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Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza  14 marzo 2014, n. 12273

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza resa il 18 marzo 2010 il G.U.P. del Tribunale di Catania, all’esito del giudizio abbreviato, dichiarava gli imputati C.R.D. ed S.A.A. colpevoli del delitto di rapina loro contestato al capo A) ed il solo C. anche del delitto di omicidio in danno di Sa.Vi. , e, esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 628 co. 3 n. 2 cod.pen. per la S. , nonché per il C. la circostanza aggravante dell’art. 576 n. 2 cod.pen., riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla circostanza aggravante di cui all’art. 576 n. 1 cod.pen., unificati i reati per continuazione, condannava il C. alla pena di anni undici e mesi quattro di reclusione e la S. alla pena di anni tre e mesi otto di reclusione ed Euro 1.000 di multa.
1.1 Interposto appello avverso detta sentenza da parte del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, la Corte di Appello di Catania con sentenza del 16 luglio 2012, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, che confermava nel resto, affermava la responsabilità della S. anche per il delitto di concorso in omicidio aggravato, che unificava per continuazione con quello di rapina; pertanto, concesse le circostanze attenuanti generiche e quella di cui all’art. 116 cod. pen., dichiarate prevalenti sulle contestate aggravanti, elevava nei suoi confronti la pena inflittale ad anni sei e mesi otto di reclusione e la condannava al risarcimento, in favore della parte civile S.M. , dei danni morali e materiali, da liquidarsi in separata sede.
2. Entrambe le sentenze di merito avevano ricostruito i fatti nel modo seguente. In data (omissis) i Carabinieri di Mascalucia venivano allertati dalle sorelle S.M. ed A.A. , che poco dopo le ore 12.00 avevano scoperto l’effettuazione di una rapina in danno della madre Sa.Vi. , rinvenuta riversa a terra e coperta di sangue nella sua camera da letto quando avevano fatto rientro nell’abitazione dopo essersi recate a fare acquisti in un centro commerciale, accompagnate dal marito della seconda, C.R.D. . A causa del patito ferimento l’anziana vittima era stata ricoverata in diverse strutture ospedaliere sino a che il (…) era deceduta. Espletati accertamenti autoptici e perizia medico-legale, avvalsasi della documentazione sanitaria acquisita in relazione ai periodi di pregressa degenza, era emerso che la morte della Sa. , – già colpita prima del delitto da ictus cerebrale ischemico, che aveva residuato un’emiparesi grave sinistra con prevalenza all’arto superiore -, era stata determinata da causa patologica naturale, consistita nello scompenso emodinamico acuto per massiva trombosi dell’arteria polmonare, innescata però dalla prolungata ospedalizzazione ed immobilizzazione a seguito delle lesioni craniche riportate nel corso della rapina, che ne avevano determinato lo stato tetraplegico, non preesistente al delitto ed esito del concorso nel processo di determinismo causale degli effetti dell’emiparesi già in atto al momento dell’azione criminosa e delle lesioni stesse, cagionate dal rapinatore.
2.1 All’individuazione dei responsabili si era giunti mediante le spontanee dichiarazioni rese da C.R.D. , genero della vittima, il quale, esaminato quale informatore dai Carabinieri due giorni dopo il fatto, aveva riferito che egli, spinto dalla necessità di reperire denaro da restituire al padre, il quale aveva minacciato di far protestare degli assegni tratti a garanzia dalla nuora S.A.A. , col consenso di costei, aveva progettato e realizzato la rapina in danno della suocera, approfittando dell’assenza della cognata M. , attirata fuori di casa col pretesto di effettuare acquisti con la sorella ed il nipotino; egli, dopo averli accompagnati a Catania in un centro commerciale, aveva fatto rientro a (omissis) e, travisato da un casco da motociclista, era entrato nella casa della suocera con le chiavi di cui aveva realizzato una copia tempo prima, aveva affrontato la donna, ma, alle sue grida, preso dal panico, dapprima aveva cercato di farla tacere, ponendole in bocca il lenzuolo del letto, quindi, non riuscito nell’intento, le aveva dato tre o quattro violenti pugni, che l’avevano in qualche modo zittita e gli avevano consentito di rovistare fino a reperire la somma di 3.800,00 Euro, che la cognata aveva riscosso il giorno antecedente dalla vendita di un terreno ed occultato in casa. Si era quindi allontanato dal luogo dopo aver chiuso la porta della stanza ove era rimasta la suocera ferita e si era recato a prelevare moglie, figlio e cognata, la quale, rientrata all’abitazione, aveva con l’aiuto della sorella forzato la porta della camera della madre e le aveva prestato immediato soccorso.
2.2 I giudici di merito ritenevano dunque che il C. avesse agito dolosamente, e non in modo preterintenzionale, per cagionare il decesso della Sa. : costei, che già si era trovata in condizioni di minorata capacità difensiva per età e condizioni di salute, aveva subito l’iniziale occlusione parziale delle vie respiratorie col lembo del lenzuolo e poi i colpi reiterati e violenti infertile in zona vitale, era stata quindi privata del bastone al quale ella era solita appoggiarsi per deambulare e rinchiusa dall’esterno nella stanza ove era rimasta ferita a terra, il tutto per impedirle di risollevarsi e chiedere aiuto ai vicini di casa, mentre le esigenze di neutralizzazione per realizzare la rapina avrebbero potuto essere assecondate con modalità meno lesive e cruente.
2.3 Quanto alla posizione di S.A.A. , sulla scorta di quanto dichiarato dal C. e delle conversazioni intercettate in carcere durante un colloquio tra gli stessi, quando entrambi erano stati sottoposti a custodia cautelare, il primo giudice riteneva che costei fosse stata consapevole e concorrente nella rapina ordita dal marito, al quale aveva riferito l’avvenuto incasso del denaro da parte della sorella, quale partecipe alla sua ideazione ed esecuzione mediante il mirato allontanamento della sorella dall’abitazione ove la madre era rimasta sola; ciò nonostante escludeva dovesse rispondere anche dell’omicidio a titolo di concorso anomalo ai sensi dell’art. 116 cod. pen., in quanto le circostanze del caso concreto – l’uso delle mani per colpire la vittima, l’assenza di strumenti atti ad offendere, la disponibilità di nastro adesivo per impedire alla suocera di gridare, le sue condizioni già defedate, che rendevano ipotizzabile la necessità di un minimo uso della forza contro la sua persona-, non le avevano permesso di rappresentarsi l’eventuale realizzazione del delitto più grave, rivelatosi sviluppo imprevedibile dell’azione criminosa concordata e voluta. Per contro, la Corte di Appello, respinta l’eccezione formulata dalla sua difesa circa la tardiva proposizione dell’appello da parte del P.M., riteneva che, proprio perché la rapina era stata programmata da tempo, per non essersi l’imputata opposta al progetto del marito, ma avervi anzi cooperato attivamente anche nel tentativo di sviare i sospetti immediatamente insorti nella sorella all’atto di fare rientro a casa per la presenza di vaschette di plastica nell’area ove si erano trovati i cani, per la consapevolezza del fatto che il marito aveva condotto con sé del nastro adesivo per impedire alla vittima di gridare ed attirare l’attenzione dei vicini, già di per sé indicativa del previsto uso della violenza, e per la raccomandazione rivoltagli di non fare del male alla madre, delle cui condizioni di salute e limitazioni alla capacità difensiva era stata conscia, avendo quasi completato gli studi universitari in medicina e lavorato nel settore, si era rappresentata la possibilità che il complice arrecasse un danno fisico all’anziana e malata genitrice sino a cagionare l’evento letale.
2.4 I giudici di appello respingevano anche le doglianze difensive circa l’insussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 628 cpv. n 1 cod. pen. per la consapevolezza della S. delle esigenze di travisamento del marito per non farsi riconoscere dalla suocera e circa le condizioni mentali compromesse della stessa, tali da integrare il vizio totale o parziale di mente al momento del fatto: nonostante quanto attestato dai consulenti tecnici di parte, circa lo sviluppo nell’imputata a seguito di un sinistro stradale, avvenuto nel 2003, di disturbi depressivi e di personalità dipendente, escludevano un disturbo di personalità di valenza psichiatrico-forense per la genericità dei giudizi, espressi in termini possibilistici dai consulenti, per l’eventualità che la depressione fosse insorta dopo gli eventi, la detenzione ed il decesso della madre e per la considerazione dell’atteggiamento processuale della donna, indottasi a confessare un ruolo, peraltro marginale nella vicenda, soltanto dopo le ammissioni del marito.
3. Avverso detta sentenza gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori hanno proposto separati ricorsi per chiederne l’annullamento.
3.1 Il C. ha dedotto violazione di legge, mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione all’affermata sussistenza del nesso causale tra l’azione lesiva e l’evento morte della vittima. Secondo il ricorrente, non avrebbe dovuto essere disattesa la tesi difensiva, secondo la quale il perito incaricato nel corso del giudizio di primo grado aveva omesso di prendere in considerazione che lo stato di immobilizzazione della Sa. era preesistente alla rapina, dal momento che le dichiarazioni interessate della coimputata, inserite nella denuncia del 27/7/2009, erano state oggetto di travisamento della prova, come lo erano state le informazioni fornite dalla parte civile S.M. sulle pregresse condizioni della madre, già in precedenza costretta a rimanere a letto per i postumi dell’ictus, quindi incapace di deambulare autonomamente, priva di terapia riabilitativa, non assistita nemmeno dalla figlia M. , a sua volta in condizioni psicofisiche non ottimali e non in grado di aiutarla ed affetta già in precedenza da problemi respiratori. La mancata valutazione di tali risultanze avrebbe imposto la rinnovazione della perizia; inoltre, i rilievi sull’ininfluenza dell’eventuale peggioramento delle condizioni della vittima dopo il luglio 2009 erano privi di giustificazione in base a dati scientifici e non tenevano conto dei rilievi del consulente della difesa sulla valenza causale autonoma del quadro biopatologico della vittima, preesistente al delitto.
3.2 S.A.A. ha rappresentato:
a) inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di decadenza in relazione al disposto dell’art. 585, co. 1 lett. c) e dell’art. 570 cod. proc. pen., 2 L. 742/69 per il rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello proposto dal PM, tardivo per essere stato depositato il 9 agosto 2011, oltre il termine di decadenza disposto dall’art. 585 co. 1 lett. c): poiché il termine per il deposito della impugnazione era scaduto in data 31 luglio, giorno festivo, lo stesso era stato prorogato di diritto al giorno successivo 1 agosto, primo giorno di sospensione feriale protrattasi da allora sino al 15 settembre, sospensione di cui però non avrebbe potuto beneficiare l’ufficio della Procura, ma soltanto la difesa, essendo funzionale a consentire agli esercenti la professione forense la fruizione del periodo di riposo annuale.
b) Vizio di motivazione in riferimento alla corretta applicazione dell’art. 533 cod. proc. pen.: il principio che esige il verdetto di condanna soltanto per effetto del superamento di ogni ragionevole dubbio, valevole anche nel giudizio abbreviato, avrebbe dovuto inibire il sovvertimento della pronuncia di assoluzione dal delitto di omicidio, che implica la certezza dell’innocenza, oppure il relativo dubbio, e la riforma della sentenza di primo grado in base alla valutazione dello stesso materiale probatorio, dovendosi piuttosto fondare su elementi dotati di effettiva efficacia persuasiva in grado di eliminare ogni margine di dubbio. Tali principi erano stati violati dalla sentenza impugnata, la quale era pervenuta all’affermazione della colpevolezza della S. sulla base della sola diversa interpretazione della richiesta, rivolta al correo, di non fare del male alla vittima designata, mentre il compendio probatorio era rimasto immutato e la diversa considerazione, espressa dalla Corte di Appello, riguardava un dato fattuale privo di efficacia scardinante il ragionamento operato dal primo giudice ed incapace di eliminare qualsiasi profilo di dubbio, mentre era stato ignorato il comportamento tenuto dal C. , che immotivatamente e senz’alcuna necessità aveva colpito più volte l’anziana a mani nude così interrompendo il nesso causale previsto e preventivabile dalla correa.
c) Erronea applicazione della legge penale in relazione al disposto degli artt. 116 e 575 cod. pen.: mentre il GUP aveva rilevato che il delitto concordato, nelle modalità concrete dell’accadimento, non poteva prevedibilmente trasmodare nel delitto di omicidio per non avere richiesto l’esercizio di alcuna forma di coazione fisica contro la vittima, le cui condizioni cliniche escludevano potesse opporre resistenza, potendo al più richiedere il suo imbavagliamento per un breve lasso di tempo, mentre tale dinamica nei fatti era stata sovvertita dalla violenta aggressione fisica posta in essere dal C. , fatto certamente atipico, non necessario e non funzionale alla perpetrazione del fatto, quindi non prevedibile dalla concorrente nel reato, la Corte di Appello aveva inteso il canone della prevedibilità come logica conseguenza dell’agire, come mero giudizio possibilistico, mentre deve riguardare quanto in concreto le circostanze rivelano.
d) Mancanza contraddittorietà, e manifesta illogicità della motivazione in relazione al giudizio di responsabilità per il reato di cui al capo A) della rubrica, confermato a titolo di concorso pieno sulla base delle argomentazioni della sentenza di primo grado, senza considerare alcuni temi posti dalla difesa, quali la manifestata resipiscenza dal proposito iniziale, desumibile dalla mancata rivelazione del nascondiglio del denaro e dalle conversazioni intercettate; lo stato di incapacità di intendere e volere, attestato dalle consulenze di parte, disattese con ragionamento qualunquistico e privo di valenza scientifica, mentre si sarebbe dovuti ricorrere ad una perizia.
e) Erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 114 cod. pen. per il ruolo marginale ed il minimo apporto causale offerto dall’imputata alla realizzazione della rapina, limitatosi ad attirare la sorella fuori di casa per dar modo al marito di compiere l’azione.
f) Erronea applicazione della legge penale in riferimento all’art. 628 cod. pen., comma 2 n. 1: l’utilizzo del casco da motociclista da parte dell’esecutore materiale non rientrava nell’accordo raggiunto con la coimputata e quindi ne era ignara, così come aveva ignorato le modalità realizzative del piano concordato.

Considerato in diritto

Il ricorsi sono entrambi privi di fondamento e vanno respinti.
1. Per ragioni di priorità logica, prima ancora che giuridica, va affrontato in via preliminare il primo motivo di gravame proposto da S.A.A. . Ritiene questa Corte di dover confermare la decisione della Corte territoriale che ha ritenuto ammissibile sotto il profilo della sua tempestività l’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, ancorché depositato in data 9 agosto 2011: premesso che non sussistono profili di contrasto in ordine all’individuazione dei presupposti fattuali della questione, né sulla intervenuta proroga al successivo giorno non festivo del termine per impugnare, perché venuto a scadenza il 31 luglio, che quell’anno era festivo, non si ritiene di poter condividere l’assunto propugnato dalla difesa, secondo il quale la sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, compreso tra 1 agosto e 15 settembre di ciascun anno, non potrebbe operare a vantaggio della parte pubblica, ma soltanto di quella privata, unica nei confronti della quale può realizzarsi la finalità, propria dell’istituto della sospensione, di consentire agli esercenti attività legale libero-professionale di fruire del periodo di riposo annuale, grazie all’esenzione dall’obbligo di rispettare termini previsti per lo svolgimento di attività processuale, che vengano a scadenza nel periodo coincidente con quello feriale.
1.1 A tale argomentare deve opporsi in primo luogo che la disciplina dei termini per proporre impugnazione, contenuta nell’art. 585, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen., non contiene previsioni differenziate, destinate ad essere applicate in dipendenza della natura pubblica o privata della parte del processo, ma, al contrario, introduce una disciplina generalizzata, valevole per tutte indistintamente le parti, sicché in modo altrettanto eguale esse si giovano della sospensione dei termini durante il periodo feriale, nel senso che, come affermato da costante orientamento di questa Corte, “il termine entro il quale il giudice è tenuto a redigere la motivazione della sentenza a norma dell’art. 544 comma secondo cod. proc. pen. non è soggetto alla disciplina della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale. Il deposito della sentenza, in periodo feriale, nel prescritto termine fissato dalla legge o dal giudice, tiene luogo di notifica per il P.M. e per gli imputati non contumaci. Pertanto è dalla scadenza di tale termine, che, in base al meccanismo automatico del nuovo codice, incomincia a decorrere, per dette parti il pedissequo termine di impugnazione che è soggetto a sospensione in periodo feriale” (Cass. sez. 6, n. 613 del 26/10/1995, D’Agostino ed altri, rv. 203370; sez. 6, n. 8046 del 08/05/1995, Valente ed altri, rv. 202030; sez. 4, n. 41834 del 27/06/2007, Fiaschetti e altri, rv. 237983). Tale orientamento è stato confermato anche in tempi più recenti dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 155 del 29/09/2011, Rossi e altri, rv. 251495, la quale, nel risolvere in senso positivo un contrasto tra sezioni semplici in ordine alla possibilità che sia prorogato il momento di decorrenza del termine per impugnare in conseguenza della proroga di diritto del giorno festivo a quello immediatamente successivo non festivo, nel quale si sia verificata la scadenza del termine assegnato per il deposito della motivazione della sentenza, ha anche affermato che questo slittamento automatico del termine finale e di quello iniziale per il compimento dell’attività processuale successiva, ossia il deposito dell’atto di impugnazione, non si verifica quando “ricorrano cause di sospensione quale quella prevista per il periodo feriale che, diversamente operando per i due termini, comportino una discontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolarsi l’inizio del secondo”. Con ciò si è sostenuto che quest’ultimo inizierà a decorrere dalla cessazione del periodo di sospensione feriale, senza che le Sezioni Unite abbiano introdotto distinzioni per l’esercizio della facoltà di impugnazione spettante al P.M., avendo soltanto escluso, rispetto alle parti paritariamente intese ed accomunate nella soggezione allo stesso meccanismo di operatività dei termini per impugnare, la diversa posizione del giudice che deve redigere la motivazione, non ammesso a fruire della sospensione.
2. Ribadita dunque la tempestività e quindi la piena ammissibilità dell’appello del P.M., si ritiene di dover disattendere l’unico motivo di gravame articolato dal C. per contestare la sussistenza del nesso di causalità fra le lesioni cagionate alla Sa. nel corso della rapina ed il suo decesso, questione la cui valenza si estende anche per la posizione della coimputata. Il tema è stato affrontato e risolto dalle due sentenze di merito con una disamina attenta e ragionevole dei dati probatori, offerti dalla documentazione sanitaria, dai reperti anatomo-isto-patologici, dalla consulenza dell’accusa e dalla perizia medico-legale, al cui espletamento era stata condizionata l’istanza di ammissione al rito abbreviato.
2.1 Dalla compiuta disamina delle diagnosi stilate dai sanitari in occasione dei periodi di ricovero ospedaliero della Sa. antecedenti al delitto ed in particolare da quella redatta il (OMISSIS) , quindi un mese e mezzo prima dei fatti, all’atto delle dimissioni dal centro di riabilitazione motoria ove era stata assistita per i postumi di ictus cerebrale ischemico, si è desunto che la stessa, per quanto tuttora in condizioni generali mediocri, affetta da ipotonia all’arto inferiore sinistro, richiedente aiuto massivo per tutti i passaggi posturali ed i trasferimenti, non potendo da sola mantenere la posizione eretta e riuscendo a muoversi soltanto con l’ausilio del deambulatore ascellare e di un operatore per tragitti più lunghi, al momento della rapina non si era trovata in condizioni di permanente allettamento, né si era già innescata quella sindrome specifica che avrebbe determinato le complicanze polmonari, conducendola poi a morte per cause patologiche naturali.
Si è ritenuto che l’anziana e sofferente signora, per quanto in serie difficoltà nei movimenti, non fosse permanentemente costretta a giacere supina a letto, tanto da avere disposto di un bastone al quale appoggiarsi per i brevi trasferimenti e da riuscire a stare seduta, mentre soltanto per le lesioni craniche riportate in conseguenza dei violenti pugni del C. era stata ridotta in condizioni di tetraplegia, che avevano dato luogo a serie difficoltà respiratorie, alla necessità di praticarle tracheotomia e di applicarle un sondino per alimentazione e le avevano provocato gravi piaghe da decubito.
2.2 Le conclusioni raggiunte circa la determinazione mediante l’aggressione del 26 settembre di un nuovo e più grave quadro patologico, caratterizzato dalla paresi degli arti inferiori e superiori e quindi dalla completa immobilità della persona offesa, che, pur innestatosi su uno stato morboso pregresso, per la sua progressiva ingravescenza ne avrebbe determinato quale concausa il decesso dopo qualche mese, sono rispettose, sia dei giudizi scientifici acquisiti dal consulente dell’accusa e dal perito, sia degli orientamenti interpretativi richiamati dai giudici di merito, sicché resistono alle obiezioni riproposte con il ricorso.
2.2.1 Al riguardo i giudici di appello hanno rilevato in punto di fatto che la tesi difensiva, secondo la quale la Sa. era costretta a letto in via permanente già da mesi prima della rapina, non tiene conto del fatto che ella disponeva di un bastone quale sostegno, che proprio il C. si era premurato di toglierle per impedirle di spostarsi e chiamare i soccorsi, conscio dunque dell’effettiva possibilità per la suocera di farne uso, e che dopo l’aggressione ella era riuscita ad uscire da sola dal letto per poi cadere a terra, il che conferma in modo inconfutabile l’assenza di tetraplegia. Si è, inoltre, opposto che all’atto del ricovero del 26 settembre non erano state riscontrate dai sanitari, né le gravi complicanze respiratorie che sarebbero insorte mesi dopo, né le piaghe da decubito evidenziate nel referto autoptico, notoriamente primo effetto in chi sia costretto a rimanere a letto anche per periodi limitati, elementi che confermano come l’anziana fosse stata in grado, seppur con l’aiuto di altri, di alzarsi, sedersi e muovere alcuni passi. Se, al contrario, fosse stata effettivamente relegata in un letto da mesi, i sanitari avrebbero dovuto riscontrare quelle piaghe da decubito, poste in evidenza poi all’atto dell’autopsia, quando cioè l’allettamento si era protratto per oltre quattro mesi.
2.2.2 Il Collegio di merito ha anche rilevato come, né la denunzia sporta da S.A.A. contro Cu.Ma. in data 27/7/2009 per una pretesa circonvenzione di incapace, risultata del tutto insussistente, né le dichiarazioni del 26/9/2009 dopo il fatto, avevano rappresentato le condizioni fisiche della di lei madre in termini di totale incapacità di intendere e volere e di permanente allettamento; parimenti, anche le dichiarazioni rese ai Carabinieri da S.M. l'(OMISSIS) nell’ambito delle indagini scaturite dalla denunzia della sorella, e stessa denuncia sporta, prodotte in allegato al ricorso, riferiscono come la madre di recente non deambulasse, ma senza indicarne lo stato tetraplegico. Ed anche il referto radiografico redatto dopo il ricovero all’esito della rapina evidenzia come la paziente fosse affetta da polmonite e da cerebrovasculopatia, oltre che da emiparesi all’arto superiore sinistro, il che non contraddice le conclusioni adottate dai giudici di merito, avvalorate dalle considerazioni peritali, circa l’incidenza concausale delle lesioni infertele a cagionarne il decesso, avendo esse determinato emorragia e tetraplegia, che hanno peggiorato il suo quadro generale e determinato il permanente l’allettamento, dal quale è derivata la flogosi polmonare, quindi la polmonite franca ed, infine, la trombosi dell’arteria polmonare.
Resta quindi escluso che il giudizio peritale sia inficiato dall’omessa considerazione delle condizioni pregresse della vittima o da errori nella valutazione della documentazione sanitaria disponibile, tali da richiedere l’espletamento di ulteriore approfondimento mediante una nuova perizia. Del resto il ricorrente si è limitato a censurare l’omessa valutazione da parte della Corte di Assise di Appello delle diverse conclusioni rassegnate dal consulente tecnico della difesa, secondo il quale il decesso sarebbe riconducibile in via autonoma al quadro patologico pregresso all’aggressione, ma non ha illustrato specifici e risolutivi profili fattuali e scientifici, capaci di avvalorare tale assunto e di smentire quello propugnato nella sentenza impugnata.
2.2.3 Né è riscontrabile la manifesta illogicità del rilievo, secondo il quale, a volere ritenere che le condizioni della Sa. fossero regredite dopo il rientro nell’abitazione anche per l’incapacità della figlia convivente di darle adeguata assistenza, ciò non sarebbe sufficiente ad escludere il nesso causale tra aggressione e morte, posto che le lesioni craniche cagionate avevano accelerato il decorso sfavorevole dei processi patologici in atto sino all’esito letale.
2.2.4 In tal modo i giudici di merito hanno offerto corretta applicazione, fornendone congrua giustificazione, delle disposizioni di cui agli artt. 40 e 41 cod.pen., secondo le quali, nell’accertamento del nesso di causalità, l’operatività della causa sopravvenuta o preesistente in grado da sé di cagionare l’evento, secondo quanto previsto dall’art. 41 cod.pen., comma 2, non si apprezza solo in caso di un processo causale del tutto autonomo, perché in tal situazione la relazione tra causa ed evento sarebbe già affermata in base alla regola generale del primo comma dell’art. 41 citato, che postula il principio condizionalistico o dell’equivalenza delle cause; essa sussiste anche a fronte di un processo non completamente estraneo all’antecedente, ma “sufficiente” a determinare l’evento, nel senso che, in tal caso, la condotta dell’agente degrada da causa a mera occasione dell’evento. Ciò si verifica allorquando sussista una causa sopravvenuta che, pur ricollegandosi causalmente all’azione o all’omissione dell’agente, si presenta con carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia come un fattore che non si verifica, se non in casi del tutto imprevedibili, a seguito della causa presupposta. L’apprezzamento sulla natura eccezionale ed imprevedibile del fatto sopravvenuto è accertamento devoluto al giudice di merito che deve logicamente motivare il suo convincimento sul punto (sez.4, n. 39617 del 11/7/2007, Tamborini, rv. 237659, sez. 4, n. 13939 del 30/01/2008, Bauwens e altro, rv. 239593).
Nella giurisprudenza di legittimità, si è altresì affermato che non possono essere considerate cause preesistenti o sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento, ai fini della riconoscibilità del nesso di causalità, quelle che abbiano operato in sinergia con la condotta dell’imputato, quando, nell’assenza di una o delle altre, non si sarebbe verificato l’evento antigiuridico (Cass., sez. 5, 13.2.2002, n. 13114, P.G. in proc. Izzo, rv. 222055; sez. 5, n. 11954 del 26/01/2010, Palazzolo, rv. 246549; sez. 5, n. 15220 del 26/01/2011, Trabeisi e altri, rv. 249967; sez. 1, n. 43367 del 27/10/2011, Calderon Silva, rv. 250985).
Nel caso in esame ritiene la Corte che, a fronte delle lesioni personali seguite dal decesso della vittima dell’azione delittuosa, l’eventuale presenza di polmonite o di altra malattia respiratoria, che abbia concorso nella causazione della morte, non elide il nesso di causalità tra la condotta lesiva dell’agente e l’evento, posto che essa non lo ha prodotto in modo autonomo e indipendente rispetto al comportamento delittuoso, il quale, con le lesioni craniche, infette persona anziana, debilitata ed a mobilità già fortemente ridotta, ha cagionato l’emorragia e quindi la tetraplegia, fenomeni non costituenti un fatto atipico ed imprevedibile, ma inseritisi nella serie causale originata dall’azione offensiva, rispetto alla quale hanno rappresentato un momento di normale evoluzione, sicché le patologie polmonari pregresse non realizzano quella situazione di sufficienza della causa intervenuta a determinare l’evento, dalla quale il legislatore fa dipendere l’esclusione del rapporto di causalità.
3. L’impugnazione proposta nell’interesse dell’imputata S. pone molteplici questioni. In primo luogo contesta la stessa ammissibilità di un verdetto di condanna, di totale riforma di quello espresso nel grado antecedente, in ordine alla partecipazione al delitto di omicidio a titolo di concorso anomalo.
3.1 Non si ignora che la censura si fonda su un orientamento interpretativo, espresso in plurime pronunce di altre sezioni di questa Corte di legittimità (sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, rv. 251066; sez. 6, n. 4996 del 26/10/2011, Abbate, rv. 251782; sez. 2, n. 27018 del 27 marzo 2012, Urciuoli rv. 253407; sez. 6, n. 46847 del 10/7/2012, Aimone, rv. 253718; sez. 6, n. 1266 del 10/10/2012, Andrini, rv. 254024; sez. 6, n. 8705 del 24/1/2013, Farre, rv. 254113), le quali, oltre ad avere ribadito principi già affermati dalle Sezioni Unite (n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, rv. 226092 e n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, rv. 231679) circa il pregnante onere di motivazione che grava sul giudice di appello che riformi un verdetto assolutorio, reso all’esito del giudizio di primo grado, sulla base di una divergente valutazione del materiale probatorio acquisito, ritengono non consentita dall’ordinamento, e quindi illegittima sotto il profilo del difetto di motivazione ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1 lett. e), la pronuncia che affermi la responsabilità dell’imputato già assolto per effetto di conclusioni opposte, plausibili, ma non dotate di maggiore forza persuasiva, ricavate dal ragionamento probatorio condotto sugli stessi elementi, in quanto tale operazione si pone in contrasto con l’attuale formulazione della norma del primo comma dell’art. 533 cod. proc. pen., che pretende la condanna solo se sia stato risolto ogni ragionevole dubbio sulla responsabilità dell’imputato.
3.2 L’affermazione di principio è sorretta dal rilievo, secondo il quale l’assoluzione costituisce soluzione decisoria obbligata, sia quando venga acquisita prova certa dell’innocenza, sia a fronte della non certezza della colpevolezza; pertanto, per sovvertire tale statuizione iniziale non è sufficiente proporre da parte del giudice di appello una lettura alternativa degli stessi elementi di prova, ma occorre fare ricorso ad “argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza. Non basta, insomma, per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece, come detto, una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto” (in questi termini sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, rv. 251066).
3.3 Ebbene, l’applicazione al caso di specie dei superiori principi, che non s’intende porre in discussione, prova che la sentenza impugnata non è pervenuta al verdetto di condanna in ordine al delitto di concorso in omicidio a carico della S. , pur in presenza di un ragionevole dubbio; al contrario, i giudici di appello, dopo avere esaminato gli argomenti in forza dei quali il G.U.P. aveva escluso la possibilità che l’imputata avesse previsto l’evento letale quale conseguenza della rapina ideata ed attuata col marito, ha dimostrato con puntuali rilievi la contraddittorietà della motivazione e della decisione. Invero, premessa la condivisione del giudizio di piena partecipazione dell’imputata al delitto di rapina, la Corte di Assise di Appello ha preso in esame, non soltanto lo stesso compendio probatorio ottenuto dalle indagini preliminari, ma ha anche considerato quanto emerso sulla personalità della S. , sulla sua storia personale e persino i giudizi espressi dai suoi consulenti della difesa in ordine alla sua imputabilità, asseritamente compromessa al momento del fatto, in ciò ampliando la piattaforma valutativa dalla quale ha tratto il proprio convincimento.
3.3.1 Ha quindi evidenziato che i due complici avevano da tempo preventivamente programmato la rapina, tanto che il C. si era già munito di copia delle chiavi dell’abitazione della suocera, previa sottrazione alla cognata, che si era effettivamente avveduta della loro sparizione, ma non aveva potuto ricollegarla al progetto criminoso dei congiunti e che tale programma era diventato concreto quando quest’ultima aveva incassato il denaro della vendita di un terreno e la S. aveva informato il marito della conservazione della somma presso l’abitazione della madre e della sorella. L’assenza di informazioni circa il nascondiglio prescelto, non rivelato alla S. dalla sorella, aveva richiesto necessariamente un’attività di ricerca all’interno della casa nella condivisa consapevolezza della presenza della Sa. , che si era trovata coricata a letto, ma non incapace di percepire quanto accadeva attorno a lei, e, per quanto non in grado di contrastare fisicamente un intruso, non era del tutto immobilizzata ed inoffensiva, ma aveva conservato la capacità di reagire, di riconoscere e di gridare, cosa che avrebbe potuto allertare i vicini. La sentenza trae tale considerazione dalla stessa condotta pacificamente tenuta dal C. , presentatosi travisato proprio per non essere riconosciuto da colei che aveva ancora sufficienti facoltà mentali per farlo e con arnesi da scasso e nastro adesivo per forzare eventuali chiusure di porte ed armadi alla ricerca del denaro e per zittire eventuali strepiti della vittima; rileva quindi come lo stesso G.U.P. nella sentenza di primo grado avesse osservato “sebbene i due indagati non fossero intenzionati a pone in essere condotte altamente lesive nei confronti della parte offesa, non poteva essere escluso dagli stessi, stante la consapevolezza della presenza in casa dell’anziana donna un seppur minimo uso della forza al fine di stroncare eventuali reazioni della vittima, che avrebbero potuto vanificare la riuscita dell’impresa criminosa” e quindi come fossero rientrati nell’ambito della loro comune rappresentazione anche i possibili ulteriori sviluppi dell’azione, implicanti forme di coercizione in danno della persona offesa.
3.3.2 Sulla base di tali premesse va condiviso il rilievo, contenuto nella sentenza in verifica, circa la contraddittorietà delle conclusioni cui era approdato il primo giudice con l’esclusione della responsabilità della S. per il concorso anomalo nell’omicidio della madre, responsabilità che è stata affermata dai giudici di appello in considerazione, non soltanto della prevedibilità dell’evento infausto mediante la c.d. prognosi postuma, ma anche della sua concreta previsione da parte dell’imputata, in quanto costei, quando aveva a malincuore aderito all’idea della rapina, aveva avuto ben presente le precarie condizioni di salute della madre e compreso e saputo che sarebbe bastato poco per farle del male e ciò anche grazie alle sua preparazione scolastica per avere quasi ultimato gli studi di medicina e lavorato nel settore sanitario. Proprio il possesso di cognizioni mediche superiori alla norma e la consapevolezza che l’anziana madre si sarebbe trovata sola ed indifesa ad affrontare la ruberia, l’avevano indotta a rivolgere al marito la richiesta di non fare male alla mamma, riferita sia dal C. nel suo interrogatorio, sia ricordata nel corso delle conversazioni intercettate: ma ciò implica, come sostenuto dai giudici di appello e riconosciuto anche dal G.U.P., l’avvenuta prefigurazione che la rapina, per l’uso della violenza, avrebbe potuto comportare conseguenze pregiudizievoli per la madre anche sul piano fisico, non volute certamente, ma prevedibili ed in concreto previste, quindi non verificatesi per effetto di un comportamento anomalo, eccezionale, svincolato dalle premesse note ed accettate dell’azione, né posto in essere dal coimputato in modo improvviso e non immaginabile.
3.3.3 In tal modo il verdetto di colpevolezza sovverte quello assolutorio con una considerazione condotta sulla base, non già di elementi astratti e generalizzanti, ma della concreta situazione operativa e conoscitiva della ricorrente e delle sue stesse preoccupazioni per le sorti della madre, ossia facendo ricorso a quello stesso metro valutativo propugnato dal primo giudice, ma applicato con esiti contraddittori rispetto alle premesse sia fattuali, che giuridiche, poste nella sua pronuncia; la differente decisione, raggiunta in appello, è dunque legittima anche alla luce del canone di giudizio dell’art. 533 cod. proc. pen., perché consequenziale a dati conoscitivi certi e corredata da congrua giustificazione, espressa secondo un procedimento logico, corretto e compiuto.
3.3.4 I giudici di appello hanno, inoltre, offerto corretta applicazione dell’interpretazione dell’istituto del concorso anomalo, formulata da questa Corte di Cassazione ed invocata anche con l’impugnazione, secondo la quale la configurabilità della fattispecie descritta dall’art. 116 cod. pen. presuppone l’esistenza di un accordo tra più soggetti al fine di commettere un reato concordemente voluto, la concreta commissione di un reato diverso e più grave di quello concordato da parte di uno o più dei concorrenti, il nesso di causalità materiale fra la condotta attiva o omissiva del reato programmato ed il diverso evento di maggiore gravità realizzato, il rapporto di causalità psicologica fra le azioni degli autori di entrambi i reati.
3.3.4.1 Va detto che l’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale delle linee interpretative dell’istituto è approdata ad escludere che la norma di cui all’art. 116 cod. pen. contempli un’ipotesi di responsabilità oggettiva, non consentita dal principio di colpevolezza ricavabile dalla regola generale della personalità della responsabilità penale, sancita dall’art. 27 Cost., comma 1 (Corte Cost., sent. n. 42 del 13/5/1965; sent. n. 364 del 1988 cit.; Cass. sez. 5, n. 39339 del 08/07/2009, Rizza, rv. 245152; sez. 2, n. 10098 del 15/01/2009, Serafin, rv. 243303; sez. 6, n. 20667 del 12/02/2008, Scambia e altro, rv. 240060; sez. 5, n. 10995 del 25/10/2006, Ciurlia e altro, rv. 236512), quanto una fattispecie, punita a titolo di responsabilità intenzionale rispetto alla condotta criminosa voluta e meno grave ed a titolo di colpa rispetto al diverso e più grave reato in concreto consumato, prevedibile, facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto ed alla personalità del concorrente, della dovuta diligenza.
3.3.4.2 L’evento più grave e diverso del compartecipe deve dunque porsi come uno sviluppo logicamente prevedibile, da parte di un soggetto di normale intelligenza e di cultura media, quale possibile conseguenza della condotta prestabilita secondo regole di ordinaria coerenza dello svolgersi dei fatti umani, non interrotta dall’intervento di fattori accidentali ed imprevedibili. Pertanto, l’applicabilità della regola di cui all’art. 116 cod. pen. resta subordinata alla ricorrenza di due limiti negativi: l’evento diverso non deve essere stato in alcun modo voluto, nemmeno a livello di dolo alternativo o eventuale, perché in tal caso il soggetto dovrebbe risponderne quale concorrente ai sensi dell’art. 110 c.p. (Cass. sez. 1, n. 12610 del 07/03/2003, Benigno, rv. 224084) e l’evento più grave non deve essersi verificato per effetto di fattori eccezionali sopravvenuti, non conosciuti, né conoscibili e quindi imprevedibili dall’agente e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base. Per quanto già ampiamente esposto, l’istituto ha ricevuto corretta e ben motivata applicazione, il che consente di disattendere le pur pregevoli obiezioni difensive.
4. Non ha fondamento nemmeno il quarto motivo di gravame proposto nell’interesse della S. : la motivazione delle due conformi pronunce di merito ha evidenziato solidi argomenti per configurare il pieno concorso della ricorrente nella condotta concorsuale di rapina aggravata in danno della madre, tali da resistere alle serrate critiche difensive.
4.1 In primo luogo non vi è prova dell’effettivo dissenso e della manifestata resipiscenza della donna al progetto criminoso del marito, dal momento che, come ampiamente descritto nelle sentenze in verifica, ella aveva fornito un apporto conoscitivo ed operativo essenziale per la realizzazione del piano, – che è emerso con chiarezza dai dialoghi intercettati, ove alle obiezioni del marito aveva finito per ammettere di avere saputo e di aveva condiviso lo stesso proposito, e dalle ammissioni del C. -, dapprima informando costui dell’avvenuto incasso da parte della sorella del denaro, ricavato dalla vendita di un terreno e della sua conservazione presso l’abitazione condivisa con la madre, poi cooperando col complice nel distrarre la sorella ed allontanarla da detta abitazione, al punto da avere rinunciato a prendere parte al matrimonio di un’amica per consentirgli di penetrare nell’edificio senza incontrare ostacoli. Che poi non avesse rivelato il nascondiglio del denaro risulta frutto, non dell’intento di impedire la rapina, ma della mancata conoscenza di tale particolare, posto che ella non viveva con le congiunte.
4.2 Si è sostenuto che la S. sarebbe stata affetta da incapacità d’intendere e volere, secondo quanto esposto nelle consulente tecniche di parte, ove si era evidenziato il disturbo depressivo maggiore manifestatosi dal 2003 ed il disturbo da personalità dipendente, dai quali la ricorrente sarebbe stata affetta al momento del delitto ed in quello della conversazione intercettata in carcere, perché del tutto succube del coniuge; anche sul punto la sentenza impugnata offre un corredo motivazionale del tutto congruo, logico e privo di quelle carenze segnalate col ricorso.
4.2.1 I giudici di appello hanno ritenuto generica la deduzione di disturbi depressivi, perché priva della descrizione dei caratteri che ne consentissero la catalogazione secondo le categorie ufficiali del DSM IV, caratteri soltanto elencati nella consulenza di parte in assenza della precisa affermazione della loro incidenza negativa sull’imputabilità della S. e la relativa diagnosi era stata effettuata soltanto in epoca successiva ai fatti, circostanza che autorizzava a ritenerne l’insorgenza o l’aggravamento in dipendenza dagli stessi e delle misure cautelari applicatele.
4.2.2 Il ricorso non si sottrae alla medesima carenza argomentativa, dal momento che non propone uno specifico inquadramento noseologico delle pretese patologie dalle quali sarebbe stata affetta la ricorrente, si limita a sostenere il “peso importante”, ma non ben definito, del suo quadro clinico psicologico nel suo coinvolgimento nelle vicende giudicate e nel rendere le dichiarazioni intercettate, non indica elementi dai quali ritenere che il suo stato disturbato fosse emerso e fosse stato oggettivizzato ben prima dei fatti, quindi censura le valutazioni espresse nella sentenza di merito sol perché contrarie ai giudizi espressi dagli psichiatri e psicologici che hanno assistito la S. nella difesa tecnica, perché non supportate da accertamento peritale ed asseritamente elusive del tema dell’incidenza sull’imputabilità dei disturbi di personalità.
È agevole replicare che la richiesta di ammissione al giudizio abbreviato non era stata condizionata all’espletamento di perizia, il che rendeva tardiva la relativa istanza avanzata con i motivi di appello, senza che ciò fosse dipeso da circostanze non imputabili alla volontà della parte ed alla sua diligenza, posto che nessuna garanzia sussisteva del recepimento dei giudizi formulati dal consulente tecnico della difesa, e che nessuna norma giuridica impone al giudice di merito di procedere all’integrazione probatoria chiesta da una delle parti private, rientrando tale attivazione nei suoi poteri discrezionali; infatti, “nell’ambito del procedimento celebrato con rito abbreviato, la mera sollecitazione probatoria non è idonea a far sorgere in capo all’istante quel diritto alla prova, al cui esercizio ha rinunciato formulando la richiesta ai rito alternativo non condizionato” (Cass. sez. 5, n. 5931 del 7/12/2005, Capezzuto, rv. 233845; sez. 6 n. 15086 dell’8/3/2011, Della Ventura, rv. 249910). Residuava quindi soltanto la facoltà dei giudici di merito, secondo il loro prudente apprezzamento e nei limiti di quanto prescritto dall’art. 441 cod. proc. pen., comma 5, di verificare o meno la necessità di perizia e di sottoporre al loro vaglio critico l’elaborato dei consulenti di parte, salvo offrire logica ed esauriente giustificazione dei relativi esiti. In tal senso la sentenza si è posta in linea con quanto affermato da questa Corte in casi similari, ossia che: “Nel giudizio abbreviato d’appello, celebrato anche in sede di rinvio, il giudice può esercitare il potere officioso di integrazione probatoria, perché la previsione dell’art. 441 c.p.p., comma 5, che attribuisce siffatto potere al giudice dell’abbreviato in primo grado, è estensibile, con gli stessi limiti, al giudice d’appello, e la sua valutazione discrezionale circa la necessità della prova non è censurabile in sede di legittimità” quando sia correttamente ed adeguatamente motivata (Cass., sez. 5, n. 19388 del 9.5.2006, Biondo ed altri, rv. 234157, sez. 4, n. 38216 del 29.4.2009, Hrustic, rv. 245290, sez. 2, n. 35987 del 17/6/2010, Melillo, rv. 248181, sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone e altri, rv. 249161).
4.2.3 Ed è quanto puntualmente compiuto dai giudici di appello: la sentenza in verifica ha esposto ampiamente le ragioni della ritenuta superfluità dell’indagine peritale, invocata dalla difesa, dell’insufficienza dimostrativa degli accertamenti dei tecnici di parte sulla scorta della documentazione e delle stesse relazioni prodotte dalla difesa, dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine all’incidenza sull’imputabilità dei disturbi di personalità, attenendosi alle indicazioni ricavabili da Cass. Sez. Unite, n. 9163 del 25/1/2005, Raso, rv. 230317.
Al riguardo hanno evidenziato che lo stato riscontrato dai consulenti era condizionato dalle situazioni verificatesi dopo il delitto, ossia dal decesso non voluto, ma previsto della vittima, dai relativi sensi di colpa, dall’elaborazione della gravità di quanto compiuto, dalle forti preoccupazioni per le sorti personali e del figlio in tenera età, dall’incidenza negativa dello stato di detenzione, tutti specifici elementi che non ricevono confutazione nell’impugnazione, limitatasi a dolersi del presunto vizio motivazionale, ma incapace di sostanziarne i profili rilevanti e gli elementi dimostrativi.
A ciò si è aggiunta la puntuale analisi, esposta in sentenza, dei comportamenti tenuti dopo la scoperta del delitto e del contenuto delle dichiarazioni oggetto della conversazione intercettata, la cui trascrizione è stata riportata nella sentenza di primo grado: si è posto in luce come la S. non si fosse affatto indotta ad ammettere le sue responsabilità in modo spontaneo, ma soltanto quando aveva appreso delle ammissioni del marito, si fosse assegnato un ruolo del tutto marginale ed avesse tentato di accreditare una tesi decisamente smentita dalla sorella sul fatto che costei l’avesse “tormentata” per recarsi a fare spese assieme il giorno del delitto, avesse riferito di avere avuto paura del marito, dimostrando in tal modo di saper gestire psicologicamente il confronto con gli inquirenti e di potersi determinare in modo autonomo e ben maggiore di quanto avesse fatto il marito, che aveva immediatamente confessato quando era stato interrogato, rilevando la sua fragilità anche per il passato di tossicodipendenza.
Inoltre, proprio la trascrizione delle conversazioni intercettate rivela che la S. nel dialogo col C. aveva riconosciuto di avere mentito e di averlo protetto, aveva proposto di sua iniziativa e su suggerimento del suo legale di defilarsi, mentre l’interlocutore l’aveva rassicurata, aveva ribadito che si sarebbe assunto tutta la colpa, si era giustificato, dimostrando quindi di non avere affatto un ruolo dominante sulla moglie, assecondata piuttosto nel suo tentativo di essere compromessa il meno possibile. Pertanto, è logica ed adeguatamente giustificata la conclusione espressa nella sentenza impugnata circa l’irrilevanza della depressione, pur presente, della S. , la quale, senza essere stata dominata psicologicamente dal coniuge e senza essersi trovata in condizioni tali da non potersi determinare in modo autonomo, aveva per amore fatto proprio il suo modo di vivere e di risolvere i problemi sino alla condivisione del delitto.
Infine, ed il rilievo non è trascurabile, la considerazione delle difficoltà di vita e psicologiche della donna hanno indotto i giudici di merito a riconoscerle le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sull’aggravante contestata, diversamente negabile a fronte di un contesto fattuale di tale gravità, ed a contenere la pena in misura prossima al minimo edittale, il che conferma la razionalità e l’attenta e completa analisi condotta del caso concreto in tutti i suoi profili, oggettivo e soggettivo.
5. Infondato è anche il motivo che attiene al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. in relazione al delitto di rapina: la questione è stata risolta in modo logico e pertinente, in perfetta aderenza ai dati probatori, col rilievo dell’incidenza determinante nella commissione del delitto dell’apporto offerto dalla S. all’azione del marito, dapprima con il riferire dati conoscitivi essenziali sulla presenza del denaro, quindi con l’attirare la sorella fuori di casa per consentire lo svolgimento della rapina, di cui ella aveva prefigurato i possibili sviluppi aggressivi e lesivi in danno della madre. Le deboli negazioni, evincibili dai dialoghi intercettati, non supportano l’assunto difensivo, essendo state interpretate dai giudici di merito quale mero frutto di un tentativo della S. di assolvere se stessa dal senso di colpa per quanto accaduto ed erano state superate dalle ammissioni della piena consapevolezza del piano elaborato dal marito, cui aveva aderito.
Anche sotto tale specifico profilo le valutazioni della sentenza risultano aderenti al consolidato indirizzo interpretativo, espresso da questa Corte, secondo il quale “la circostanza attenuante del contributo di minima importanza è configurabile quando l’apporto del concorrente non ha avuto soltanto una minore rilevanza causale rispetto alla partecipazione degli altri concorrenti, ma ha assunto un’importanza obiettivamente minima e marginale, ossia di efficacia causale, così lieve rispetto all’evento, da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso”. (Cass. sez. 1, n. 26031 del 09/05/2013, P.G. e Di Domenico, rv. 25603; sez. 2, n. 835 del 18/12/2012, Modafferi e altro, rv. 254051; sez. 2, n. 9743 del 22/11/2012, Cannavacciuolo, rv. 255356; sez. 2, n. 46588 del 29/11/2011, Eraky El Sayed e altro, rv. 251223; sez. 4, n. 1218 del 09/10/2008, P.G. e Di Maggio, rv. 242388).
Senza tralasciare poi che quella proposta è una tipica questione di fatto, incentrata sul rilievo da assegnare all’apporto concorsuale del partecipe al reato, che è stata risolta, per quanto già detto, con motivazione adeguata ed immune da vizi, non suscettibile di condurre a differente apprezzamento da parte di questa Corte.
6. Infine, non ha consistenza nemmeno la doglianza riguardante la configurabilità anche per la posizione della ricorrente della circostanza aggravante del travisamento, contestata per avere il C. fatto uso del casco da motociclista nel momento di affrontare la vittima, presente nel luogo della rapina. È stato evidenziato in entrambe le sentenze che tale espediente si era reso necessario per impedire il riconoscimento dell’autore materiale della ruberia da parte di colei che ne conosceva bene le fattezze ed avrebbe potuto riferire l’accaduto ed era stato prefigurato anche dalla S. quale modalità imposta dalle condizioni di esecuzione del delitto, da perpetrare in pieno giorno all’interno dell’abitazione occupata dalla Sa. , ancora in grado di discernere e riconoscere le persone.
Per le considerazioni svolte la sentenza impugnata supera il vaglio conducibile nel giudizio di legittimità; ciò comporta il rigetto di entrambe le impugnazioni e la condanna dei proponenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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