le società Mediobanca-Banca di Credito Finanziario (d’ora in avanti, Mediobanca), Fondiaria-Sai (Fonsai, risultante dalla fusione della Fondiaria Assicurazioni con la Sai-Società Assicuratrice Industriale), e Premafin Finanziaria Holding (Premafin). Gli attori riferirono di come, nel giugno del 2001, la Montedison s.p.a., controllata da Mediobanca, si fosse accordata con la Sai (della quale entrambe erano azioniste) per l’acquisto di un rilevante pacchetto di azioni della Fondiaria, società quotata in borsa ed anch’essa controllata da Mediobanca; di come si fosse profilata l’eventualità che dalla futura esecuzione di tale accordo potesse derivare un obbligo di offerta pubblica d’acquisto sulla totalità del capitale della medesima Fondiaria, eventualità apparentemente scongiurata quando, dopo il diniego di autorizzazione opposto dall’Isvap, l’operazione era stata altrimenti configurata, mediante l’intervento di acquirenti diversi, salvo però a ripresentarsi allorché la Consob, avendo ravvisato in questi acquirenti dei soggetti interposti, aveva diffuso un comunicato nel quale affermava essersi verificato l’acquisto di una partecipazione superiore al trenta per cento del capitale della Fondiaria ad opera, di concerto, di Mediobanca, Sai e della controllante di quest’ultima, Premafin s.p.a.; di come, pertanto, dette società avrebbero dovuto lanciare sin dal 18 febbraio 2002 un’offerta pubblica di acquisto del restante capitale, ma non lo avevano fatto, mentre solo a distanza di tempo, dopo l’intervenuta fusione tra le stesse Sai e Fondiaria, si era provveduto, e solo formalmente, a rivendere le azioni della Fonsai che eccedevano il trenta per cento della partecipazione di controllo della società. Ciò premesso, gli attori, che al tempo dei fatti narrati erano titolari di azioni della Fondiaria e sarebbero stati perciò tra i destinatari dell’offerta pubblica, se questa fosse stata promossa, chiesero la condanna in solido delle società convenute a risarcire i danni da essi subiti per il mancato adempimento dell’obbligo di offerta.
Il tribunale accolse la domanda e condannò le società convenute a corrispondere agli attori importi pari alla differenza tra il prezzo al quale essi avrebbero potuto cedere le loro azioni, se vi fosse stata l’offerta pubblica di acquisto, e la quotazione di borsa delle medesime azioni alla data in cui era scaduto l’obbligo di offerta pubblica rimasto inadempiuto.
Tale decisione è stata totalmente riformata dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza emessa il 15 luglio 2010, la quale ha ritenuto che le disposizioni del d.lgs. n. 58 del 1998 (c.d. testo unico della finanza, in prosieguo indicato con la sigla t.u.f.), nel prevedere la sterilizzazione del voto e la rivendita entro l’anno delle azioni acquisite in violazione di un obbligo di offerta pubblica d’acquisto, non lascino spazio al risarcimento del danno in favore degli azionisti terzi, non avendo essi titolo per far valere la responsabilità contrattuale o extracontrattuale della controparte per il mancato adempimento di un contratto mai in realtà stipulato. Ha osservato inoltre la corte d’appello che il tribunale, nel configurare la responsabilità delle società convenute anche per il non corretto adempimento dell’obbligo di rivendita entro l’anno delle azioni eccedenti la soglia oltre la quale il precedente acquisto aveva fatto scattare l’obbligo di offerta pubblico rimasto inadempiuto, era incorso in un vizio di extrapetizione, giacché una tale causa petendi mai era stata dedotta nell’atto di citazione.
Avverso questa sentenza gli originari attori propongono ricorso per cassazione, formulando quattro motivi di censura. Le società intimate resistono con controricorsi; Mediobanca e Premafin propongono ricorsi incidentali condizionati. Le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1.- Va data precedenza all’esame del primo motivo dei ricorsi incidentali Premafin e Mediobanca e del secondo motivo del ricorso Mediobanca che vi è connesso, nei quali si eccepisce la carenza di legittimazione di G..G.F. ad agire in giudizio in nome della F.G.F. Financière, assumendosi che egli avrebbe offerto tardivamente la prova di essere legale rappresentante della società, cioè solo nella memoria di replica istruttoria ex art. 184 c.p.c. (testo anteriormente vigente) destinata, invece, alla produzione di documenti e prova contraria; il tribunale, decidendo in senso diverso, avrebbe violato il principio secondo cui, in caso di contestazione dell’esistenza del potere rappresentativo in capo alla parte attrice, l’onere della prova contraria grava su quest’ultima.
1.1.- Il motivo è infondato. La decisione dei giudici di merito è conforme all’orientamento recentemente ribadito da questa Corte (n. 798/2013) secondo cui l’accertamento della legittimatici ad processimi riguarda un presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto processuale, la cui esistenza, come dimostra la previsione del potere ufficioso di cui all’art. 182 c.p.c., comma 2, dev’essere controllata d’ufficio dal giudice, salvo il limite della formazione del giudicato, senza che occorra un’apposita eccezione di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 15392/2005); proprio perché la questione della sussistenza della legittimazione ad processum è esaminabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, non rileva il momento del processo nel quale sia fornita la prova documentale di tale sussistenza, che, imponendosi di per sé, ben può, con riguardo ad un determinato grado, risultare da produzioni od acquisizioni avvenute anche in quello successivo (Cass. n. 11851/1995), non operando ai relativi effetti le ordinarie preclusioni istruttorie (Cass. n. 8996/2002, n. 11506/2004).
2.- Nel secondo motivo del ricorso incidentale la Premafin deduce il difetto di legittimazione ad agire della società attrice F.G.F., essendo questa titolare di azioni intestate fiduciariamente ad altra società, la Promofinan s.p.a..
2.1.- Il motivo è, per un verso, inammissibile perché non investe la ratio decisoria espressa dalla corte di appello, la quale ha ritenuto che l’essere le azioni intestate fiduciariamente ad altra società “non appare in grado di mettere in discussione la titolarità del rapporto sostanziale dedotto in capo alla fiduciante FGF”, e, per altro verso, è infondato. È noto che, in virtù della disciplina legislativa che le regola, le società fiduciarie non sono istituzionalmente proprietarie dei titoli azionari loro affidati in gestione e strumentalmente intestati, tanto da essere sottratti alla soddisfazione dei creditori delle stesse (tra le altre Cass. n. 9355/1997). La proprietà dei titoli in questione non può che appartenere effettivamente alla fiduciante, alla quale è riconosciuta una tutela anche di carattere reale azionabile in via diretta ed immediata nei confronti di ogni consociato (Cass. n. 4943/1999) e, quindi, non può essere negata la legittimazione ad agire nei confronti della stessa società fiduciaria, in quanto concorrente nell’illecito del mancato lancio di un’OPA obbligatoria, delle cui conseguenze dannose essa è chiamata a rispondere.
3.- Il primo e il terzo motivo, denunciando la violazione di norme di diritto, contenute nel codice civile e nel t.u.f., pongono la questione della configurabilità del diritto al risarcimento del danno in capo al socio di società quotata in borsa che non si sia visto proporre un’offerta pubblica d’acquisto delle proprie azioni in una situazione nella quale, viceversa, per il disposto dell’art. 106 del t.u.f., quell’offerta era obbligatoria. Nel secondo motivo si imputa alla corte di appello di avere errato nel ritenere che il tribunale, giudicando anche sul non corretto adempimento dell’obbligo di rivendita delle azioni (a seguito del mancato lancio dell’OPA), fosse andato oltre i limiti consentiti dalla domanda, incorrendo nel vizio di ultrapetizione.
Nel quarto motivo i ricorrenti contestano l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, che giudicano criptica, ambigua e del tutto immotivata, secondo cui l’appello meritava accoglimento “anche con riguardo agli ulteriori motivi” proposti dalle società oggi resistenti, il cui esame era stato ritenuto superfluo dalla stessa corte.
4.- La questione sollevata con il primo e il terzo motivo di ricorso è stata decisa da questa Corte con tre recenti sentenze (n. 14392, 14399 e 14400 del 2012) che hanno enunciato il principio di diritto espresso nella seguente massima ufficiale: “In tema di società per azioni quotate in mercati regolamentati, qualora sia inadempiuto l’obbligo di offerta pubblica di acquisto totalitaria, ai sensi dell’art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, gravante -come obbligo a contrarre – a carico dell’acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del trenta per cento, compete agli azionisti, cui l’offerta avrebbe dovuto essere rivolta, il diritto soggettivo al risarcimento del danno patrimoniale a titolo contrattuale (o ex lege), ove essi dimostrino di avere perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione dell’offerta; nella violazione di tale normativa, la lesione dell’interesse soggettivo tutelato non trova invero protezione esaustiva nelle sanzioni penali ed amministrative (come la sterilizzazione del voto e l’obbligo di rivendita delle azioni eccedenti entro l’anno), pur trattandosi di obbligo insuscettibile di esenzione forzata e sorgente, tuttavia, dal fatto in sé dell’acquisto di azioni per una quantità idonea, per presunzione legale, a conferire il controllo societario. La perdita di tale opzione di acquisto, che l’o.p.a. obbligatoria omessa avrebbe dovuto assicurare, determina un danno che può anche non coincidere in modo automatico con il prezzo di vendita se l’offerta fosse intervenuta, dovendosi considerare anche gli eventi successivi incidenti sul valore di borsa delle azioni rimaste in portafoglio“.
È necessario ripercorrere sinteticamente i passaggi salienti del percorso motivazionale seguito da questa Corte di legittimità nell’enunciazione del suddetto principio – pienamente condivisibile – al quale la sentenza impugnata non si è attenuta.
4.1.- L’art. 106 del t.u.f., nel caso in cui taluno a seguito di acquisti a titolo oneroso venga a detenere una partecipazione superiore al trenta per cento delle azioni di una società quotata, prevede che (fatte salve alcune situazioni di esenzione che qui non rilevano) egli debba promuovere un’offerta pubblica di acquisto avente ad oggetto la totalità delle restanti azioni della medesima società. Se l’acquisto di azioni oltre detta soglia sia stato operato da più soggetti, che abbiano agito di concerto, il successivo art. 109 pone l’obbligo di offerta pubblica solidalmente a carico di tutti costoro. È lo stesso legislatore a stabilire il prezzo dell’offerta pubblica obbligatoria, che, in base alla disposizione vigente al tempo dei fatti di causa, era misurato sulla media aritmetica fra il prezzo medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi e quello più elevato pattuito nello stesso periodo dall’offerente per acquisti di azioni ordinarie (l’attuale versione del comma 2 del citato art. 106 prevede ora che il prezzo dell’offerta non sia inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente e da persone che agiscono di concerto con lui nei dodici mesi anteriori).
4.2.- La normativa in esame muove palesemente dal rilievo per cui chi acquista una partecipazione superiore alla soglia sopra menzionata si pone, di regola, nella condizione di controllare la società quotata e tale vantaggio – il cosiddetto premio di maggioranza – è normalmente rispecchiato nel prezzo di acquisto, per ciò stesso superiore a quello corrente di mercato. L’obbligo di offerta pubblica totalitaria, che ne consegue, fa sì che del plusvalore lucrato dal venditore del pacchetto azionario di maggioranza siano posti in condizione di beneficiare, almeno in parte, anche gli altri soci, i quali, pur essendo titolari soltanto di partecipazioni minoritarie, hanno pur sempre contribuito col loro investimento alle sorti della società quotata. La maggiorazione del prezzo al quale l’azionista può vendere le proprie azioni, per effetto dell’offerta pubblica obbligatoria, è conseguenza unicamente del surplus che l’offerente ha pagato (o è tenuto per legge a pagare) per l’acquisto di un pacchetto azionario che, al momento in cui l’acquisto avviene, si presume idoneo al conseguimento del controllo.
4.3.- La proposizione dell’offerta pubblica d’acquisto, nei casi sopra ricordati, non configura un mero onere per l’acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del trenta per cento, ma integra una vera e propria obbligazione ex lege. Ne fanno fede non solo la terminologia adoperata dal legislatore (nel comma 5, e nei novellati commi 4 e 5, dell’art. 106 del t.u.f. dove si parla di “obbligo di offerta”) e la ratio di tutela dei possessori di partecipazioni di minoranza espressa nel nono considerando della Direttiva 2004/25/Ce (successiva ai fatti ma ispirata da principi preesistenti), ma anche l’esistenza di sanzioni in caso di violazione: infatti, ove l’offerta pubblica non sia promossa, il diritto di voto inerente all’intera partecipazione detenuta da colui che vi avrebbe dovuto provvedere non può essere esercitato e i titoli eccedenti l’indicata percentuale del trenta per cento devono essere alienati entro dodici mesi (art. 110 del t.u.f.).
4.4.- Si è anche escluso che la sterilizzazione del diritto di voto e l’obbligo di rivendita azionaria contemplati dal citato art. 110, a carico di chi non abbia promosso un’offerta pubblica di acquisto cui era tenuto, assumano i connotati di un’obbligazione alternativa, rispetto a quella avente ad oggetto il precedente obbligo di promuovere l’offerta. Infatti, l’alternatività presupporrebbe trattarsi di due obblighi posti sul medesimo piano, tra i quali il destinatario del precetto possa optare, ed invece il dettato normativo è chiarissimo nel prescrivere inderogabilmente l’obbligo di offerta pubblica, quando ne ricorrano le condizioni indicate dal legislatore. Le conseguenze derivanti dal mancato rispetto di tale obbligo costituiscono la reazione sanzionatoria dell’ordinamento, non già un’alternativa rimessa alla facoltà di scelta dell’obbligato (alcune peculiarità sono presenti nella disciplina dell’offerta pubblica tardiva, di cui al novellato art. 107 del t.u.f., non applicabile, ratione temporis, nella presente causa).
4.5.- L’obbligazione di cui si tratta non sorge genericamente nei riguardi dell’ordinamento o verso soggetti indeterminati, bensì nei confronti di coloro i quali siano, in quel momento, titolari di azioni emesse dalla società quotata del cui capitale l’obbligato ha acquistato la partecipazione superiore al trenta per cento. Il descritto meccanismo legale, pur se concepito per la realizzazione di finalità pubblicistiche inerenti al buon funzionamento del mercato finanziario, è destinato anche a realizzare il soddisfacimento di un interesse facente capo ai soci di minoranza, cui il legislatore vuole che l’offerta d’acquisto sia rivolta affinché essi possano scegliere se conservare la titolarità delle loro azioni, confidando in un futuro aumento del valore e della redditività delle stesse, o se monetizzarle per beneficiare anch’essi in qualche misura del premio di maggioranza.
4.6.- Da queste condivisibili premesse si è fatto discendere la logica conseguenza che l’inadempimento dell’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto è idoneo a determinare la responsabilità dell’inadempiente nei confronti di coloro cui l’inadempimento abbia recato danno. La circostanza che l’ordinamento, come s’è visto, abbia predisposto anche un sistema di sanzioni civili, consistente nella sterilizzazione del voto e nell’obbligo di rivendita entro l’anno delle azioni eccedenti la soglia del trenta per cento del capitale, non basta di per sé sola ad escludere l’applicazione dei principi generali vigenti in tema di inadempimento e risarcimento del danno. Quelle sanzioni hanno una valenza deterrente, giacché (unitamente alle sanzioni penali ed amministrative previste dagli artt. 173 e 192 t.u.f.) mirano a scoraggiare l’acquisizione di un controllo azionario che, ove l’obbligo di offerta pubblica non sia rispettato, rischierebbe di rivelarsi per l’acquirente inutile ed addirittura svantaggioso. Ma è evidente che il diritto al risarcimento del danno in favore di coloro nei cui confronti la prestazione inadempiuta avrebbe dovuto essere resa si pone su un piano diverso: perché è nel risarcimento e non nelle sanzioni che trova riparo la lesione dell’interesse tutelato dalla normativa. Non sussiste, quindi, quella incompatibilità logico-giuridica ravvisata dalla Corte di appello di Milano tra la pretesa risarcitoria degli azionisti e le misure sanzionatorie previste dall’art. 110 t.u.f..
4.7.- Si tratta di una responsabilità contrattuale per la violazione di un’obbligazione che la legge (artt. 1173 e 1218 c.c.) fa scaturire da un comportamento volontario (l’acquisto di azioni di società quotata idoneo a realizzare una partecipazione superiore alla soglia prevista) con cui taluno entra in contatto con una cerchia ben definita di soggetti (gli azionisti di minoranza) nell’interesse specifico dei quali la prestazione rimasta inadempiuta (consistente nel promuovere l’offerta) era dovuta.
4.8.- Questa Corte ha risposto anche all’obiezione secondo cui la sterilizzazione del diritto di voto e la necessità di rivendere entro l’anno le azioni acquistate oltre la soglia del trenta per cento comportano (o dovrebbero di regola comportare) l’impossibilità per l’acquirente di conseguire l’effettivo controllo della società quotata; il che farebbe venir meno la ragione per la quale il legislatore ha voluto, attraverso la previsione dell’obbligo di offerta pubblica rivolta agli altri azionisti, assicurare anche a costoro una qualche partecipazione al premio di maggioranza cui dianzi s’è fatto cenno. Richiedere un risarcimento per il mancato conseguimento di tale premio, in una siffatta situazione, si tradurrebbe nella pretesa di un indebito arricchimento. Tale obiezione è stata giudicata non persuasiva. Infatti, non è l’effettivo conseguimento del controllo della società a costituire il presupposto perché sorgano l’obbligo di promuovere l’offerta pubblica ed il correlativo diritto degli interessati a vedersela proporre, bensì il mero fatto che taluno abbia acquistato azioni in misura superiore all’anzidetta soglia, in presenza delle condizioni indicate nel citato art. 106, e per tali azioni abbia pagato (o per legge debba pagare) un prezzo superiore a quello di mercato.
4.9.- L’azionista di minoranza che si sia visto illegittimamente privato della possibilità di aderire ad un’offerta – non proposta – di acquisto delle sue azioni ha quindi il diritto di ottenere il risarcimento del danno subito. La lesione subita, in simili casi, consiste nell’aver perso una possibilità, in sostanza un’opzione d’acquisto, che l’offerta pubblica avrebbe dovuto assicurare e che non è mai invece venuta ad esistenza. 5.- Tale impianto motivazionale espresso da questa Corte a sostegno dell’enunciato principio di diritto è stato diffusamente criticato dalle parti controricorrenti nelle memorie, mediante la riproposizione di argomenti non condivisibili e in gran parte già confutati nelle citate sentenze del 2012.
Si sostiene che perché sorga l’obbligo di offerta pubblica non è sufficiente l’acquisto di una partecipazione superiore alla soglia del trenta per cento, ma è necessario che detta partecipazione, in quanto idonea a conferire diritti di voto, determini un mutamento dell’assetto societario, facendo conseguire all’acquirente l’effettivo controllo all’interno della società. Quando ciò non si verifichi, per effetto del meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 110 t.u.f. che impone la sterilizzazione del diritto di voto e la rivendita delle azioni eccedenti entro dodici mesi, non avrebbe senso parlare di un prezzo di controllo (ovvero di un premio di maggioranza) da attribuire agli azionisti di minoranza, in assenza del trasferimento del controllo in capo allo scalatore. Mancherebbe anche il presupposto causale e sinallagmatico del diritto dei soci di minoranza al profitto contrattuale, cioè al plusvalore implicito nel prezzo d’OPA, in assenza del trasferimento delle azioni allo scalatore (che rimarrebbero in loro possesso) e, quindi, della loro uscita dalla società (diritto di exit). “Insomma – si legge nella memoria Fonsai – senza vendita (e dunque se non c’è acquisto) non c’è corrispettivo d’OPA e senza corrispettivo d’OPA non c’è premio”. Una dimostrazione dell’inesistenza di un diritto al profitto contrattuale è ricavata dall’insussistenza di un obbligo di stipulare il contratto, a sua volta dimostrata dalla sua non eseguibilità in forma specifica, a norma dell’art. 2932 c.c..
5.1.- È indiscutibile ed è necessario ribadire che la promozione dell’OPA al verificarsi dell’acquisto di azioni eccedenti la soglia del trenta per cento, che il legislatore presume idonea al conseguimento del controllo, costituisce oggetto di una obbligazione legale nell’interesse (anche) degli azionisti di minoranza (lo si è già detto nei precedenti p. 4.3, 4.5 e 4.8). La circostanza che non ne sia possibile l’esecuzione in forma specifica ope iudicis, come ritenuto da questa Corte in quanto “difficilmente conciliabile con il meccanismo sanzionatorio legale sopra descritto”, non toglie che di una vera e propria obbligazione si tratti, in quanto nascente da un atto o fatto idoneo a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico (artt. 1173 c.c. e 106 t.u.f.) e avente ad oggetto una prestazione suscettibile di valutazione economica nonché corrispondente all’interesse di ben determinati soggetti (art. 1174 c.c.).
Era quindi diritto degli azionisti di minoranza ricevere l’offerta di acquisto, ad un prezzo determinato secondo legge in misura tendenzialmente superiore a quello di mercato, al fine di esercitare il diritto di autodeterminarsi, cioè di scegliere se rifiutare quell’offerta, preferendo rimanere nella società pure in presenza di una modificazione dell’assetto di controllo, o accettarla con conseguente stipulazione del contratto che avrebbe loro consentito di uscire dalla società e di partecipare all’acquisizione del c.d. premio di maggioranza.
L’approccio minimalista proposto dalla controricorrente Mediobanca, secondo la quale si sarebbe trattato solo di un “tentativo non riuscito di scalata” privo di conseguenze di sorta, non essendosi avuta alcuna modifica degli assetti azionari, trascura di considerare che la mancanza di questa offerta – da intendere evidentemente come irrevocabile – ha fatto sì gli azionisti di minoranza sono stati defraudati del potere ad essi attribuito dalla legge di decidere sulla stipula del contratto. Si tratta (come detto nei precedenti p. 4.6, 4.7 e 4.9) di inadempimento di un obbligo legale (e quindi contrattuale) che ha prodotto come conseguenza prevedibile e, quindi, risarcibile la perdita non di una mera aspettativa di fatto, ma di una chance, cioè di una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato vantaggio, che rappresenta un’entità patrimoniale a sé stante giuridicamente ed economicamente valutabile. Grava sul danneggiato l’onere di provare gli elementi in base ai quali possa riconoscersi a quell’opzione un valore economico effettivo, in relazione ai diversi fattori che possono aver influenzato l’andamento della quotazione di borsa delle azioni di cui si discute nel periodo considerato, tenendo conto dei criteri di determinazione del prezzo dell’offerta pubblica obbligatoria che avrebbe dovuto esser promossa.
Dire che il mancato lancio dell’OPA fa venire meno il diritto degli azionisti di minoranza a concorrere nella spartizione del premio di maggioranza, coglie solo un frammento di verità, neppure rilevante, e cioè che essi non possono vantare un diritto al corrispettivo che avrebbero ricevuto se avessero accettato l’offerta (mancata) e alienato le loro azioni (rimaste invece nel loro possesso). Ma non è questo che essi hanno chiesto nel giudizio, il cui oggetto è invece il risarcimento del danno per la perdita definitiva della possibilità di stipulare quel contratto e, quindi, di partecipare alla spartizione di quel premio di maggioranza. La previsione di sanzioni civili (art. 110 t.u.f.) concorre a “rimediare” al mancato lancio dell’OPA, ripristinando la legalità dell’assetto societario alterato dal comportamento dello scalatore, ma non è evidentemente in grado di reintegrare gli azionisti per la perdita, ormai irreversibile, della possibilità di stipulare il contratto.
Le sentenze del 2012 hanno puntualizzato che il danno risarcibile non coincide in modo necessario ed automatico con il risultato economico della vendita azionaria che si sarebbe verificata se l’offerta vi fosse stata e fosse stata accettata, cioè con la differenza tra il prezzo d’OPA e la quotazione di borsa delle azioni all’epoca in cui l’OPA avrebbe dovuto essere lanciata, perché un conto è la possibilità di stipulare un contratto, altro conto è l’averlo effettivamente stipulato. E poiché le sanzioni civili di cui s’è detto e, in particolare, l’obbligo di rivendita azionaria stabilito dal citato art. 110 hanno la medesima radice causale del diritto al risarcimento del danno spettante agli azionisti di minoranza, defraudati dell’offerta pubblica di acquisto dei loro titoli, è almeno astrattamente possibile ipotizzare un’incidenza di quegli eventi successivi sul valore di borsa dei titoli rimasti nel portafoglio di detti azionisti, in termini di compensatio lucri cum danno ove se ne diano le condizioni. La valutazione della sufficienza delle prove offerte e la concreta individuazione del danno risarcibile competono, ovviamente, al giudice di merito.
6.- Sono quindi accolti il primo e il terzo motivo del ricorso principale; il secondo motivo è assorbito e il quarto è inammissibile perché non investe un autonomo capo decisorio ma un obiter dictum privo di rilevanza, incidentalmente inserito nella sentenza impugnata; i ricorsi incidentali sono rigettati. L’impugnata sentenza della corte d’appello, che non si è attenuta al principio sopra enunciato (al p. 4.1), è cassata con rinvio alla stessa corte d’appello, in diversa composizione, perché riesamini la causa nel merito e provveda anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte, in accoglimento del primo e terzo motivo del ricorso principale, dichiarati assorbito il secondo e inammissibile il quarto motivo, rigettati i ricorsi incidentali, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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