La c.d. “incapacita’ lavorativa” non e’ il danno: essa e’ solo la causa del danno, il quale e’ invece costituito dalla perdita o dalla riduzione del reddito da lavoro.

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Il motivo sostiene una tesi giuridica cosi’ riassumibile:

(-) il giudice d’appello ha rigettato la domanda proposta dai fratelli della vittima primaria (ovvero il bimbo nato con handicap a causa dell’ipossia intra partum) sul presupposto che mancasse il nesso di “causalita’ giuridica”;

(-) parlando di “causalita’ giuridica”, la Corte d’appello ha implicitamente fatto riferimento alla previsione di cui all’articolo 1225 c.c.;

(-) il giudice di primo grado, tuttavia, aveva qualificato la domanda attorea proposta dai fratelli della vittima primaria come “azione contrattuale e cumulativa extracontrattuale”;

(-) tale qualificazione non era stata impugnata dall’Universita’, con la conseguenza che su essa si era formato il giudicato;

(-) ergo, il giudicato formatosi sulla qualificazione extracontrattuale della domanda impediva l’applicabilita’ dell’articolo e 1225 c.c..

1.2. Il motivo e’ infondato.

I ricorrenti in sostanza lamentano la formazione del giudicato sulla qualificazione giuridica della loro domanda, per trarne la conseguenza che, definitivamente qualificata la loro azione come extracontrattuale, essi avevano diritto al risarcimento anche dei danni imprevedibili, dal momento che l’irrisarcibilita’ di questi ultimi e’ prevista dall’articolo 1225 c.c. per le sole ipotesi di inadempimento contrattuale.

Ma a questa conclusione osta la circostanza che l’appello proposto dall’Universita’, col quale si contestava l’esistenza e la risarcibilita’ del danno patito da fratelli postumi della vittima primaria, ha impedito la formazione di qualsiasi giudicato tanto sull’esistenza del danno, quanto sulla sua derivazione causale dall’illecito, quanto, infine, sulla sua risarcibilita’.

Infatti e’ certamente vero che il giudicato possa formarsi anche sulla qualificazione giuridica della domanda adottata dal primo giudice (cosi’, tra le tante, Sez. 2, Sentenza n. 1152 del 10/05/1963; da ultimo, nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 18427 del 01/08/2013).

Questa regola ha tuttavia un limite: nessun giudicato puo’ formarsi sulla qualificazione giuridica data dal primo giudice alla domanda, quando l’appellante, pur non contestando formalmente quella qualificazione, col suo gravame sottoponga comunque al giudice d’appello una questione tale che, per essere accolta, presuppone una qualificazione giuridica della domanda diversa da quella adottata dal primo giudice.

Questo principio, applicato alla materia del risarcimento del danno, comporta che quando la pronuncia sull’esistenza e sulla risarcibilita’ del danno civile dipenda dalla qualificazione della domanda, l’appello con cui si deduca l’inesistenza del danno rimette necessariamente in discussione anche la suddetta qualificazione, ed impedisce la formazione del giudicato.

Nel nostro caso pertanto, una volta accolta dal Tribunale la domanda di risarcimento del danno proposta da (OMISSIS) e (OMISSIS), ed una volta proposta impugnazione avverso il capo di sentenza che ha ritenuto esistente quel danno, il giudice d’appello venne per cio’ solo investito del potere di riqualificare ex officio la domanda di risarcimento.

Questi principi sono da molti anni pacifici nella giurisprudenza di questa Corte: a partire da Sez. 3, Sentenza n. 2734 del 25/06/1977 (in seguito sempre conforme), la quale appunto stabili’ che “quando la qualificazione giuridica dei fatti costituisce esclusivamente una premessa logica della decisione di merito e non una questione formante oggetto di una specifica ed autonoma controversia, l’oggetto della pronuncia del giudice e’ costituito esclusivamente dall’attribuzione (…) del bene della vita conteso, onde il giudicato si forma sull’accoglimento o sul rigetto della domanda e soltanto in via indiretta e mediata sulle premesse meramente logiche della decisione; con la conseguenza che, se viene impugnata la pronunzia sul merito, il giudice dell’impugnazione non e’ in alcun modo vincolato ai criteri seguiti dal primo giudice per procedere alla qualificazione giuridica dei fatti”.

A tale principio deve pertanto darsi, in questa sede, continuita’.

2. Il secondo motivo del ricorso principale.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 1223, 2043, 2056, 2059, 2697, 2727 e 2729 c.c.; articolo 115 c.p.c.; articoli 40 e 41 c.p., articoli 2, 3 e 29 Cost..

Deducono, al riguardo, che – anche a prescindere dall’applicabilita’ al presente giudizio dell’articolo 1225 c.c. – la Corte d’appello avrebbe comunque violato le regole che disciplinano il rapporto di causalita’ materiale tra illecito e danno.

Assumono che, nel caso di specie, si sarebbe dovuto ritenere conforme a normalita’ che i fratelli di persona nata con gravi malformazioni soffrano per le condizioni del proprio familiare, e di conseguenza si sarebbe dovuta affermare, invece che negare, l’esistenza d’un valido nesso di causa tra l’errore dei sanitari e il danno non patrimoniale patito dagli odierni ricorrenti.

Soggiungono essere “assolutamente irrilevante” (cosi’ il ricorso, p. 44) la circostanza che essi siano nati dopo la commissione del fatto illecito. Sostengono di avere anch’essi diritto a vivere in una famiglia serena, e che tale diritto e’ stato leso dall’errore commesso dai sanitari, i quali – provocando le lesioni al loro fratello prenato (OMISSIS) – fecero si’ che essi, alla loro nascita, vennero a trovarsi in una “una drammatica situazione familiare”.

2.2. Il motivo e’ infondato.

E’ irrilevante, nel presente giudizio, stabilire se il pregiudizio del quale gli odierni ricorrenti chiedono il ristoro debba essere disciplinato dalle regole sulla causalita’ materiale (dettate dagli articoli 40 e 41 c.p.), ovvero da quelle sulla causalita’ giuridica (articolo 1225 c.c.), perche’ tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, tutte le suddette regole impediscono di ravvisare un valido nesso di causa tra la condotta del sanitario che provochi lesioni ad un neonato, e il disagio dei fratelli venuti al mondo, rispettivamente, uno e sei anni dopo.

2.3. Tra quella condotta e quel danno non v’e’, in primo luogo, causalita’ materiale.

Il concepimento e la nascita d’un essere umano sono conseguenze di atti umani coscienti e volontari.

Qualsiasi atto umano cosciente e volontario, in quanto libero nel fine e non necessitato, per risalente opinione (filosofica, prima che giuridica), interrompe qualsiasi nesso di causa.

Mentre e’ infatti necessita’ fisica – ad esempio – che un grave sia attratto al suolo con un’accelerazione di 9,8 metri al secondo quadrato; e’ necessita’ logica che il quadrato di quattro sia sedici; e’ necessita’ chimica che idrogeno ed ossigeno formino una molecola di acqua, la scelta di generare o non generare figli non e’ una conseguenza necessitata di alcun atto o fatto altrui.

Ne consegue che la scelta dei genitori degli odierni ricorrenti di generare dei figli non puo’ dirsi “conseguenza” dell’errore commesso dai sanitari. E se quella scelta non fu conseguenza dell’errore medico, nemmeno potra’ esserlo il disagio e gli altri pregiudizi lamentati dagli odierni ricorrenti, venuti al mondo per effetto di quella scelta.

2.4. Tra la condotta dei sanitari e il danno lamentato dagli odierni ricorrenti, in secondo luogo, non puo’ esservi nemmeno un rapporto di causalita’ c.d. giuridica.

Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, chiamate a comporre i contrasti circa l’interpretazione dell’articolo 1223 c.c., e sul modo di intendere il concetto di “danni immediati e diretti”, hanno stabilito che:

(a) i danni “mediati e indiretti”, che l’articolo 1223 c.c. esclude dal novero della risarcibilita’, non vanno confusi coi danni c.d. “di rimbalzo o di riflesso”, i quali pure possono essere considerati conseguenza immediata e diretta dell’illecito;

(b) danni “da rimbalzo” sono quelli che:

(b’) costituiscono una “conseguenza indefettibile” dell’illecito; (b”) attingono in modo immediato persone diverse dalla vittima primaria dall’illecito;

(b”’) attingono persone collegate da un “legame significativo” gia’ esistente con il soggetto danneggiato in via primaria (per tutti questi principi si veda la motivazione di Sez. U, Sentenza n. 9556 del 01/07/2002).

Nel nostro caso, nessuno dei requisiti indicati sub (b) sussiste. Non il primo, perche’ la nascita degli odierni ricorrenti non puo’ dirsi una “conseguenza indefettibile” dell’errore commesso dai medici. Non il secondo, perche’ manca l’immediatezza: al momento del fatto illecito, infatti, nessuno degli odierni ricorrenti ancora esisteva.

Non il terzo, perche’ al momento della commissione dell’illecito non esisteva ancora alcun “legame significativo” tra la vittima primaria ed i suoi fratelli, suscettibile di essere attinto dall’illecito.

2.5. Fin qui gli argomenti giuridici.

Le deduzioni dei ricorrenti appaiono tuttavia non condivisibili anche sul piano della logica formale.

Ammettere, infatti, che il fratello postumo d’un bimbo nato invalido per colpa d’un medico possa domandare a quest’ultimo il risarcimento del danno consistito nel nascere in una famiglia non serena, produrrebbe i seguenti effetti paradossali:

(a) in teoria, anche la madre potrebbe essere ritenuta responsabile del suddetto danno, per aver messo al mondo un secondo figlio, pur sapendo della preesistenza d’un fratello invalido;

(b) non solo nel caso di errore medico, ma dinanzi a qualsiasi fatto illecito lesivo dell’integrita’ psicofisica, tutti i parenti postumi della vittima primaria potrebbero domandare un risarcimento al responsabile; e sinanche il coniuge che contragga le nozze dopo l’infortunio del partner sarebbe legittimato alla richiesta di risarcimento, senza limiti di generazioni o di tempo;

(c) non solo nel caso di danno non patrimoniale, ma anche per il danno patrimoniale i nati postumi potrebbero domandare il risarcimento all’autore dell’illecito: cosi’, ad esempio, i figli postumi del creditore insoddisfatto potrebbero pretendere il danno dal debitore insolvente, per essere nati in una famiglia povera.

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