La partecipazione alle attività preparatorie del delitto e, in particolare, ai sopralluoghi nella sede della progettata esecuzione di esso, costituisce condotta concorsuale a norma dell’art. 110 c.p., poichè la concezione unitaria del concorso di persone nel reato comporta che l’attività del concorrente possa essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva, anche soltanto mediante il rafforzamento dell’altrui proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera dei concorrenti
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I PENALE
SENTENZA 22 giugno 2016, n.25846
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 9 gennaio 2015 la Corte di assise di appello di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza resa, all’esito di giudizio abbreviato, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta il 13 marzo 2013, previo stralcio da più ampio processo denominato (OMISSIS) sui tragici fatti che costarono la vita al giudice B.P. e agli uomini della sua scorta, ha ridotto da anni dieci ad anni sette e mesi sei di reclusione la pena inflitta a T.F. per il delitto di concorso in strage pluriaggravata, commessa il 19 luglio 1992, escludendo la circostanza aggravante di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1, (finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico), ferme sia la circostanza attenuante della prestata collaborazione di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, convertito dalla L. n. 203 del 1991, applicata nella sua massima estensione, sia le circostanze attenuanti generiche riconosciute prevalenti sulla recidiva e sulle aggravanti diverse da quella di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, con finale diminuzione di un terzo della pena per il rito prescelto.
La medesima sentenza, sempre in parziale riforma di quella di primo grado, ha ridotto da anni dodici ad anni nove di reclusione, con la diminuzione per il rito abbreviato, anche la pena inflitta a C. S. per il delitto di calunnia aggravata in danno di To.Sa., falsamente incolpato, nel corso di udienza dibattimentale del 1 dicembre 1997, di aver partecipato con S.V. al furto dell’autovettura Fiat 126, utilizzata come autobomba per commettere la strage del (OMISSIS), e condannato per tale falsa accusa alla pena dell’ergastolo, secondo la lettera della contestazione formulata; in realtà, alla pena di anni otto di reclusione, come chiarito nelle motivazioni delle sentenze di merito.
La decisione della Corte di assise di appello illustra, innanzitutto, la tormentata storia giudiziaria inerente ai tragici fatti del 19 luglio 1992, oggetto di plurimi processi: il primo, denominato (OMISSIS), fu celebrato dal 1994 al 2000, nei confronti di alcuni dei ritenuti esecutori della strage, tra cui S. V. e il cognato, P.S.; il secondo, denominato (OMISSIS), fu celebrato dal 1996 al 2003, nei confronti dei mandanti della strage, tra cui R.S., A.P., G.G. ed altri: in esso furono utilizzate le dichiarazioni di S.V., C.S. e A.F., successivamente rivelatisi falsi collaboratori, con riguardo, in particolare, al furto e alla preparazione della Fiat 126 utilizzata come autobomba, condotte attribuite alla famiglia mafiosa di (OMISSIS), guidata da A.P., attiva nel quartiere della (OMISSIS), dove operava S. ed il cognato, P., “uomo d’onore” nel sodalizio criminale.
Il terzo processo, denominato (OMISSIS), fu celebrato dal 1998 al 2008, sulla base delle sopravvenute collaborazioni di Br.
G., Ca.Sa. e altri membri di rilievo di (OMISSIS), e si concluse con ulteriori condanne a carico di mandanti ed esecutori.
Nel giugno del 2008 iniziò a collaborare con la giustizia Sp. G., “uomo d’onore” del mandamento mafioso di (OMISSIS), in (OMISSIS), il quale fornì una versione della fase preparatoria della strage del (OMISSIS) divergente rispetto a quella avallata nei precedenti processi, consentendo di scoprire le falsità delle dichiarazioni rese dai propalanti S., An. e C..
Sp., scagionando i soggetti legati al mandamento mafioso di (OMISSIS), dichiarò infatti di essersi personalmente occupato, su incarico di G.G., all’epoca capo del mandamento mafioso di (OMISSIS), di procurare l’autovettura utilizzata per la strage e le targhe di analoga automobile, sostituite a quelle della prima per evitarne l’identificazione; di avere provveduto a far riparare la Fiat 126; di averla custodita e portata nel luogo dove era stata riempita dell’esplosivo che egli stesso aveva contribuito a reperire; di essersi prodigato per trovare le attrezzature occorrenti a far brillare l’autobomba.
Circa un anno dopo, nel 2009, S., C. e An. ritrattarono le proprie dichiarazioni, ammettendo di avere falsamente accusato se stessi ed altri soggetti e sostenendo di essere stati costretti a rendere le dichiarazioni calunniose da alcuni funzionari della Polizia di Stato, all’epoca diretti dal dottor L.B. A., oggi defunto.
Le dichiarazioni di Sp. trovarono conferma, a partire dall’aprile 2011, in quelle rese da T.F., anch’egli affiliato alla famiglia mafiosa di (OMISSIS) e cognato di L. C. che, di quella consorteria, era considerato esponente di rilievo.
T. dichiarò di aver svolto per quasi tre anni, dal maggio 1991 (allorchè era appena ventenne) al gennaio 1994, le mansioni di autista e uomo di fiducia di G.G., latitante, a capo del mandamento mafioso di (OMISSIS).
In particolare, egli faceva la spesa per conto di G.;
provvedeva a contattare, a suo nome, altri esponenti della consorteria criminale; recapitava messaggi (pizzini) del capo; lo accompagnava ad incontri riservati cui esso T., formalmente non affiliato, non era ammesso; forniva ospitalità a G. nella casa della propria famiglia, in Palermo, quando i genitori coi quali conviveva si trasferivano nella residenza estiva, in (OMISSIS);
consentiva a G. di alloggiare nella casa di famiglia al mare durante la stagione fredda, allorchè i suoi congiunti abitavano in città; metteva a disposizione il proprio alloggio per riunioni di capi mafia, alcune delle quali effettivamente svoltesi nella sua abitazione.
Il rapporto fiduciario tra il collaboratore e G. non si era interrotto nei giorni precedenti la strage del (OMISSIS), in via (OMISSIS), dove T. aveva accompagnato G. almeno due volte.
Secondo i giudici della Corte di assise di appello, in accordo col giudizio espresso dal Giudice di primo grado, T. doveva ritenersi responsabile di concorso nella strage sulla base delle sue stesse dichiarazioni, poichè non era stato chiamato in correità da alcuno dei numerosi collaboratori e, in particolare, neppure da Sp., chiamante di riconosciuta piena attendibilità, autoaccusatosi di aver preso parte attiva all’esecuzione della strage.
In uno dei suoi primi interrogatori, il 25 maggio 2011, ritenuto dalla Corte territoriale più genuino perchè reso nell’immediatezza della scelta collaborativa, T. aveva infatti dichiarato che, nello svolgimento del suo compito di autista e uomo di fiducia di G.G., si era reso conto, nei giorni precedenti la strage, che G., insieme ai sodali, stava preparando un “attentato eclatante”, alla luce dei seguenti elementi: a) la ripetuta richiesta di G. di essere trasportato in via (OMISSIS), dove T. lo aveva accompagnato almeno due volte, con l’avvertimento di G., nel secondo passaggio, avvenuto circa una settimana prima del (OMISSIS), di non fermarsi perchè si trattava di una “zona che scotta”; b) l’incarico, conferito a T. da G., di reperirgli una casa in via (OMISSIS), senza rivolgersi ad agenzie immobiliari e pagando in contanti il canone di locazione; c) le parole pronunciate da G., una volta edotto da T. del mancato reperimento dell’alloggio, del seguente testuale tenore: “Addubbu no iardinu” in dialetto siciliano (“Mi accomodo – o mi arrangio – in giardino”, tradotte in italiano), risultando effettivamente presente, all’epoca, in via (OMISSIS), strada chiusa, un terreno coltivato con muro di recinzione e cancello, accessibile sull’altro lato da una strada parallela; il preavviso di G. a T., analogamente a quanto avvenuto nell’imminenza dell’omicidio di Li.Sa. ( (OMISSIS)) e della strage di (OMISSIS) ((OMISSIS)), di stare lontano da (OMISSIS): in particolare, la sera del (OMISSIS), vigilia della strage, G. aveva dormito nella casa palermitana di T. e gli aveva chiesto dove avrebbe trascorso la domenica successiva, ricevendo dall’interlocutore risposta che sarebbe andato al mare a (OMISSIS), località distante circa trenta chilometri da (OMISSIS), e sincerandosi di tale allontanamento con l’ulteriore interrogativo retorico: “Sicuro?”, cui era seguita la conferma di T..
Tali dichiarazioni integrano, secondo le conformi valutazioni dei giudici di merito, la confessione di partecipazione al fatto stragista da parte di T. e, dunque, la prova del suo concorso nel delitto, di cui sono stati ravvisati sia l’elemento materiale, consistito nell’accompagnamento di G. in quelli che le sentenze indicano come due sopralluoghi eseguiti dal capo mafia nella sede prescelta per la strage e nell’imminenza di essa, con ulteriori condotte di ausilio al capo mafia nella fase preparatoria del grave delitto; sia l’elemento psicologico per la consapevole volontà di T., al tempo dei predetti sopralluoghi e dei servizi resi a G. prima della strage, di coadiuvare il boss di (OMISSIS) nella preparazione di “un attentato… qualcosa di eclatante”, secondo le testuali parole dello stesso imputato, con un bersaglio del quale T. non conosceva l’identità, ignorando anche la presenza in via (OMISSIS) dell’abitazione della sorella del giudice B., ma che aveva intuito dovesse essere un politico, un magistrato o altro personaggio di rango, considerata la diretta partecipazione del capo, G., ai preparativi dell’azione e il suo insistito interesse per quel luogo, indicativi dell’importanza annessa all’azione da compiere.
La Corte di assise di appello, nell’esaminare le censure difensive mosse alla sentenza di primo grado, ha ritenuto meno attendibili, rispetto alle iniziali dichiarazioni del 25 maggio 2011 di riconosciuta valenza confessoria, le dichiarazioni rese da T. nel successivo interrogatorio davanti al Giudice dell’udienza preliminare, il 15 febbraio 2013, allorchè l’imputato aveva precisato di aver intuito, nelle riferite circostanze, la preparazione da parte di G. e compagni di un delitto del tipo estorsione ovvero ritorsione nei confronti di un commerciante della zona, ma non della terribile strage che sarebbe stata commessa, di cui ebbe consapevolezza solo a posteriori, collegando i fatti vissuti prima di quel tragico (OMISSIS).
Conseguentemente è stata confermata, in appello, la condanna di T. per il delitto di concorso in strage, seppure con la riduzione della pena nei termini già sopra indicati per la disposta applicazione della circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, cit., nella sua massima estensione, insieme alle già riconosciute attenuanti generiche in regime di prevalenza su tutte le aggravanti soggette a giudizio di bilanciamento.
E’ stata, infine, confermata la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di tre anni, già disposta nella prima sentenza, in considerazione del lungo tempo trascorso tra il fatto del (OMISSIS) e la collaborazione avviata nell’aprile 2011, e dei provati contatti tra T. e alcuni membri della famiglia G. dopo la sua scarcerazione, avvenuta circa dodici anni prima rispetto all’inizio della sua collaborazione, da libero, dopo aver terminato di espiare la pena subita per il delitto di partecipazione all’associazione di tipo mafioso “(OMISSIS)”.
Diversa la posizione di C.S., esaminata nello stesso giudizio abbreviato: i giudici del doppio grado del processo di merito lo hanno ritenuto responsabile, come anticipato, del delitto di calunnia aggravata in danno di To.Sa., già condannato, nel processo (OMISSIS), ad otto anni di reclusione per associazione per delinquere di tipo mafioso e partecipazione al furto della Fiat 126, utilizzata come autobomba nella strage di via (OMISSIS).
Dopo una serie di dichiarazioni reticenti circa la persona in compagnia di S.V. nel momento in cui C. S., già richiesto dal primo di rubare un’autovettura di piccola cilindrata alla riferita presenza di To.Sa., aveva consegnato a S. la Fiat 126 sottratta nel (OMISSIS) a V.P., all’udienza del 1 dicembre 1997, nel dibattimento del processo denominato (OMISSIS), C. aveva affermato di aver subito sospettato (secondo il testuale tenore della contestazione di calunnia) che il soggetto in compagnia del quale S. si trovava ad attenderlo, nel luogo convenuto per la consegna della vettura rubata, fosse proprio To.
S..
Sulla base di tale affermazione, secondo le conformi sentenze di merito, To. era stato dunque condannato, poichè i giudici avevano utilizzato proprio la predetta dichiarazione di C. quale necessario riscontro della versione di S., il quale aveva sempre indicato To. come partecipe al furto della Fiat 126, senza che tale chiamata in correità potesse essere sufficiente, da sola, a determinare la condanna dello stesso To..
I giudici di merito hanno perciò ritenuto sussistente l’ascritto delitto di calunnia aggravata, ai sensi dell’art. 368 c.p., comma 3, oltre alla recidiva reiterata pure contestata a C. e applicata in sentenza, rilevando che il reato, consumatosi il (OMISSIS), in applicazione della più favorevole disciplina previgente della recidiva, si sarebbe prescritto nel termine massimo di ventidue anni e mezzo, non ancora compiutosi.
La Corte di assise di appello, in particolare, ha escluso la ricorrenza delle esimenti del costringimento fisico e dello stato di necessità, invocate da C., per essere stato costretto, a suo dire, dalle pressioni degli investigatori e, in particolare, del dottor L.B.A. della Questura di Palermo a rendere le dichiarazioni calunniose, affermando che gli accertamenti svolti non consentivano di attribuire l’orchestrazione delle false accuse di S., C. e An. agli uomini delle istituzioni.
E’ stata, perciò, confermata la responsabilità di C. per il delitto suddetto, con la sola riduzione della pena inflitta nei termini già sopra indicati, considerate le condizioni personali dell’imputato di estremo degrado socioculturale.
Anche nei confronti di C., infine, è stata disposta la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di tre anni.
2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione entrambi gli imputati col ministero dei rispettivi difensori di fiducia.
3.1. T.F., tramite l’avvocato Monica Genovese del foro di Palermo, deduce tre motivi.
Con il primo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del concorso di T. nel delitto di strage.
La Corte di merito aveva dato atto che G. non comunicò nulla al suo autista, T., circa la preparazione dell’attentato;
che T. non partecipò ad alcuna delle riunioni in cui si discusse di tale delitto, nè prese parte alla preparazione dell’autovettura utilizzata nella strage; che nessuno riferì a T. quanto si stava preparando o la specifica finalità che muoveva G. e sodali in vista della realizzazione della strage.
Ciononostante la Corte di assise di appello aveva condannato T. sulla base delle sole sue dichiarazioni circa la propria consapevolezza della preparazione di qualcosa di indefinito, solo a posteriori appreso dall’imputato, donde l’evidente mancanza degli elementi costitutivi (materiale e psicologico) del gravissimo delitto attribuitogli.
Illogicamente la Corte di merito aveva attribuito maggiore rilievo alle dichiarazioni rese da T. nell’immediatezza dell’avvio della sua collaborazione, in una fase di palese coinvolgimento emotivo ed intensa commozione, il 25 maggio 2011, piuttosto che alle dichiarazioni dello stesso davanti al Giudice dell’udienza preliminare nel corso del giudizio abbreviato, il 15 febbraio 2013, nelle quali aveva meglio chiarito il contenuto della sua percezione prima del fatto, certamente non attinente ad una strage anche per il recentissimo compimento di analogo delitto in danno del giudice F.G., considerato il più grande nemico da abbattere da parte di (OMISSIS) in quel frangente storico.
Il riferimento dell’imputato a “qualcosa di eclatante” in preparazione, a proposito dell’ausilio prestato a G. nei giorni precedenti la strage, non costituirebbe argomento sufficiente per attribuire a T. la partecipazione al delitto di strage, sia sotto il profilo materiale che sotto quello psicologico, tenuto conto del fatto che nessuna delle condotte cui l’imputato aveva partecipato o assistito, nessuno dei cenni fatti da G. davanti a lui, avrebbero potuto mai indurre in lui anche la sola rappresentazione dello specifico reato contestato e, neppure, la rappresentazione o volizione di un generico omicidio.
Gli elementi valorizzati dai giudici di merito a sostegno del ritenuto concorso di T. nel delitto di strage, lungi dal dimostrarlo, lo avrebbero smentito: i due passaggi per via (OMISSIS), enfaticamente definiti in sentenza come sopralluoghi, col commento di G., nella seconda occasione, “è zona che scotta”, rientravano nella normale routine dei rapporti tra l’imputato e il boss latitante, del quale T. era autista e accompagnatore nei posti più vari, seguendo le sue precise indicazioni, senza mai chiedere nè avere spiegazioni; la richiesta di reperimento di un alloggio in via (OMISSIS), cui T. non aveva dato seguito alcuno, era stata accompagnata dal riferito, testuale commento di G.: “Vabbè addubbu no iardinu” (“Va bene, mi arrangio nel giardino”, n.d.r.), che lasciava intendere la scarsa importanza attribuita dal capo mafia alla sua stabile sistemazione in quel sito, adattandosi ad una soluzione di ripiego;
il presunto preavviso di G. a T. affinchè non restasse a (OMISSIS), il (OMISSIS), non era stato tale in realtà, poichè il capo mafia si era limitato a chiedere al suo autista dove avrebbe trascorso la giornata di domenica (OMISSIS), senza dargli alcun avvertimento precauzionale, e, in ogni caso, costituiva un elemento privo di alcuna rilevanza causale rispetto all’azione stragista ed alla presunta partecipazione ad essa di T..
La sentenza impugnata aveva confuso quanto prevedibile ex ante con quanto dedotto dall’imputato solo successivamente al gravissimo delitto, alla luce di tutti i fatti, le parole e gli avvenimenti vissuti, lealmente riferiti da T. all’autorità giudiziaria insieme alle sue intuizioni, anche sbagliate, non assimilabili ad alcuna forma di partecipazione criminosa.
L’eventuale supporto logistico fornito da T. a G. nella fase preparatoria del delitto era stato, dunque, privo di quella consapevolezza necessaria ai fini del giudizio di responsabilità sotto il profilo della rappresentazione e volizione del fatto delittuoso ascritto.
Il consapevole collegamento della condotta tenuta da T. alla strage del 19 luglio, prima che essa fosse commessa, come erroneamente ritenuto dai giudici di merito sulla base dell’interrogatorio reso dallo stesso imputato il 25 maggio 2011, doveva invece essere correttamente riferito al tempo successivo in cui T., due o tre giorni dopo il 19 luglio, sentì proferire da G. la frase: “na spirugghiammo” (“ci arrangiammo” in italiano, n.d.r.), acquisendo solo in quel momento una chiave di lettura unitaria delle vicende precedentemente vissute che lo portò a prendere coscienza del gravissimo delitto perpetrato dagli uomini della sua cosca.
Aggiunge il ricorrente che il delitto di strage richiede, a norma dell’art. 422 c.p., il dolo specifico palesemente insussistente nel caso in esame e incompatibile con il dolo indiretto o eventuale.
3.2. Con il secondo motivo il difensore di T. denuncia violazione di legge e vizio di motivazione sotto il profilo dell’esclusione del vincolo della continuazione tra il fatto per cui l’imputato è stato già giudicato come responsabile del delitto previsto dall’art. 416 bis c.p., e quello di concorso in strage, contestatogli in questo processo.
3.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione dell’art. 230 c.p., e manifesta illogicità della motivazione per avere i giudici di merito applicato a T. la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di tre anni, in assenza del presupposto di attuale pericolosità sociale, chiaramente emergente dal testo della medesima sentenza: T., prima della collaborazione, intrapresa nell’aprile 2011, aveva subito condanna per associazione per delinquere di tipo mafioso e aveva già terminato di espiare la relativa pena, essendo libero dal 1999; a lui sono state riconosciute sia l’attenuante della prestata collaborazione, applicata nella massima incidenza riduttiva della pena, con elisione della pur contestata aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, cit.; sia le attenuanti generiche, stimate prevalenti sulla recidiva e su tutte le altre aggravanti contestate.
In aperto contrasto, dunque, con tali positive valutazioni della personalità dell’imputato, palesemente incompatibili con la rilevata attualità di pericolosità sociale, era stata disposta e confermata la suddetta misura di sicurezza.
In conclusione, per tutti i motivi suddetti, T. ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata.
4. Il ricorso di C.S., tramite il difensore, avvocato Rosa Mangiapane del foro di Palermo, articola otto motivi, cui sono allegati sei documenti.
4.1. Il primo e il secondo motivo denunciano la violazione delle stesse norme giuridiche: artt. 368 e 40 c.p., e art. 42 c.p., comma 3; art. 2 Cost., e art. 27 Cost., commi 1 e 3.
La sentenza impugnata, come quella di primo grado, avrebbe erroneamente ritenuto calunniose le dichiarazioni di C., rese nell’udienza dibattimentale del 1 dicembre 1997, laddove l’imputato si era limitato a riferire di avere solo sospettato che fosse To.Sa. la persona intravista in compagnia di S., al momento della consegna a quest’ultimo dell’autovettura rubata dallo stesso C., su commissione di S..
La sentenza impugnata avrebbe erroneamente attribuito a tale dubitativa affermazione efficacia causale rispetto alla successiva condanna di To. non solo per il delitto di furto della suddetta autovettura, ma anche per quello di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso, quale componente del gruppo della (OMISSIS) inserito nel mandamento palermitano di (OMISSIS).
4.2. Illegittimamente sarebbe stata disattesa la richiesta difensiva, di cui al secondo motivo di appello, di derubricare la contestata calunnia all’ipotesi, non aggravata, prevista dall’art. 368 c.p., comma 1, posto che il reato oggetto della pretesa falsa accusa sarebbe stato solo quello di furto aggravato per cui To.
aveva riportato una condanna inferiore a cinque anni.
4.3. Il terzo motivo deduce violazione di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in relazione all’art. 194 c.p.p., comma 1, in combinato disposto con l’art. 210 c.p.p., (nel testo antecedente la riforma di cui alla L. n. 63 del 2001) e con l’art. 191 c.p.p., comma 2.
C., giudicato ex art. 444 c.p.p., per il delitto di concorso in furto aggravato, era stato esaminato come imputato in procedimento connesso, ai sensi dell’art. 210 c.p.p., nel testo previgente.
Tale esame era soggetto alle norme in materia di testimonianza di cui agli artt. 194, 195, 499 e 503 c.p.p.; l’art. 194, comma 3, dispone, tra l’altro, che il testimone non può esprimere apprezzamenti personali, salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione dei fatti; nelle dichiarazioni incriminate, invece, C. aveva espressamente riferito di un sospetto circa la possibile identificazione in To.Sa. della persona in compagnia di S. al momento della consegna dell’autovettura rubata, precisando nel corso della deposizione, come testualmente e per intero riportata nella sentenza di primo grado, di non aver potuto identificare con certezza l’accompagnatore di S. a causa della distanza, del fatto che fosse buio e della circostanza che S. gli era subito andato incontro impedendogli di avvicinarsi e di meglio vedere il suo accompagnatore.
Le affermazioni di C., nell’esame reso il 1 dicembre 1997, non integrerebbero, dunque, dichiarazioni di fatti specifici nè conterrebbero una sicura identificazione personale, ma esprimerebbero solo deduzioni e impressioni del loro autore, con la conseguenza che non potrebbero costituire materia del delitto di calunnia, come invece affermato in sentenza.
Nè a rendere meno incerte le suddette dichiarazioni potrebbe soccorrere una valutazione globale delle propalazioni rese da C. nell’intera vicenda processuale, come sembra ritenere il giudice di primo grado seguito da quello di appello, laddove è valorizzata una sorta di progressione accusatoria di C. nei confronti di To.: la natura di reato istantaneo della calunnia e il contenuto della contestazione, limitata a quanto riferito dall’imputato nell’esame del 1 dicembre 1997, e solo in quel contesto, escluderebbero siffatta arbitraria estensione.
4.4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione per omessa valutazione di prova decisiva, costituita dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo nei confronti di To.
S., nel procedimento (OMISSIS), già il (OMISSIS) ed eseguita a suo carico il successivo 21 luglio, per i delitti di associazione per delinquere di tipo mafioso e concorso nel furto della Fiat 126 utilizzata per la strage, sulla base delle dichiarazioni del solo S.V., suffragate dall’ulteriore chiamata in correità di To. da parte di Au.Sa., a riprova del fatto, illegittimamente ignorato in sentenza, che la dichiarata responsabilità di To. per i suddetti reati non fu determinata dalle dichiarazioni incerte e dubitative di C. nei suoi confronti. Quest’ultime dichiarazioni sarebbero state utilizzate come riscontro di quelle provenienti dalle altre fonti, in applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di valutazione delle chiamate in correità, al di fuori di ogni possibilità di previsione e controllo da parte del presunto calunniatore, al quale pertanto non potrebbe attribuirsi a titolo di responsabilità del tutto oggettiva l’intervenuta condanna di To., peraltro anche per un reato (l’associazione per delinquere di tipo mafioso) diverso ed ulteriore rispetto a quello (furto aggravato di autovettura) sul quale soltanto aveva deposto C..
Omettendo di acquisire la detta ordinanza applicativa di misura cautelare per negata rinnovazione del dibattimento, la Corte di assise di appello avrebbe illogicamente attribuito valore di prova della calunnia aggravata, attribuita a C., alle sole sentenze di primo e secondo grado, emesse nel processo cosiddetto (OMISSIS), mentre dal detto documento cautelare si ricavava che ben altre e più solide erano le fonti probatorie della dichiarata colpevolezza di To..
4.5. Il quinto motivo deduce vizio di motivazione con riferimento all’art. 192 c.p.p., comma 1, e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per avere i giudici di merito fondato la riconosciuta responsabilità di C. per il delitto di calunnia sul complesso delle dichiarazioni rese dallo stesso, secondo un’asserita progressione accusatoria nei confronti di To., dedotta da una valutazione globale delle dichiarazioni dell’imputato, mentre la contestazione di cui al capo 3) riguarda uno specifico segmento delle dichiarazioni di C. (e solo quello) attinente alla dubitativa identificazione di To., come tale inidonea ad integrare un’accusa calunniosa, nel verbale di esame reso all’udienza del 1 dicembre 1997.
4.6. Il sesto motivo denuncia ulteriore omissione di prova decisiva e conseguente vizio di motivazione, con riguardo stavolta) ad altra più recente ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa il 2 marzo 2012 nel procedimento (OMISSIS), a seguito della collaborazione di Sp., nei confronti di M.S., Tu.Vi., Vi.Sa., Pu.Ca. e lo stesso Sp..
In tale ordinanza si afferma, testualmente, a proposito dei falsi collaboratori, smascherati da Sp., “l’esistenza di una regia che avrebbe creato una verità parallela, uno schermo, in grado di superare il vaglio processuale mediante meccanismi fondati su ridondanze confermative specularmente elaborate”, grazie ad “una compiuta ricostruzione dei fatti non solo per grandi linee coerente con se stessa, ma anche corrispondente al vero, come se coloro i quali hanno raccontato fatti cui non hanno partecipato – continua l’ordinanza – avessero comunque contezza (o avessero tramite altri avuto contezza) di ciò che effettivamente era accaduto”.
Tali affermazioni, illegittimamente obliterate dal giudice di appello pur risultando la detta ordinanza agli atti del processo di cui l’attuale costituisce uno stralcio, avrebbero consentito di ridimensionare il ruolo di C. e la rilevanza penale della condotta contestatagli, per induzione dello stesso, al pari di S. e An., ad affermare il falso, da parte di soggetti bene informati sulle reali dinamiche della strage, non apparendo affatto credibile l’alternativa ricostruzione di un’autonoma iniziativa falsificatoria dell’imputato, dettata da presunti interessi personali.
In ogni caso, tale regia occulta, evidenziata nella predetta ordinanza del 12 marzo 2012, avrebbe dovuto suffragare, a norma dell’art. 530 c.p.p., commi 2 o 3, quanto meno un ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell’imputato, da altri strumentalizzato e costretto a mentire, per ricorrenza della causa soggettiva di esclusione del reato di cui all’art. 46 c.p., o della causa di giustificazione di cui all’art. 54 c.p., comma 3. 4.7. Il settimo motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione con riguardo al motivo aggiunto di appello, depositato il 12 maggio 2014, con prima udienza davanti alla Corte territoriale fissata per il successivo 28 maggio, postulante l’esclusione ovvero la riduzione della misura di sicurezza della libertà vigilata, già applicata in primo grado per la durata di tre anni, nonostante l’entità della pena diminuita da anni dodici ad anni nove di reclusione, con la conseguente non obbligatorietà di applicazione della medesima misura per un tempo non inferiore a tre anni. 4.8. L’ottavo motivo deduce vizio di motivazione con riguardo all’aumento di pena di anni tre per la recidiva reiterata, nonostante l’aumento derivante dall’applicazione della circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 368 c.p., comma 3. L’omessa valutazione delle suddette prove documentali, costituite dalle ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse nel 1995 e nel 2012, rispettivamente nei processi (OMISSIS) e (OMISSIS), tali da ridimensionare il ruolo di C. nella strategia da altri voluta e diretta dei falsi pentiti, aveva inciso sfavorevolmente sul trattamento sanzionatorio, ingiustificatamente severo, tanto più che le uniche dichiarazioni di C., incriminate come calunniose, erano quelle rese il (OMISSIS), costituenti un limitato segmento delle complessive propalazioni dell’imputato. 5. Il (OMISSIS), nel quattordicesimo giorno prima dell’odierna udienza, sono stati depositati motivi aggiunti dall’avvocato Rosa Mangiapane nell’interesse dell’imputato C.. In essi il difensore deduce una questione che assume rilevabile d’ufficio a norma dell’art. 609 c.p.p., comma 2, e cioè l’avvenuta prescrizione del delitto di calunnia contestato all’imputato. Nell’informazione di garanzia e contestuale invito a presentarsi, notificati a C. il 12 luglio 2010, il reato ipotizzato era quello previsto dall’art. 368 c.p., commi 1 e 3, non aggravato dalla recidiva, contestata solo nella richiesta di rinvio a giudizio del 19 dicembre 2012, intervenuta dopo il decorso di quindici anni dalla data del 1 dicembre 1997 dell’ipotizzato reato e, quindi, oltre il termine prorogato di prescrizione previsto dalla più favorevole disciplina introdotta dalla L. n. 251 del 2005, pari ad anni dodici (massimo della pena edittale per il delitto di cui all’art. 368 c.p., commi 1 e 4) aumentata di un quarto (pari ad anni tre). Sempre il 16 novembre u.s. il difensore di C. ha depositato richiesta di archiviazione, presentata il 30 luglio 2015 al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Caltanissetta dalla locale Procura della Repubblica nei confronti di B.M., Ri.Vi. e L.B.S., in qualità di collaboratori del dirigente della Squadra mobile di Palermo, dottor L.B.A., con riguardo al reato di cui all’art. 81 cpv. c.p., art. 368 c.p., commi 1 e 3, in ipotesi commesso in (OMISSIS) ed altrove, dal (OMISSIS) fino al (OMISSIS).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di T.F. è fondato limitatamente all’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata;
il ricorso di C.S. è invece fondato nella denunciata insussistenza del delitto di calunnia aggravata a lui contestato.
2.1. Iniziando dall’esame del ricorso di T., non merita accoglimento il primo motivo che denuncia, come anticipato, la violazione di legge penale e il vizio di motivazione per avere i giudici di merito riconosciuto e confermato la partecipazione dell’imputato al delitto di strage, commesso il (OMISSIS), in Palermo, nonostante la denunciata insussistenza dell’elemento materiale e, specialmente, dell’elemento psicologico del concorso di T. nel medesimo delitto.
Ritiene, invece, la Corte che legittimamente e motivatamente i giudici di merito, nelle conformi sentenze di primo e secondo grado, abbiano ritenuto che T. sia stato concorrente nel delitto di strage in danno del giudice B.P. e degli uomini della sua scorta.
Tale convincimento si fonda sulle dichiarazioni confessorie di T., nell’interrogatorio reso il 25 maggio 2011, alla presenza del suo difensore, laddove ebbe testualmente ad ammettere che, in occasione dell’accompagnamento di G. in via (OMISSIS), nelle settimane immediatamente precedenti il tragico attentato, egli ebbe la “piena consapevolezza”, sulla base delle parole pronunciate dal capo mafia e di altri riferiti elementi, che si stesse preparando “qualcosa di eclatante”, pur non essendo stato messo a conoscenza del preciso obiettivo da colpire, se dovesse essere “un politico…, un altro magistrato… o chiunque esso sia” (c.f.r., testualmente, le pagine 131-132 e 134-136 della sentenza impugnata).
Gli elementi storici e logici indicati da T., a sostegno di quella da lui stesso definita come sua “piena consapevolezza” della preparazione di “qualcosa di eclatante”, sono stati così ricapitolati dalla Corte territoriale, secondo una ricostruzione fedele a quanto dichiarato dall’imputato ed esente da incongruenze logiche: a) le parole “E’ zona che scotta”, pronunciate da G. in occasione del secondo passaggio in via (OMISSIS), in compagnia del suo autista di fiducia, T., invitato a procedere lentamente; b) l’incarico conferito all’imputato da G. di trovargli una casa in via (OMISSIS), senza la mediazione di un’agenzia e senza formalizzazione del contratto, con impegno di pagamento dei canoni di locazione in anticipo ed in contanti; c) la risposta di G. a T., una volta edotto che la casa non era stata trovata (ma, in realtà, neppure cercata dall’imputato come da questi riferito nel corso dell’interrogatorio), rivelatrice della ferma determinazione del capo mafia (“addubbu no iardina”) a trovare comunque una allocazione in via (OMISSIS), adattandosi a sistemarsi nel giardino (agrumeto) ivi esistente; d) l’interesse e l’impegno manifestati da G. a presidiare personalmente la via (OMISSIS), segno eloquente secondo l’immediata percezione dell’imputato, che ivi dovesse essere commesso “qualcosa di eclatante” sulla pubblica via e con pericolo, dunque, per la incolumità di più persone.
T., come pure sottolineato in sentenza, non ha trascurato di riferire la quotidiana assistenza prestata al capo mafia latitante anche nei giorni precedenti la strage del (OMISSIS), per avere accompagnato G. in vari posti, dove incontrava gli altri membri di “(OMISSIS)”, senza che l’imputato, all’epoca incensurato e non formalmente affiliato, e, perciò, in condizioni di poter assicurare al boss latitante una più sicura copertura, fosse ammesso alle riunioni dei membri della consorteria mafiosa che precedettero l’attentato; e, ancora, l’ospitalità offerta da T., nella casa palermitana dei suoi genitori, soggiornanti a (OMISSIS) durante la stagione estiva, ad esponenti di “(OMISSIS)”, ivi radunatisi per discutere, e anche al solo G., il quale dormì proprio a casa di T. nella notte precedente la strage, allorchè a sera lasciò intendere al suo ospite di non restare a (OMISSIS) nel giorno successivo, domenica (OMISSIS), sincerandosi che il suo autista sarebbe andato al mare in una località fuori città, con l’annotazione che analoghe raccomandazioni a non recarsi a (OMISSIS) e ad evitare l’autostrada (OMISSIS) erano stati rivolti all’imputato in occasione, rispettivamente, del precedente omicidio di Li.Sa. ( (OMISSIS)) e della strage in cui fu ucciso il giudice F.G. ((OMISSIS)).
Con motivazione adeguata e coerente la Corte territoriale ha ritenuto le predette dichiarazioni, rese da T. il 25 maggio 2011, nella fase iniziale della sua collaborazione con la giustizia, avviata nel precedente mese di aprile 2011, più attendibili rispetto alle successive dichiarazioni da lui effettuate nell’udienza del 15 febbraio 2013, nel corso del giudizio abbreviato, allorchè aveva cercato di ridimensionare il proprio ruolo nella fase preparatoria dell’attentato, precisando di aver intuito che G. volesse, in via (OMISSIS), compiere un’estorsione o attuare un’azione di ritorsione nei confronti di persona non piegatasi al volere del clan, ma non la strage purtroppo ivi perpetrata.
Agevolmente la Corte ha replicato ai rilievi difensivi, sul punto, con la maggiore autenticità e plausibilità delle precedenti dichiarazioni di T. circa la sua “piena consapevolezza”, così testualmente definita dallo stesso imputato, nel momento in cui prestava i suoi servizi a G., che si stava preparando un attentato “eclatante”, in via (OMISSIS), contro una persona importante, non altrimenti giustificandosi, come all’epoca apprezzato dallo stesso T. e da lui riferito nell’interrogatorio del 25 maggio 2011, l’impegno diretto di G. a rendersi personalmente presente in via (OMISSIS), adattandosi a sistemarsi anche nel giardino ivi esistente dopo il vano tentativo di trovare un appartamento. Un’estorsione o una ritorsione nei confronti di un imprenditore renitente al pagamento del pizzo non avrebbe imposto la diretta partecipazione del capo, nè un’azione da compiere sulla pubblica via con messa in pericolo dell’incolumità collettiva, come annota logicamente la sentenza impugnata; senza tacere che l’imputato era a conoscenza della micidiale potenza di fuoco della cosca, essendo stato testimone oculare del trasporto di un notevole numero di armi, nascoste nei pannelli laterali di un’autovettura di grossa cilindrata, in occasione di un precedente trasferimento di alcuni capi e affiliati di (OMISSIS) a (OMISSIS), qualche tempo prima della strage di (OMISSIS), al fine di uccidere il giudice F. nella capitale, progetto non riuscito per i rigorosi controlli di polizia, come pure riferito dallo stesso T..
La prova a carico dell’imputato, non attinto da alcuna chiamata in correità, neppure da parte di Sp.Ga., collaboratore dal 2008, è stata dunque ravvisata nella ritenuta valenza confessoria delle dichiarazioni da lui rese il 25 maggio 2011.
La confessione, com’è noto, può costituire prova sufficiente della responsabilità del confidente, indipendentemente dall’esistenza di riscontri esterni, non essendo suscettibili di applicazione analogica i limiti previsti dall’art. 192 c.p.p., per la chiamata in correità, sempre che il giudice prenda in esame le circostanze oggettive e soggettive che hanno determinato e accompagnato la dichiarazione e dia ragione, con logica motivazione, delle circostanze che escludono intendimenti autocalunniatori o l’intervenuta costrizione dell’interessato (Sez. 6, n. 13085 del 3/10/2013, dep. 2014, Amato, Rv. 259489; Sez. 4, n. 20591 del 05/03/2008, D’Avanzo, Rv. 240213;
Sez. 1, n. 4790 del 13/01/1997, Savi, Rv. 207577).
E, nel caso di specie, l’attendibilità di T. è stata sottoposta ad adeguato e coerente vaglio con giudizio ampiamente positivo e incontroverso in causa.
Resta da esaminare il tema giuridico posto con il primo motivo di ricorso e riassumibile nel seguente quesito: se, ai fini del concorso nel delitto di strage, è sufficiente un contributo che interessi la sola fase preparatoria e di organizzazione logistica del reato commesso da altri concorrenti neppure conosciuti dall’agente, e, soprattutto, se sia configurabile il dolo di partecipazione in colui che si limiti a prestare un contributo circoscritto alla preparazione dell’azione delittuosa senza conoscerne le modalità esecutive e la stessa vittima designata, nella sola consapevolezza di un perseguito evento omicidiario di rilevante impatto sul territorio.
Ritiene la Corte che sia corretta la risposta positiva data ad entrambi i quesiti dai giudici di merito.
Sul piano oggettivo, è già stato affermato che la partecipazione alle attività preparatorie del delitto e, in particolare, ai sopralluoghi nella sede della progettata esecuzione di esso, costituisce condotta concorsuale a norma dell’art. 110 c.p., poichè la concezione unitaria del concorso di persone nel reato comporta che l’attività del concorrente possa essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva, anche soltanto mediante il rafforzamento dell’altrui proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera dei concorrenti. (Sez. 2, n. 23395 del 13/04/2011, Faccioli, Rv. 250688; Sez. 5, n. 40449 del 10/07/2009, Scognamiglio, Rv. 244916; Sez. 1, n. 6489 del 28/01/1998, Mendoza, Rv. 210757; Sez. 1, n. 11159 del 10/06/1982, Valpreda, Rv. 156308).
Sul piano soggettivo, la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all’opera di un altro che rimane ignaro (Sez. U, n. 31 del 22/11/2000, dep. 2001, Sormani, Rv. 218525). Assume carattere decisivo l’unitarietà del “fatto collettivo” realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicchè è sufficiente che ciascun agente abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (Sez. 2, n. 18745 del 15/01/2013, Ambrosiano, Rv. 255260; Sez. 6, n. 1271 del 05/12/2003, dep. 2004, Misuraca, Rv. 228424).
Discende che il contributo causale alla verificazione dell’evento criminoso non richiede la compiuta conoscenza da parte del singolo concorrente e, segnatamente, di colui che partecipi alla sola fase preparatoria, di tutti i dettagli del delitto da compiere, poichè è sufficiente la volontà dell’agente di prestare il proprio apporto nella consapevolezza della finalizzazione di esso al fatto criminoso comune; ciò che conta è la conoscenza del singolo concorrente che il segmento di condotta da lui posto in essere si inserisce in una più ampia azione criminosa, distribuita tra più soggetti investiti di compiti diversi, proporzionati per numero e qualità alla complessità dell’impresa da realizzare, di cui il proprio specifico apporto costituisce un tassello utile al conseguimento dell’obiettivo finale.
Tale assunto è di particolare rilievo nelle associazioni criminali complesse, come quelle di tipo mafioso, organizzate secondo un modello rigorosamente gerarchico, con articolata distribuzione di compiti tra gli associati, e contraddistinte da un rigido vincolo di riservatezza interna, tale da precludere ai meri compartecipi la precisa conoscenza delle strategie e degli obiettivi di maggior rilievo perseguiti da capi e dirigenti, per non comprometterne la segretezza e il successo.
Nel caso in esame T., allo stesso modo di Sp., fu investito di specifici segmenti preparatori dell’eclatante azione criminosa, portata a compimento il (OMISSIS) dall’associazione di tipo mafioso di cui era membro.
Il suo contributo, consistito nello svolgere il compito di autista e in genere di uomo di fiducia del capo, fu certamente efficace rispetto al delitto commesso, perchè permise al principale organizzatore di esso, il latitante G.G., nell’imminenza del tragico attentato, di mantenersi in costante contatto con i sodali del suo gruppo; di compiere almeno due sopralluoghi sul luogo del progettato delitto; di ricevere costante ospitalità, anche alla vigilia della strage, nella casa palermitana di T., quest’ultimo reclutato dal boss, proprio perchè appartenente a famiglia estranea al contesto mafioso e all’epoca incensurato; e tutto ciò nella consapevolezza dell’imputato, come da lui stesso ammesso, che stava preparandosi un’azione omicidiaria “eclatante”, tale da poter mettere in pericolo anche la pubblica incolumità, considerata la scelta del giardino come luogo dove G. si sarebbe personalmente appostato, come preannunziato a T., nel corso delle attività preparatorie, con le già ricordate parole: “addubbu no iardino” (“mi accomodo nel giardino”, n.d.r.), tali da lasciare intendere che l’azione sarebbe stata commessa sulla pubblica via, normalmente frequentata da più persone.
E tanto esclude, per la rilevanza dell’omicidio in preparazione e l’estensione del suo scenario, come tali subito percepite da T., la ricorrenza del dolo eventuale o del concorso anomalo, dedotti solo in via subordinata dal ricorrente ed incompatibili col dolo specifico postulato dal delitto di strage di cui all’art. 422 c.p. (con riguardo all’elemento psicologico del reato contestato, si richiamano: Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini, Rv.
235666; Sez. 2, n. 1695 del 13/01/1994, Rizzi, Rv. 196506; Sez. 1, n. 11394 del 11/02/1991, Abel, Rv. 188640).
In sintesi, poichè T. fu consapevole, nel corso dell’attività preparatoria cui prestò il suo volontario contributo, che stava per essere commesso un delitto di omicidio con modalità eclatanti, pur rimanendo a lui nascosti l’identità della vittima e il preciso piano esecutivo, risulta infondato il primo motivo di ricorso censurante il riconoscimento del concorso di T. nel delitto di strage per asserito difetto dell’elemento oggettivo e soggettivo.
2.2. Il secondo motivo circa l’illegittima esclusione del vincolo della continuazione tra il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, “(OMISSIS)”, per cui T. è già stato condannato e ha espiato la relativa pena, e il delitto di strage, oggetto del presente processo, è manifestamente infondato e, quindi, inammissibile.
La sentenza impugnata, infatti, spiega con motivazione ineccepibile, esente da violazioni del diritto e della logica, che, al momento dell’adesione di T. al sodalizio criminale, nell’anno 1991, quando accettò di diventare l’autista e l’uomo di fiducia del capo mafia, G.G., non vi erano elementi per ritenere che egli si fosse prefigurato di fornire un qualsivoglia contributo alla commissione del delitto di strage, dovendo al contrario ritenersi, sulla base della ricostruzione della vicenda fornita dallo stesso imputato, che T. sia venuto progressivamente a conoscenza dei propositi criminosi di G. e dei suoi sodali, giungendovi per deduzioni logiche operate sui fatti che si andavano verificando nel corso dei giorni antecedenti il (OMISSIS) anche con la sua volontaria partecipazione, come si è detto.
2.3. E’, invece, fondato il terzo motivo di ricorso.
Sussiste la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, laddove, da un lato, riconosce la piena attendibilità intrinseca di T., reo confesso da libero e senza che nessuno dei pur numerosi chiamanti, Sp. incluso, lo avesse indicato come implicato nelle attività pertinenti alla strage del (OMISSIS), con il conseguente riconoscimento e applicazione a suo favore, nella massima estensione prevista, della circostanza attenuante della prestata collaborazione con la giustizia, di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, cit., considerato l’insieme delle sue rivelazioni utili alla veridica individuazione dei soggetti coinvolti nell’esecuzione della strage dopo i precedenti depistaggi, e con il riconoscimento altresì delle circostanze attenuanti generiche in misura prevalente rispetto alle aggravanti contestate; e, dall’altro lato, la ritenuta attualità della sua pericolosità sociale, illogicamente giustificata in sentenza per i suoi contatti con alcuni membri della famiglia G., peraltro genericamente collocati dopo la sua scarcerazione, avvenuta nell’anno 1999, e, quindi, sicuramente non successivi alla decisione di collaborare con la giustizia a partire dall’aprile 2011, due anni prima della sentenza di primo grado.
La palese mancanza dell’indefettibile condizione di applicazione della misura di sicurezza, costituita dalla pericolosità sociale in termini di attualità, ossia dalla probabilità che T. commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati, a norma degli artt. 202 e 203 c.p., impone dunque l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla disposta applicazione della libertà vigilata, che va pertanto eliminata.
3. Passando all’esame del ricorso proposto da C.S., va subito rilevata la fondatezza dei primi tre motivi che sostanzialmente denunciano la violazione di legge per insussistenza degli elementi costitutivi del contestato delitto di calunnia e il vizio di motivazione per manifesta illogicità.
A C.S. il delitto di calunnia aggravata risulta testualmente contestato come segue: “… nel corso dell’esame dibattimentale reso nell’ambito del primo grado del procedimento “(OMISSIS)”… per la strage di via (OMISSIS), incolpava falsamente To.Sa. di aver partecipato al furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba il (OMISSIS) in via (OMISSIS), per il quale lo stesso To. veniva condannato alla pena dell’ergastolo (in realtà alla pena di anni otto di reclusione, n.d.r.), in particolare dichiarando in quella sede, per la prima volta, tra le altre cose, di aver subito sospettato che il soggetto in compagnia del quale S.V. si trovava ad attenderlo nel luogo convenuto per la consegna della vettura fosse proprio il predetto To.Sa.; in (OMISSIS)”.
Il ricorrente ha evidenziato che, contrariamente all’assunto dei giudici di merito, che hanno parlato anche di una sorta di progressione accusatoria che sarebbe culminata nella falsa incolpazione di To. come partecipe al furto della autovettura utilizzata per la commissione della strage, C. in realtà non accusò mai To. di coinvolgimento nel detto delitto neppure in forma indiretta o maliziosamente prospettata in forma dubitativa.
La lettura delle dichiarazioni dell’imputato nell’esame reso il 1 dicembre 1997, testualmente riportate nella sentenza di primo grado confermata da quella di appello, conforta l’assunto del ricorrente e, con esso, il vizio di motivazione per illogicità manifesta derivante dal travisamento della prova.
A pagina 1244 della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta, in data 13 marzo 2013, confermata dalla sentenza della Corte di assise di appello nissena del 9 gennaio 2015, oggetto dell’attuale ricorso, si legge che “dopo aver reiteratamente escluso in più occasioni che fosse proprio lui ( To., n.d.r.) il soggetto che si trovava in compagnia dello S. al momento della consegna della Fiat 126 (utilizzata per la strage, n.d.r.), inopinatamente il C. cambiava versione in occasione del suo esame reso all’udienza del giorno 1/12/2007 (rectius:
1/12/1997, n.d.r.) nel processo cosiddetto “(OMISSIS)” di primo grado” (v. pagina 1244 citata).
Segue a pagina 1250 della medesima sentenza il passaggio delle dichiarazioni di C., da cui emergerebbe, per la prima ed unica volta, la pretesa falsa incolpazione di To. come persona in compagnia di S., al momento della consegna a quest’ultimo della Fiat 126, rubata da C. su commissione dello stesso S.. In particolare, invitato a descrivere la persona suddetta, C. dichiarò testualmente che aveva un’altezza: “Sul metro e 50, un metro e 60”; e aggiunse: “Io, sul primo momento, pensai subito, sospettati subito che sarebbe stato To.
S. (rectius: To., n.d.r.), però poi non essendo sicuro ovviamente, perchè non riuscivo (a vedere, n.d.r.) bene, perchè lui cercava di nascondersi, di non farsi vedere da me…”; e, a questo punto, alla domanda del Pubblico Ministero se il fatto che avesse pensato trattarsi di To. lo stesse dicendo allora per la prima volta, C. rispose: “Sì, sì. Infatti non l’ho mai voluto dire prima perchè non ero certo che (era) lui, perchè se no Io avrei detto al primo momento, se l’avrei riconosciuto che era lui” (c.f.r. la citata pagina 1250 della sentenza di primo grado).
Risulta, pertanto, palese che C. ha evocato la presenza di To., nel momento della pretesa consegna dell’autovettura da lui rubata a S., soltanto nell’esame dibattimentale del 1 dicembre 1997; tale presenza, in quella sede, fu riferita in termini dichiaratamente incerti, tali da giustificare la mancata menzione di To. nei precedenti numerosi interrogatori sullo stesso tema, secondo una linea di coerenza manifestamente antitetica alla progressione accusatoria di cui è menzione nelle sentenze di merito.
Sussiste, dunque, ad avviso della Corte il vizio di motivazione per travisamento della prova della presunta calunnia, espressamente indicata, nella contestazione del delitto e nella motivazione della condanna, come commessa nel corso dell’esame reso da C. il (OMISSIS), mentre, come emerge dal testuale contenuto delle dichiarazioni dell’imputato sopra trascritte, l’individuazione di To. come accompagnatore di S., nella predetta circostanza, fu del tutto incerta da parte di C. e proprio tale incertezza fu coerentemente addotta dall’imputato a giustificazione della mancata menzione di To. nel corso dei precedenti interrogatori.
Al riguardo va richiamata la costante giurisprudenza della Corte, secondo la quale il vizio di travisamento della prova – desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purchè specificamente indicati dal ricorrente – è ravvisabile quando l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per l’esistenza di una palese difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia tratto, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetto “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio. (Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007 Musurneci, Rv. 237207; Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009 Belluccia1 Rv.
244623; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014 Del Gaudio Rv. 258774).
Nel caso in esame, per le ragioni anzidette, sussiste evidente difformità tra il contenuto della prova e i risultati da essa tratti, che, in contrasto con quanto affermato nella sentenza impugnata, palesano l’insussistenza del contestato delitto di calunnia, giacchè esso postula che la falsa incolpazione contenga in sè gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile, ciò che non può sostenersi nel caso di incerto riconoscimento da parte del presunto calunniatore del soggetto che avrebbe partecipato ad un delitto (c.f.r., tra le molte, Sez. 6, n. 32325 del 04/05/2010, Grazioso, Rv. 248079).
La fondatezza dei primi motivi del ricorso proposto da C., illogicamente riconosciuto calunniatore in danno di To., per una sorta di effetto quasi traslato della sicura falsità delle sue complessive dichiarazioni con riguardo all’indicazione di altri autori delle attività preparatorie ed esecutive del delitto, rende superfluo l’esame di tutti gli altri motivi.
Si impone, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata senza rinvio perchè il delitto di calunnia, così come contestato, non sussiste, alla luce delle risultanze processuali richiamate dai giudici di merito.
4. La confermata condanna di T. per il delitto di concorso in strage, salvo l’accoglimento del suo ricorso solo sulla misura di sicurezza, impone la condanna dello stesso imputato alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, meglio precisate nel dispositivo che segue, da liquidare, in considerazione della complessità del processo e dell’impegno difensivo profuso, nelle complessive somme indicate in dispositivo con riguardo ai plurimi istanti.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata quanto a C. S., perchè il fatto a lui contestato non sussiste; quanto a T.F., limitatamente alla misura di sicurezza della libertà vigilata che elimina.
Rigetta nel resto il ricorso di T. che condanna alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili che liquida: a) quanto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri in complessivi Euro 3.600,00 (tremilaseicento), oltre accessori come per legge; b) quanto al Ministero della Giustizia in complessivi Euro 3.600,00 (tremilaseicento), oltre accessori come per legge; c) quanto a c.s., c.G. e G.G. in complessivi Euro 5.040 (cinquemilaquaranta), oltre accessori come per legge; d) quanto ad Vu.An., Lo.Cl. e Ma., Co.Ne., c.e. e o., As.Gr., Lu.Gi., T.A. e G.F., Pr.Me.; L.M.M., A., T. ed An., in complessivi Euro 14.400,00 (quattordicimilaquattrocento), oltre accessori come per legge; e) quanto a P.D.S.M., T.D.; c. e., e. e r. in complessivi Euro 7.200,00 (settemiladuecento), oltre accessori come per legge; f) quanto a c.g., t. e r. in complessivi Euro 5.760,00 (cinquemilasettecentosessanta), oltre accessori come per legge; g) quanto a B.S. in complessivi Euro 1.500,00 (millecinquecento), oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 30 novembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2016
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