Ingresso illecito di stranieri in Italia e associazione per delinquere a carico delle impiegate della prefettura e del comune che tramite fittizie richieste di assunzione ottenevano permessi di soggiorno
Suprema Corte di Cassazione
sezione I penale
sentenza 6 ottobre 2016, n. 42366
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VECCHIO Massimo – Presidente
Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere
Dott. TARDIO Angela – Consigliere
Dott. ESPOSITO Aldo – Consigliere
Dott. MINCHELLA Antonio – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
1) (OMISSIS), nato il (OMISSIS);
2) (OMISSIS), nato il (OMISSIS);
Avverso la sentenza in data 30.03.2015 della Corte di Appello di Ancona;
Visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
Udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MINCHELLA Antonio;
Udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
Uditi i difensori avv. (OMISSIS) e avv. (OMISSIS), che si sono riportati ai motivi del ricorso chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 1.12.2010 il GUP del Tribunale di Macerata condannava (OMISSIS) e (OMISSIS), in esito a giudizio abbreviato, alla pena di anni due di reclusione ed Euro 533, 33 di multa per procurato ingresso illecito di stranieri in Italia ed associazione per delinquere.
Rilevava il giudice che le indagini condotte dalla Questura di Macerata avevano disvelato l’esistenza di una associazione per delinquere alla quale partecipavano gli imputati e che, avvalendosi dell’apporto direttivo di una impiegata della Prefettura di (OMISSIS) (tale (OMISSIS)) e di un dipendente del Comune di (OMISSIS), organizzava l’immigrazione clandestina di stranieri del Bangladesh tramite fittizie richieste di assunzione lavorativa di ditte locali finalizzate al rilascio del permesso di soggiorno in cambio di somme di danaro. In particolare, il giudice riteneva che i due imputati avessero avuto il compito specifico di contattare connazionali disposti a pagare consistenti somme di danaro per ottenere i nulla osta necessari al rilascio del visto di ingresso. Elementi di prova erano stati i servizi di appostamento e le intercettazioni telefoniche: da molte conversazioni intercettate era emerso il carattere degli incontri tra gli associati: in particolare, al (OMISSIS) veniva chiesto di raccogliere i soldi pattuiti e di consegnarli alla impiegata prefettizia, come accertato in appostamenti eseguiti; parimenti vi era una telefonata in cui la donna spiegava all’imputato citato il meccanismo posto in essere dicendogli che lui doveva fornire i nominativi degli interessati al rilascio del nulla osta. Ed ancora vi erano conversazioni tra la donna ed il (OMISSIS), che si incontrarono in una occasione nella quale la impiegata prefettizia lo rassicurava circa il buon esito delle proposte di assunzione, a dispetto delle indagini in corso: le telefonate intercettate tra i due (circa 50 conversazioni) evidenziavano l’interesse con cui l’imputato seguiva le richieste di assunzione. Quindi il giudice concludeva che gli imputati fungevano da anello di collegamento, probabilmente utilizzando il tramite di parenti rimasti nel Paese di origine, incaricati di contattare coloro che erano interessati a giungere in Italia. Non vi era prova del trattenimento di parte delle somme pagate e quindi dello scopo di arricchimento patrimoniale. La fattispecie piu’ grave era quella del Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 12, comma 3; venivano riconosciute le circostanze attenuanti generiche; la pena inflitta veniva sospesa.
Gli imputati interponevano appello.
Il (OMISSIS) eccepiva la nullita’ dell’intero procedimento di primo grado, che non era stato preceduto dall’interrogatorio ex articolo 415 bis c.p.p. (pure richiesto dall’imputato) e che era stato tardivo; si eccepiva il difetto di competenza territoriale affermando che competente doveva essere il Tribunale di Ancona, nel cui territorio era stato commesso il primo dei reati-fine, considerato che mancava la prova del luogo di consumazione del reato associativo; nel merito, si contestava la mancata individuazione di un vero e proprio ruolo del (OMISSIS), anche in considerazione del fatto che proprio il meccanismo normativo del decreto flussi renderebbe necessario un anello di collegamento fra i datori di lavoro italiani e i lavoratori residenti all’estero: il (OMISSIS) si sarebbe limitato a fare da intermediario, senza alcun profitto, il che escluderebbe una partecipazione all’associazione, per come si era ritenuto nei confronti dei datori di lavoro italiani, i quali certamente avevano agito per un loro tornaconto compiacente. Inoltre, al piu’, la condotta incriminata avrebbe dovuto essere punita Decreto Legislativo n. 286 del 1998, ex articolo 12, comma 1 e considerata scriminata ex articolo 54 c.p. per il fine di aiutare connazionali a sottrarsi ad una vita misera. Si invocava la circostanza attenuante di avere agito per particolari valori morali e la massima estensione delle circostanze attenuanti generiche.
L’imputato (OMISSIS) ripeteva identici motivi di appello, ad eccezione di quello relativo al mancato interrogatorio.
Con sentenza in data 30.03.2015 la Corte di Appello di Ancona riformava la sentenza e riduceva la pena ad anni uno di reclusione ed Euro 533.000,00 di multa.
La Corte territoriale respingeva la prospettazione della competenza della Corte di Assise di Appello, notando che l’azione penale era stata esercitata prima della riforma dell’articolo 416 c.p. e che comunque la specifica competenza per l’articolo cit., comma 6 era stata introdotta successivamente alla data del commesso reato; parimenti si respingeva l’eccezione di incompetenza territoriale, rilevando che ragioni di logica inducevano a concludere che la sede operativa della associazione fosse appunto in (OMISSIS) e che le richieste presentate in (OMISSIS) costituivano un segmento di azione a completamento di quanto gia’ concordato in (OMISSIS); in ogni caso il reato piu’ grave era certamente la tentata concussione contestata alla (OMISSIS) e sicuramente commessa in (OMISSIS). Ed ancora, si respingeva l’eccezione di nullita’ del giudizio di primo grado, rilevando che quello che era obbligatorio non era l’interrogatorio in se’, ma la convocazione per renderlo e il (OMISSIS) era stato ritualmente convocato: certamente l’interrogatorio non era stato reso, ma nemmeno la difesa aveva prospettato le ragioni per cui non era stato effettuato, per cui non si poteva escludere che l’imputato non si fosse presentato. Anche la richiesta di giudizio immediato veniva ritenuta tempestiva, poiche’ effettuata entro 180 giorni della applicazione della misura cautelare, a norma dell’articolo 453 c.p.p., comma 2; infine si rilevava che l’assenza degli imputati espulsi era stata dovuta alla loro inerzia nelle procedure necessarie per ottenere permessi temporanei di soggiorno, nonostante i rinvii accordati ai medesimi a questo fine.
Nel merito, osservava il giudice di appello che era incontestabile la partecipazione degli imputati ad un contesto associativo nel quale si adoperavano per porre in contatto loro connazionali al fine di favorire ingresso ed illecita permanenza in Italia con assunzioni fittizie presso ditta ignare o talora compiacenti: gli stessi imputati avevano ammesso, con gli atti di impugnazione, di avere garantito all’associazione maceratese di ottenere il prezzo convenuto e di farsi tramite per l’incasso di somme, cosi’ partecipando all’azione illecita pur senza lucrare provvidenze economiche; le molteplici telefonate intercettate con la persone al vertice del gruppo dimostravano un inserimento organico nell’associazione ed una ripetitivita’ delle condotte che non poteva non ritenersi come partecipazione, per cui andava ritenuto sussistere il reato di cui all’articolo 416 c.p., comma 2. Ne derivava la sussistenza anche del reato di immigrazione clandestina, ma, per le stesse ragioni, era integrato il Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 12, comma 1. Si respingeva la prospettazione della ricorrenza dell’articolo 54 c.p., giacche’ non si riscontrava alcun pericolo attuale di danno grave alla persona, non potendo questa nozione coincidere con la provenienza dei clandestini da Paesi di condizioni di vita meno floride di quelle europee. Parimenti si rigettava la richiesta di concessione della circostanza attenuante di avere agito per valori morali, giacche’ essi avevano invece forzato il sistema di ingresso in Italia dando credito ad associazioni criminali degne di discredito sociale.
Avverso detta sentenza propone ricorso l’imputato (OMISSIS) a mezzo del difensore, deducendo erronea applicazione di legge, inosservanza di norme procedurali, illogicita’ della motivazione. Con il primo motivo si reitera l’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di (OMISSIS), insistendo sul fatto che non vi e’ prova che l’associazione abbia avuto sede in (OMISSIS) e vi e’ invece prova che le prime fattispecie delittuose sono state compiute in (OMISSIS); con il secondo motivo si eccepisce che giudice doveva essere la Corte di Assise e quindi l’appello doveva essere esaminato dalla Corte di Assise di Appello; con il terzo motivo si contesta l’assunto della Corte di Appello circa la mancata doglianza sul reato associativo, che invece era stata avanzata, e si insiste sul fatto che la sentenza non chiarisce quale sia stato il ruolo dell’imputato ne’ affronta il tema del mancato profitto da parte di costui; con il quarto motivo, si afferma che la Corte di Appello non avrebbe motivato sulla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Propone ricorso anche l’imputato (OMISSIS) a mezzo del difensore, deducendo erronea applicazione della legge penale, inosservanza di norme procedurali, illogicita’ della motivazione. Con il primo motivo si evidenzia che l’imputato non aveva reso l’interrogatorio ex articolo 415 bis c.p.p. poiche’ egli, dopo la notifica della convocazione, era stato arrestato per evasione dagli arresti domiciliari cui era stato sottoposto per questo procedimento e quindi era impossibilitato a presentarsi in quanto ristretto in carcere e cio’ emergeva dagli atti. Con il secondo motivo si reitera l’eccezione di incompetenza territoriale, giudicando incongrua la motivazione sul punto della esistenza dell’associazione per delinquere in (OMISSIS) e non in (OMISSIS), dove era stata presentata la gran parte delle richieste per il rilascio del nulla osta. Con il terzo motivo si sostiene che difetta la prova della consapevolezza di far parte di una associazione e la mancanza di un profitto personale escluderebbe detto elemento e si insiste che l’imputato ha agito soltanto per motivi umanitari mentre i datori di lavoro italiani avrebbero avuto un trattamento differente; si contesta infine anche il concreto trattamento sanzionatorio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi devono essere rigettati perche’ infondati.
L’intera vicenda fattuale e processuale e’ gia’ stata sintetizzata in precedenza: sulla base di quegli elementi appare necessario esaminare distintamente i motivi di ricorso. § 1. Con il primo motivo il ricorrente (OMISSIS) reitera – sia pure con argomenti che poco si correlano con la motivazione impugnata – l’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di (OMISSIS), insistendo sul fatto che non vi sarebbe prova che l’associazione per delinquere abbia avuto sede in (OMISSIS) e vi sarebbe invece prova che le prime fattispecie delittuose sono state compiute in (OMISSIS).
La Corte territoriale, sul punto, ha motivato correttamente respingendo detta eccezione sul presupposto che le attivita’ criminose svolte in (OMISSIS) rappresentavano soltanto un segmento di azione nell’ambito di un disegno piu’ ampio che era stato delineato in (OMISSIS), dove la coimputata (OMISSIS) aveva stabilito la sede operativa della associazione stessa; del resto, in tema di reati associativi, la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui ha sede la base ed ove si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attivita’ criminose facenti capo al sodalizio.
Il dato processuale ulteriore che occorre considerare e’ quello indicato dal giudice e cioe’ che il reato associativo ed i singoli reati fine contestati ai ricorrenti appaiono unificati da un medesimo disegno criminoso o comunque connessi ai sensi dell’articolo 12 c.p.p..
Tale dato processuale occorre darlo per pacifico in quanto tale e’ stato ritenuto sia dai ricorrenti (che, infatti, in questa sede non lo hanno contestato) sia dallo stesso giudice.
Ed allora va considerato che nell’ipotesi in cui fra il reato associativo ed i reati fine vi sia una connessione ex articolo 12 c.p.p. (nella specie ex articolo 81 c.p.), si applica la regola di cui all’articolo 16 c.p.p., in base al quale la competenza per territorio appartiene al giudice competente per il reato piu’ grave ovvero, in caso di pari gravita’, al giudice competente per il primo reato (Sez. 2, n. 45337 del 4.11.2015, Rv. 265031). Di conseguenza, la Corte territoriale ha individuato il piu’ grave reato nel tentativo di concussione imputato alla (OMISSIS) e certamente commesso in (OMISSIS), cosi’ correttamente individuando la competenza territoriale.
Il motivo di doglianza va quindi rigettato.
§ 1.2. Con il secondo motivo il ricorrente (OMISSIS) eccepisce che il giudice doveva essere la Corte di Assise e quindi l’appello doveva essere esaminato dalla Corte di Assise di Appello.
Premesso, a rigore, che il ricorso non articola alcuna vera e propria doglianza argomentata sul punto, va detto che la decisione reiettiva del giudice e’ corretta: la competenza della Corte di Assise per delitti associativi ex articolo 416 c.p., comma 6, e’ stata introdotta con il Decreto Legge n. 10 del 2010, convertito nella L. n. 52 del 2010; trattasi di disposizione entrata in vigore solo il 30.06.2010 e relativamente ai procedimenti per i quali non era stata ancora esercitata l’azione penale; al contrario, nella fattispecie, l’azione penale era stata esercitata con la richiesta di giudizio immediato in data 21.05.2010 ed il relativo decreto era stato emesso il 31.05.2010. Peraltro il giudice notava anche che il nuovo testo del comma 6 dell’articolo 416 c.p. conteneva un richiamo al Decreto Legislativo n. 286 del 1998, articolo 12, comma 3 bis (originariamente contestato) soltanto dopo la modifica legislativa introdotta con la L. 15 luglio 2009, n. 94 mentre i fatti de quibus erano stati commessi sino al (OMISSIS).
Il motivo di doglianza e’ quindi infondato.
§ 1.3. Con il terzo motivo il ricorrente (OMISSIS) contesta l’assunto della Corte di Appello circa la mancata doglianza sul reato associativo, che invece era stata avanzata, e si insiste sul fatto che la sentenza non chiarisce quale sia stato il ruolo dell’imputato ne’ affronta il tema del mancato profitto da parte di costui.
Sul primo punto deve soltanto rilevarsi che la sentenza impugnata non esclude affatto doglianze sulla sussistenza del reato associativo: appare piu’ appropriato precisare che la Corte territoriale ha scritto che detta sussistenza non era stata apprezzabilmente contestata nei motivi di appello; di seguito sono stati richiamati gli elementi di fatto che avevano condotto alla conclusione dell’esistenza di una stabile organizzazione (ripetitivita’ della condotta criminosa, numerose captazioni telefoniche, contatti con persone all’estero, predisposizioni di assunzioni fittizie, plurimi contatti tra associati). Confermata quindi questa sussistenza criminosa, il giudice ha esaminato contrariamente a quanto dedotto in ricorso – il ruolo del ricorrente: si e’ precisato che, nell’ambito di una struttura che vedeva la menzionata (OMISSIS) al vertice dell’organizzazione, il (OMISSIS) si adoperava per porre in contatto suoi connazionali con il sodalizio criminale allo scopo di favorirne l’ingresso in Italia e l’illecita permanenza con le assunzioni fittizie presso ditte talora compiacenti e talora ignare; il ricorrente e’ stato indicato come tramite indispensabile per la riuscita di ogni singola operazione tra bengalesi ed associazione nonche’ come garante verso questa del prezzo convenuto. Il fatto che egli non abbia lucrato somme in termini di provvidenza economiche non escludeva il concorso nel reato attuato con i suoi specifici compiti: e la piena consapevolezza della natura delle attivita’ del sodalizio emergeva dai contatti che egli aveva tenuto con l’associazione per soddisfare le richieste del connazionale di turno, cosi’ dando prova dell’inserimento organico nell’associazione, non smentito da ruoli minore profilo.
La conclusione e’ corretta: la fattispecie incriminatrice de qua richiede esclusivamente una condotta di partecipazione che e’ di per se’ sola sufficiente ad integrare il delitto che e’, come costantemente insegnato da questa Suprema Corte, a forma libera, integrabile cioe’ da un qualunque comportamento non tipizzato nel modo, purche’ causale rispetto all’evento tipico, che apporti cioe’ un contributo, ancorche’ minimo, ma non insignificante, alla vita della struttura ed in vista del perseguimento del suo scopo. Peraltro, e’ logicamente corretta la deduzione secondo la quale la partecipazione non estemporanea dell’imputato ai reati fine che connotano il programma criminoso dell’associazione costituisce indice sintomatico dell’intraneita’ dell’agente al sodalizio criminoso.
Il relativo motivo di doglianza va quindi rigettato.
§ 1.4. Con il quarto motivo il ricorrente (OMISSIS) afferma che la Corte di Appello non avrebbe motivato sulla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
La doglianza non e’ di semplice comprensione: la Corte territoriale non ha affatto negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ma ha concesso detto beneficio, per come espressamente indicato al paragrafo 9 della sentenza impugnata, dedicato al trattamento sanzionatorio; detta applicazione delle circostanze attenuanti generiche ha condotto ad una sostanziosa diminuzione della pena inflitta.
Il relativo motivo di doglianza e’ quindi infondato.
§ 2. Con il primo motivo di doglianza del ricorrente (OMISSIS) si evidenzia che l’imputato non aveva reso l’interrogatorio ex articolo 415 bis c.p.p. poiche’ egli, dopo la notifica della convocazione, era stato arrestato per evasione dagli arresti domiciliari cui era stato sottoposto per questo procedimento e quindi era impossibilitato a presentarsi in quanto ristretto in carcere e cio’ emergeva dagli atti. Orbene, questa Corte Suprema (Sez. 2, n. 19483 del 16 aprile 2013, Rv. n. 256040) ha gia’ chiarito che l’omesso interrogatorio a seguito dell’avviso di cui all’articolo 415-bis c.p.p., benche’ sollecitato dall’imputato, determina una nullita’ di ordine generale a regime intermedio, che non puo’ essere dedotta a seguito della scelta del rito abbreviato, in quanto la richiesta del rito speciale opera un effetto sanante della nullita’ ai sensi dell’articolo 183 c.p.p. Pertanto, se anche la dedotta nullita’ fosse stata realmente sussistente, il difensore, per effetto dell’opzione per il rito abbreviato, non potrebbe dedurla come motivo di ricorso, perche’ sanata.
Peraltro, nel caso di specie, la nullita’ – pur inammissibilmente dedotta – e’ insussistente: il ricorso non afferma mai che l’interessato aveva presentato una formale ed inequivocabile richiesta di essere sottoposto ad interrogatorio, e, in ogni caso, non vi e’ dubbio che – quale che fosse la situazione creatasi – egli doveva espressamente chiedere di essere tradotto; la fattispecie in esame non e’ assimilabile ad una situazione dibattimentale, nel senso che, mentre nel dibattimento il giudice avrebbe dovuto accertare d’ufficio lo status dell’imputato, nel caso che occupa occorreva una iniziativa di parte, poiche’ nella procedura ex articolo 415 bis c.p.p. l’interrogatorio in se’ resta facoltativo.
Il relativo motivo di doglianza va quindi rigettato.
§ 2.2 Con il secondo motivo di doglianza il ricorrente (OMISSIS) reitera l’eccezione di incompetenza territoriale, giudicando incongrua la motivazione sul punto della esistenza dell’associazione per delinquere in (OMISSIS) e non in (OMISSIS), dove era stata presentata la gran parte delle richieste per il rilascio del nulla-osta.
Sul punto si richiamano tutte le argomentazioni gia’ dispiegate nel § 1, confermando il rigetto del motivo.
§ 2.3 Con il terzo motivo si sostiene che difetta la prova della consapevolezza di far parte di una associazione (la mancanza di un profitto personale escluderebbe detto elemento) e si insiste che l’imputato avrebbe agito soltanto per motivi umanitari mentre i datori di lavoro italiani avrebbero avuto un trattamento differente; si contesta infine anche il concreto trattamento sanzionatorio.
Sul primo punto, va ribadito che, in tema di associazione per delinquere, la esplicita manifestazione di una volonta’ associativa non e’ necessaria per la costituzione del sodalizio, potendo la consapevolezza dell’associato essere provata attraverso comportamenti significativi che si concretino in una attiva e stabile partecipazione.
E la Corte territoriale ha indicato dette condotte, fornendo un profilo del ruolo svolto dal ricorrente, parallelo a quello dell’altro ricorrente (OMISSIS): cosi’, anche per lui la sentenza impugnata ha precisato che, nell’ambito di una struttura che vedeva la menzionata (OMISSIS) al vertice dell’organizzazione, egli si adoperava per porre in contatto connazionali bengalesi con il sodalizio criminale allo scopo di favorirne l’ingresso in Italia e l’illecita permanenza grazie alle assunzioni fittizie presso ditte talora compiacenti e talora ignare; il ricorrente e’ stato indicato come tramite indispensabile per la riuscita delle operazioni tra bengalesi ed associazione nonche’ come garante verso questa del prezzo convenuto.
Sul secondo punto, il ricorso sostiene che la mancanza di un profitto personale sarebbe l’elemento dirimente per escludere la partecipazione al sodalizio: ma il giudice ha correttamente precisato che il fatto che egli non abbia lucrato somme in termini di provvidenze economiche non escludeva il concorso nel reato attuato con i suoi specifici compiti; e la piena consapevolezza della natura delle attivita’ del sodalizio emergeva dai contatti che egli aveva tenuto con l’associazione per soddisfare le richieste del connazionale di turno, cosi’ dando prova dell’inserimento organico nell’associazione, non smentito da ruoli minore profilo.
Del resto, ai fini della configurabilita’ del reato associativo, cio’ che rileva e’ l’effettivo contributo fornito con carattere di stabilita’, al raggiungimento degli illeciti fini della struttura criminosa, purche’ detto contributo sia fornito con la consapevolezza e la volonta’ di inserirsi organicamente nella vita del gruppo delinquenziale, restando invece irrilevanti le ragioni per le quali si partecipa alla vita della societas sceleris.
Sul punto delle asserite ragioni umanitarie che avrebbero spinto il ricorrente, va ribadito quanto detto dal giudice in tema di diniego della circostanza attenuante dei particolari valori morali e sociali: il ricorrente sostiene di avere agito per porre rimedio alla situazione di disagio economico e sociale vissuto dai suoi connazionali.
Ma tutto cio’ non comporta affatto gli effetti sperati del medesimo.
In linea di principio, ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non e’ sufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettivita’.
In altri termini, la fattispecie descritta nell’articolo 62 c.p., n. 1 ha due elementi costitutivi: l’uno di carattere soggettivo, che consiste nell’intenzione dell’agente di rimuovere con il proprio comportamento una situazione ritenuta di fatto immorale o antisociale; l’altro, di carattere oggettivo, nel senso che il movente deve essere riconosciuto, dalla generalita’ dei consociati come conforme ai costumi morali o sociali che corrispondono alle finalita’ della comunita’ organizzata in un determinato momento storico.
Il fine proclamato dal ricorrente non attenua l’offensivita’ delle condotte, poiche’, sotto il profilo oggettivo, e’ da escludere che l’asserito movente possa essere riconosciuto conforme ai costumi sociali o morali dell’attuale societa’ italiana. Indice sintomatico sono i dibattiti vivaci ed i forti contrasti in materia, i quali appunto indicano l’insussistenza dell’elemento oggettivo richiesto per applicare l’attenuante in parola.
E’ incontrovertibile che i particolari motivi morali o sociali sono solo quelli che traggono origine da valori avvertiti dalla prevalente coscienza collettiva (Sez. 4, 3 maggio 1985, Mancini, Rv. 169364; Sez. 1, 14 novembre 1994, Bonello, Rv. 200467) e che il dibattito politico sulle questioni accennate dal ricorso nonche’ le discussioni sulle diverse scelte prospettabili in sede legislativa sono il sintomo della mancanza di un loro attuale e generale apprezzamento positivo e dimostrano, anzi, che vi sono larghe fasce di contrasto nella societa’ italiana contemporanea (Sez. 6, n. 11878 del 20.01.2003, Rv. 224077).
In ogni caso, poi, correttamente il giudice ha dubitato della affermazione del ricorrente, il quale ha voluto soltanto favorire ingressi a pagamento in Italia, con metodi truffaldini dettati da opportunismo e diretti a forzare il sistema di ingressi con la creazione di fenomeni delinquenziali associativi.
Infine, la censura circa il trattamento sanzionatorio si presenta come infondata: la pena detentiva e’ stata rivista al ribasso, l’aumento per la continuazione e’ stato molto contenuto e vi e’ stata concessione delle circostanze attenuanti generiche, oltre alla diminuente del rito abbreviato. Quanto alla censura sulla misura della pena pecuniaria, la cui entita’ finale non era risultata piu’ bassa rispetto al primo grado, va registrato che il relativo motivo accenna ad una mancanza di motivazione al riguardo, mentre, in realta’, la Corte territoriale ha espressamente richiamato la complessiva gravita’ dei plurimi fatti e la personalita’ dei correi.
Del resto, nel caso di reati puniti con pena congiunte e di riduzione di esse, il giudice non e’ obbligato a seguire il medesimo criterio nella determinazione della sanzione detentiva e di quella pecuniaria e puo’ comunque adottare differenti diminuzioni per le singole pene (pecuniaria e detentiva), attesa la particolare funzione retributiva e sanzionatoria di ciascuna di esse.
I ricorsi debbono essere quindi rigettati: al rigetto degli stessi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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