1. La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275, comma 3, c.p.p., opera non solo in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari.
2. La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. opera non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari. (La Corte, nell’occasione, anche con la decisione qui richiamata e non massimata, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 13, comma primo, e 27, comma secondo, Cost., nella parte in cui fa operare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso
3. E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo, come modificato dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; non manifesta infondatezza ravvisabile in relazione ai seguenti articoli della Costituzione: art. 3, per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, a quelli concernenti i delitti di mafia nonchè per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; art. 13, primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; art. 27, comma 2, con riferimento all’attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
ORDINANZA 10 settembre 2012, n. 34473
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice dell’appello cautelare, accoglieva, con provvedimento del 14 ottobre 2011 – dep. il 2 novembre successivo – l’impugnazione proposta dal pubblico ministero avverso l’ordinanza del 26 settembre 2011, con la quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari, in luogo di quella della custodia carceraria inizialmente disposta, nei confronti di L.M., condannato in esito a giudizio abbreviato per il reato di favoreggiamento personale aggravato dalla circostanza di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, così riqualificata l’originaria imputazione di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso.
Il Tribunale, dopo aver rilevato che anche per i reati aggravati secondo la previsione di cui all’art. 7 del citato decreto opera la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere, al sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 3, concludeva nel senso che detta misura non poteva essere sostituita, in corso di esecuzione, con altra meno afflittiva.
2. Avverso detta ordinanza ricorre per cassazione, per mezzo del difensore, il L., deducendo violazione di legge e difetto di motivazione con argomentazioni che possono così sintetizzarsi: a) la sentenza di condanna ha riqualificato il fatto, evidenziando l’assenza di significativi contatti del L. con la consorteria mafiosa; b) la recente giurisprudenza costituzionale ha individuato, nelle presunzioni di adeguatezza, aspetti della disciplina processuale contrastanti con il principio di uguaglianza, ove non rispondano a “dati di esperienza generalizzati”; c) la presunzione di adeguatezza, nel caso di specie, sarebbe irragionevole, stante l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata di tipo mafioso; d) l’ordinanza impugnata non avrebbe valutato le deduzioni difensive circa la prospettata insussistenza dei presupposti per l’adozione di misure cautelari.
Con atto successivo, il ricorrente, per mezzo di altro difensore, ha depositato motivi nuovi con i quali, richiamato il contrasto giurisprudenziale in materia e dedotta la necessità di una rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, ha sottolineato il carattere eccezionale della disposizione contenuta nell’art. 275 c.p.p., comma 3, e, dunque, l’impossibilità di farne oggetto di interpretazione estensiva e di applicazione analogica per regolare anche le ipotesi diverse da quella della primigenia applicazione della misura e quindi le vicende successive del regime cautelare.
3. La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato in relazione ai criteri tabellari, con ordinanza n. 7586 dei 14 febbraio 2012, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto circa resistenza o meno di un automatismo legale in riferimento anche al perdurare della presunzione legale di pericolosità in ordine ai delitti di matrice mafiosa.
Con decreto del 29 febbraio 2012, il Primo Presidente ha disposto la restituzione del procedimento alla Seconda Sezione Penale per una nuova vantazione circa la sussistenza e attualità del denunciato contrasto, alla luce del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, secondo cui “anche nel momento della sostituzione della misura cautelare giocano le presunzioni” di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3; “una diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto irrazionale il sistema”.
In merito a detto decreto presidenziale la difesa del ricorrente ha depositato note, osservando, tra l’altro, che, a suo avviso, la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere potrebbe trovare giustificazione soltanto nei casi di condotte di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e non anche nei casi di addebiti qualificati dalla circostanza aggravante di cui al citato art. 7: ha chiesto quindi la rimessione della questione alla Corte Costituzionale. Con ordinanza del 18 aprile 2012, dep. l’11 maggio successivo, la Seconda Sezione Penale, pur dopo il decreto del Primo Presidente di restituzione del procedimento – di cui sopra si è detto – ha nuovamente rimesso il ricorso del L. alle Sezioni Unite, rilevando che, alla luce della recente giurisprudenza costituzionale sull’art. 275 c.p.p., comma 3, il momento genetico di applicazione della misura cautelare e le vicende successive del titolo dovrebbero essere autonomamente considerati in riferimento alla ragione che giustifica la deroga alla disciplina ordinaria prevista per i procedimenti di mafia. La massima di esperienza, secondo cui il vincolo di appartenenza a un sodalizio criminoso può essere interrotto soltanto dalla misura cautelare della custodia in carcere, sarebbe altamente persuasiva in riferimento al momento applicativo, non così relativamente al periodo successivo, proprio perchè il vincolo associativo sarebbe stato nel frattempo contrastato dall’applicazione della misura. La parificazione dei due momenti ai fini della presunzione legale di adeguatezza non risulterebbe allora giustificata secondo il criterio della ragionevolezza. Peraltro, non sembrerebbe ragionevole l’estensione di questo trattamento derogatorio, dagli addebiti cautelari di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, agli addebiti per qualsivoglia delitto che sia soltanto aggravato dall’uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione di un’associazione mafiosa, secondo la previsione di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, perchè in tali ultime ipotesi non sarebbe ravvisabile la necessità di recidere un vincolo nemmeno contestato.
4. Con decreto del 14 maggio 2012, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando l’odierna udienza per la trattazione in camera di consiglio.
5. In data 3 luglio 2012 sono state depositate ulteriori note difensive da uno dei difensori, con le quali sono state richiamate tutte le precedenti argomentazioni svolte con il ricorso e con i motivi nuovi, ed è stato inoltre evidenziato quanto segue: a) con la recente sentenza n. 110 del 2012, la Corte Costituzionale ha sottolineato che le precedenti declaratorie di incostituzionalità concernenti l’art. 275, comma 3, del codice di rito, non possono estendersi alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate e che la lettera della norma impugnata – il cui significato non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme – non consente in via interpretativa di conseguire l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre: in proposito, il difensore ha pertanto richiamato la questione di legittimità costituzionale della normativa di riferimento quale già prospettata con le precedenti note; b) la imputazione originariamente elevata a carico del L. è stata poi derubricata in favoreggiamento personale aggravato dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, con conseguente riconosciuta estraneità del L. stesso alla compagine associativa mafiosa: vengono quindi riprese le argomentazioni della Corte Costituzionale circa le presunzioni assolute e si osserva che, quanto al L., la presunzione di adeguatezza della più grave misura cautelare rimarrebbe collegata all’aggravante ritenuta in sentenza; c) nel ritenere giustificato il regime derogatorio in rapporto ai delitti di mafia, la Corte Costituzionale ha in particolare valorizzato l’appartenenza del soggetto ad associazioni mafiose, situazione non riscontrabile nel caso del L. in conseguenza della derubricazione del reato; d) nel corso della vicenda cautelare andrebbe sempre verificata ed assicurata la conformità della misura ai principi di adeguatezza e proporzionalità, potendo il giudice disporre, nel prosieguo, di elementi di valutazione delle esigenze cautelari diversi da quelli presenti al momento dell’applicazione della misura restrittiva: ed in proposito si sostiene che, diversamente opinando, ci si porrebbe in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale nelle numerose sentenze in materia nonchè con l’indirizzo di fondo della stessa sentenza Ambrogio delle Sezioni Unite. A conclusione delle note quali appena illustrate, il difensore ha ribadito la richiesta principale di accoglimento del ricorso e, in subordine, ha chiesto che venga sollevata questione di legittimità costituzionale della normativa di riferimento – art. 275 c.p.p., comma 3, e art. 299 c.p.p., comma 2, – sotto i seguenti profili: 1) nella parte in cui è prevista l’obbligatorietà della custodia in carcere per ogni delitto aggravato dal citato art. 7 ovvero, in più stretta relazione al caso di specie, “commesso al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p.”; 2) nella parte in cui non prevede che l’obbligatorietà della misura della custodia in carcere operi soltanto in occasione del provvedimento genetico, e non quando siano invece successivamente acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il tema di indagine e di decisione sul quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi consiste nello stabilire “se la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275 c.p.p., comma 3, operi solo in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva o riguardi anche le vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari” (nella concreta fattispecie relativa a reato aggravato ai sensi del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, conv. dalla L. 12 luglio 1991, n. 203).
Pertanto, i riferimenti normativi di carattere procedurale sui quali bisogna focalizzare l’attenzione in questa sede sono l’art. 275 c.p.p., comma 3, e art. 299 c.p.p., comma 2, disposizione, quest’ultima, in cui risulta espressamente richiamato lo stesso art. 275, comma 3.
2. L’art. 275 c.p.p., indica i criteri cui il giudice deve attenersi per individuare la misura da ritenersi idonea in relazione alla natura ed at grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto; nel comma 3, dello stesso articolo è però stabilita una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere per i delitti ivi elencati, “salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”:
dunque, per tali delitti, è obbligatoria la più afflittiva delle misure cautelari, purchè sussistano esigenze cautelari, a nulla rilevando la natura ed il grado delle stesse.
L’art. 299 c.p.p., comma 2, è così formulato: “Salvo quanto previsto dall’art. 275, comma 3, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con un’altra meno grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità meno gravose”.
In relazione alle due norme citate, è sorto nella giurisprudenza di questa Corte un contrasto interpretativo in ordine alla questione se la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere, per i reati indicati nell’art. 275 c.p.p., comma 3, debba trovare applicazione solo in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva o riguardi anche le vicende successive a tale momento, con conseguente irrilevanza dell’eventuale attenuazione delle esigenze cautelari (a meno che, ovviamente, le stesse non siano venute a mancare del tutto).
3. Il quadro giurisprudenziale che si è delineato sulla questione giuridica controversa può essere sinteticamente illustrato come segue.
3.1. La tesi secondo cui la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere governa soltanto il momento iniziale della misura è stata prospettata, nell’epoca più recente, da Sez. 6, n. 25167 del 18/02/2010, Gargiulo, Rv. 247595: con detta decisione è stato affermato che l’obbligatorietà della custodia in carcere non può avere riguardo alle vicende successive all’adozione della misura stessa, perchè in tali ipotesi occorre valutare il decorso del tempo e la concreta sussistenza della pericolosità sociale, con la conseguenza della doverosità della verifica circa la possibilità di sostituzione della misura originaria con altra meno afflittiva.
Tale sentenza ha fatto richiamo, per avvalorare la soluzione adottata, a due precedenti datati, e cioè Sez. 6, n. 54 del 13/01/1995, Corea, Rv. 200564 e Sez. 1, n. 3592 del 24/05/1996, Corsanto, Rv. 205490 che enunciarono il seguente principio: “qualora in grado di appello venga affermata, nei confronti di un soggetto sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, la sussistenza, esclusa nel primo giudizio, di uno dei reati per i quali l’art. 275 c.p.p., comma 3, impone la custodia cautelare in carcere, ai fini della decisione sullo status libertatis dell’imputato deve aversi riguardo non già al suddetto art. 275, poichè non si verte in tema di prima applicazione di una misura cautelare di coercizione personale, bensì all’art. 299 c.p.p., comma 4, che prevede la modifica peggiorativa della precedente misura in corso quando risultino aggravate le esigenze cautelari; ne consegue che la pura e semplice intervenuta condanna per uno dei reati predetti, non accompagnata da alcun elemento sintomatico dell’emergere di qualche evenienza negativamente influente sulle esigenze cautelari, non può essere idonea a modificare il quadro giuridico-processuale esistente al momento della concessione degli arresti domiciliari ed a fondare il ripristino della custodia in carcere”. In particolare, la seconda, tra le due decisioni appena richiamate, fonda il proprio convincimento sulla regolamentazione specifica e autonoma del c.d.
ripristino, contemplato dall’art. 300, comma 5, e art. 307, comma 2, del codice di rito. Da tale premessa sì trae la conclusione che i parametri valutativi per l’accertamento delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. b) e c), richiamate dall’art. 300 c.p.p., comma 5, devono essere ricavati dalla regola generale di cui all’art. 299 c.p.p., comma 4, secondo cui “il giudice, su richiesta del p.m., sostituisce la misura applicata con altra più grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più gravose”, ove “le esigenze cautelari risultano aggravate”.
Da ultimo, detto indirizzo interpretativo è stato ribadito, senza però il ricorso ad ulteriori argomentazioni a sostegno, da Sez. 6^, n. 4424 del 20/10/2010, dep. 04/02/2011, D’Angelo, Rv. 249188.
3.2. In senso contrario si è invece orientata la prevalente giurisprudenza.
Già Sez. 1, n. 3274 del 07/07/1992, Bigoni, Rv. 191558 precisò, quanto alla disposizione dell’art. 275 c.p.p., comma 3, nella formulazione allora in vigore, che “la custodia in carcere, una volta accertata l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza dell’indagato, non può essere sostituita con gli arresti domiciliari”: con tale decisione fu ritenuto inapplicabile, in relazione ai reati indicati in detta disposizione, il criterio di scelta sull’idoneità e sull’adeguatezza della misura.
Nello stesso senso, a poca distanza di tempo, si espresse Sez. 1, n. 931 del 04/03/1993, Granato, Rv. 193997, secondo cui “allorchè si procede per uno dei reati indicati nell’art. 275 c.p.p., comma 3, è preclusa la sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra misura meno grave: la permanenza delle esigenze cautelari, ancorchè attenuate, purchè continuino a sussistere i gravi indizi di colpevolezza, comporta il mantenimento dell’originaria più grave misura coercitiva. Per poter far cessare la custodia cautelare devono venire a mancare completamente le suddette esigenze, ma a tale ipotesi consegue la revoca della misura imposta, a norma del comma 1 deil’art. 299 cod. proc. pen il quale, non prevedendo – per ovvi motivi – la riserva contenuta nel comma 2 in ordine ai reati contemplati nel citato art. 275, comma 3, stabilisce che le misure coercitive (e interdittive) sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 c.p.p., o dalle disposizioni relative alle singole misure, ovvero le esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p.”.
Ancora, il principio di diritto, così enunciato, fu ribadito da Sez. 5, n. 1753 del 12/05/1993, Giugliano, Rv. 195408, con specifico riferimento al reato di cui all’art. 416 bis c.p., trattandosi di “uno dei reati per i quali, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, l’unica misura applicabile è la custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”. Nel medesimo senso, a distanza di anni, Sez. 3, n. 2711 del 03/08/1999, dep. 21/04/2000, Valenza, Rv.
216566 – 7 ribadì che “la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere nei confronti di soggetti gravemente indiziati di taluno dei reati previsti dall’art. 275 c.p.p., comma 3, opera in tutte le fasi del procedimento penale, e non solo in occasione dell’applicazione della misura cautelare”. E così ancora:
Sez. 5, n. 24924 del 07/05/2004, Santaniello, Rv. 229877; Sez. 6, n. 9249 del 26/01/2005, Miceli Corchettino, Rv. 230938.
Questo indirizzo interpretativo si è ulteriormente rafforzato con Sez. 6, n. 20447 del 26/01/2005, Marino, Rv. 231451, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 299 c.p.p., comma 2, nella parte in cui prevede che, nell’ipotesi di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, il giudice non possa sostituire la misura cautelare adottata con altra meno grave, quando le esigenze risultino attenuate: è stato affermato, sul punto, che dette norme non costituiscono nè irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, nè violazione del principio di uguaglianza, e ciò in ragione dell’elevato e specifico coefficiente di pericolosità per la convivenza e la sicurezza collettiva inerente ai reati ivi considerati. Con tale decisione è stato ulteriormente specificato come, risultando rispettata la riserva di legge, non possa apprezzarsi nemmeno la violazione dell’art. 13 Cost., comma 1; con l’ulteriore precisazione che l’art. 27 Cost., comma 2, non è applicabile alle misure coercitive di tipo personale adottate per finalità cautelari.
Nello stesso senso si sono ancora espresse: Sez. 2, n. 16615 del 13/03/2008, Vitagliano ed altro, non massimata sul punto; Sez. 5, n. 27146 del 08/06/2010, Femia, Rv. 248034; Sez. 6, n. 32222 del 09/07/2010, Galdi, Rv. 247596; Sez. 5, n. 34003 del 18/05/2010, Di Simone, Rv. 248410; Sez. 2, n. 11749 del 16/02/2011, Armens, Rv.
249686, secondo cui “non avrebbe senso imporre l’adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla con misura meno afflittiva”.
Da ultimo Sez. 5, n. 35190 del 22/06/2011, Ciminello, Rv. 251201, ha ribadito che l’orientamento prevalente, ritenuto nell’occasione condivisibile, si fonda su un argomento sistematico, costituito dal rilievo che l’art. 299 c.p.p., comma 2, consente la sostituzione della misura, in caso di attenuazione delle esigenze cautelari o della sopravvenuta assenza di proporzione all’entità del fatto o alla sanzione, “ma con espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall’art. 275, comma 3”.
4. La questione oggetto del contrasto così delineatosi non è mai stata tematicamente affrontata dalle Sezioni Unite. Mette conto però sottolineare che di recente le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, Rv. 250195-6, nel ragionare sulla portata applicativa delle interpolazioni dell’art. 275 c.p.p., comma 3, hanno avuto modo di precisare, come sopra ricordato nella parte narrativa, quanto segue: “Anche nel momento della sostituzione della misura cautelare giocano le presunzioni alle quali si è già fatto cenno nel considerare il momento genetico della misura cautelare: una diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto irrazionale il sistema. Tuttavia, in tale fase non possono operare presunzioni prima inesistenti”. Le Sezioni unite hanno, dunque, avvalorato l’orientamento affermatosi come prevalente nella giurisprudenza di legittimità che, come si è visto, ha origini ormai datate.
5. Così descritto il quadro giurisprudenziale, ritengono queste Sezioni Unite di dover confermare l’opzione interpretativa privilegiata dalla prevalente giurisprudenza e già recentemente avallata dalle Sezioni Unite con la citata sentenza Ambrogio.
A tanto inducono – e fermo restando quanto già argomentato con le sentenze che hanno dato vita all’orientamento maggioritario e con la stessa sentenza delle Sezioni Unite, Ambrogio – le ragioni di ordine letterale, sistematico e logico di seguito indicate.
Una corretta operazione ermeneutica, finalizzata ad individuare la ratio sottesa alla norma da interpretate, deve muovere innanzi tutto dal dato letterale.
Orbene, la formulazione delle disposizioni che rilevano ai fini della soluzione della questione de qua non sembra possa dare adito a particolari difficoltà interpretative, in considerazione della sua sufficiente chiarezza; ed è noto che, in presenza di un dato testuale sufficientemente chiaro, l’interprete deve attenersi a tale dato, il cui significato va ricostruito senza sovrapposizione di opzioni per le valutazioni politico-criminali discendenti dalla stessa lettera normativa.
Ciò premesso, è agevole argomentare, da una lettura complessiva del testo normativo, che il legislatore ha inteso per certo attribuire alla presunzione assoluta di cui all’art. 275, comma 3, del codice di rito, il carattere di eccezionalità com’è reso palese dall’elencazione specifica dei reati cui ha voluto ricollegare detta presunzione e dall’espressione “salvo che non siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.
Dunque, in deroga alla regola generale enunciata nel comma 1 dello stesso articolo -secondo cui il giudice, nel disporre le misure, “tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari” – ed in deroga altresì al principio della custodia in carcere quale extrema ratio, fissato nell’incipit del comma 3, il legislatore ha ritenuto, per determinati reati, specificamente indicati, di dover stabilire una presunzione assoluta di idoneità della più afflittiva delle misure. Da tanto, consegue che l’interpretazione della disposizione non può che essere quella più rigorosa consentita dall’enunciato letterale, in stretta aderenza alla ratio normativa, chiaramente ravvisabile, nel caso in esame, nella necessità di ricercare un giusto contemperamento delle opposte esigenze del diritto alla libertà dell’indagato (o imputato) e della tutela della collettività (come evidenziato dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 450 del 1995).
Così individuata la ratio della norma, deve ritenersi, quale logica conseguenza, che detta presunzione debba operare non solo nel momento genetico della misura, ma per tutte le vicende successive, in presenza di esigenze cautelari. Conclusione, questa, che risulta poi viepiù rafforzata, come detto, da ragioni di ordine logico e sistematico. Sotto il primo aspetto, è sufficiente osservare che non risponderebbe a criteri di logica – avuto riguardo alla ratio della disposizione quale individuata già sulla scorta del dato letterale – imporre, per delitti ritenuti dal legislatore di particolare gravitt, l’adozione della custodia cautelare in carcere se poi fosse possibile sostituirla con misura meno afflittiva (così come evidenziato da Sez. 2, n. 11749 del 16/02/2011, Armens, Rv. 249686, sopra ricordata). Dal punto di vista sistematico, mette conto sottolineare che: a) nel primo periodo dell’art. 275 c.p.p., comma 3, con riferimento alla custodia in carcere quale misura da adottare solo ove ogni altra misura risulti inadeguata, è stata usata la formulazione “può essere disposta”, mentre con riferimento alla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, di cui al successivo periodo, il legislatore ha fatto ricorso alla diversa formulazione “è applicata”: orbene, non sembra che tale diversa terminologia sia senza significato, posto che il termine “disposta” consente di individuare certamente proprio il momento genetico, a differenza della parola “applicata” che, infatti, risulta poi usata anche nell’art. 299 c.p.p., dedicato alla “revoca e sostituzione delle misure”; b) nell’art. 299 c.p.p., che, come appena ricordato, pur contiene le disposizioni che disciplinano la revoca e la sostituzione delle misure, vi è, nell’incipit del comma 2, il richiamo alla presunzione di adeguatezza di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, quale eccezione alla possibilità di sostituzione della misura in corso nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari ovvero quando la misura applicata non appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata: risulta dunque chiara l’intenzione del legislatore, avuto riguardo alla collocazione dell’eccezione ed alla formulazione della norma, di aver voluto rendere operativa la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere, prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, per i reati ivi elencati, per l’intera durata della vicenda cautelare e non per il solo momento iniziale in cui detta misura viene disposta.
Nè tale opzione ermeneutica risulta efficacemente contrastata dall’argomento che, in alcune delle sentenze, espressione dell’indirizzo minoritario, si è ritenuto di poter individuare nell’art. 299 c.p.p., comma 4, laddove è previsto che, fermo restando quanto è stabilito nell’art. 276 c.p.p. (provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizione imposte), “quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un’altra più grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più gravose”. Ed invero, nell’art. 299 c.p.p., accanto alla revoca della misura (comma 1), è prevista anche la sostituzione della misura: in senso meno afflittivo, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari (comma 2) o in senso più severo, e su richiesta del pubblico ministero, nel caso di aggravamento delle esigenze stesse (comma 4). Le disposizioni di cui all’art. 299 c.p.p., commi 2 e 4, sono dunque simmetriche, e non si rilevano nella formulazione del comma 4 elementi persuasivi a favore dell’orientamento interpretativo minoritario.
La sostituzione di una misura con altra meno afflittiva, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari, così come prevede l’art. 299 c.p.p., comma 2, è chiara espressione della regola generale che comporta una continua verifica, da parte del giudice, circa il permanere delle condizioni che hanno determinato la limitazione della libertà personale e la scelta di una determinata misura cautelare.
Orbene, a tale regola – che governa l’aspetto per così dire dinamico della vicenda cautelare, disciplinato nel contesto normativo dell’art. 299 c.p.p. – il legislatore ha inteso porre un’eccezione, attenuando la discrezionalità del giudice, con l’introduzione di criteri legali di vantazione, e così ponendo una presunzione assoluta di adeguatezza della misura della custodia in carcere per determinati reati in quanto ritenuti di particolare pericolosità sociale: presunzione che deve ritenersi operante non solo in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva (art. 275 c.p.p., comma 3) ma, necessariamente, anche per il prosieguo della vicenda cautelare proprio perchè espressamente richiamata nell’art. 299 c.p.p., comma 2, (“salvo quanto previsto dall’art. 275, comma 3”).
6. Va pertanto enunciato il seguente principio: “La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275 c.p.p., comma 3, opera non solo in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari”.
7. Risolto il quesito sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, bisogna ora procedere all’esame della questione di legittimità costituzionale prospettata dalla difesa del L., posto che, alla luce del principio sopra enunciato, secondo la formulazione dell’art. 275 c.p.p., comma 3, tale disposizione dovrebbe trovare applicazione anche in relazione ai delitti aggravati ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, (convertito dalla L. n. 203 del 1991).
Orbene, ritiene il Collegio che trattasi di questione non manifestamente infondata, avuto riguardo, in particolare, proprio all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in relazione alla portata della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, essendo intervenute plurime pronunce di declaratoria di parziale incostituzionalità di tale norma.
La questione si presenta altresì rilevante, in relazione alla concreta fattispecie, in considerazione del fatto che a carico del L. è stata ritenuta sussistente raggravante prevista dal citato art. 7 e tenuto conto dell’espresso richiamo dell’art. 299 c.p.p., comma 2, a tale presunzione, di cui si è prima detto.
La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 450 del 1995 statuì la compatibilità della presunzione in argomento con i principi costituzionali, rilevando che la scelta del tipo di misura non implica necessariamente l’attribuzione al giudice di un potere di apprezzamento in concreto, perchè ben può essere oggetto di una valutazione in termini generali del legislatore, “nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti”. Osservò il Giudice delle leggi che ricade nell’ambito della discrezionalità legislativa l’individuazione del punto di equilibrio tra diverse esigenze, e in particolare tra quella della minore possibile restrizione della libertà personale e quella della tutela degli interessi costituzionali presidiati attraverso la previsione degli strumenti cautelari. Muovendo da tali premesse, si ritenne che la predeterminazione in linea generale dell’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, per l’operatività della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare carceraria, rendesse manifesta la non irragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per e condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato: non può, infatti, dirsi che sia soluzione costituzionalmente obbligata l’affidamento sempre e comunque al giudice della fissazione del punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della libertà personale e gli opposti interessi collettivi, anch’essi di rilievo costituzionale.
Anni dopo, ma riprendendo giurisprudenza consolidata, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 139 del 2010, ha ricordato che le “presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali”, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. E ciò ha fatto in occasione dello scrutinio di costituzionalità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 76, comma 4 bis, (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), del quale ha decretato l’illegittimità nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non ammette la prova contraria.
Con una pluralità di interventi, la Corte costituzionale ha poi recentemente ridisegnato i confini delle presunzioni in materia cautelare, il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il settore della criminalità mafiosa, dall’intervento normativo sulla sicurezza pubblica, vale a dire dal D.L. n. 11 del 2009, convertito, con modifiche, con L. n. 38 del 2009.
Con la sentenza n. 265 del 2010 è stata dichiarata la illegittimità dell’art. 275 c.p.p., comma 3, nella parte in cui ha esteso la presunzione di adeguatezza della custodia carceraria, senza possibilità di apprezzare in concreto l’adeguatezza di altra e meno afflittiva misura, nei procedimenti per i reati di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1, artt. 609 bis e 609 quater c.p.. Dopo aver ricordato che nel criterio di adeguatezza trova espressione il principio del “minore sacrificio necessario”, architrave del sistema cautelare personale, e che il ricorso alla custodia carceraria deve essere residuale – eccezionale, di extrema ratio – la Corte ha chiarito come tratto saliente del sistema sia l’assenza di automatismi e presunzioni.
La deroga, costituita dalle presunzioni di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria per i delitti di mafia in senso stretto, ha superato il vaglio della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei diritti dell’uomo, avendo entrambe le Corti valorizzato le peculiarità di tali delitti, la cui connotazione strutturale astratta, come reati associativi e dunque permanenti, rende ragionevoli le presunzioni, e specificamente quella di adeguatezza della custodia carceraria, misura ritenuta maggiormente idonea per soddisfare l’esigenza di neutralizzazione del periculum libertatis “connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato e associazione”.
La Corte Europea aveva avuto già modo di pronunciarsi esplicitamente in tal senso, osservando che la disciplina derogatoria in esame appariva giustificabile alla luce “della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso”, e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto in questione “tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia).
La Corte Costituzionale, appunto con la decisione n. 265 del 2010, ha quindi tratto la conclusione dell’impossibilità di estendere una rado siffatta, calibrata sui delitti di mafia in senso stretto, ad ambiti criminosi per i quali vale una regola di esperienza diversa, ossia che essi possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure alternative alla custodia in carcere.
Si tratta di delitti che, per quanto odiosi, sono spesso meramente individuali e tali da non postulare esigenze affrontagli rigidamente con la massima misura.
Con argomentazioni del tutto simili, il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 164 del 2011, ha successivamente dichiarato la incostituzionalità dell’art. 275 c.p.p., comma 3, nella parte in cui non consente di apprezzare, nei procedimenti per il delitto di omicidio volontario, l’esistenza di elementi specifici dai quali in concreto risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con misure meno gravose della custodia in carcere. Nonostante la gravità del reato – ha osservato la Corte – il delitto di omicidio non implica e non presuppone necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità, perchè può essere, e sovente è, un fatto meramente individuale. Anche in tale circostanza è stato ricordato che entrambe le Corti – e cioè la stessa Corte Costituzionale e la Corte Europea dei diritti dell’uomo – avevano in vario modo valorizzato la specificità dei delitti di mafia.
Sulla scia di questa giurisprudenza è poi intervenuta ancora la Corte costituzionale con sentenza n. 231 del 2011 con la quale è stata dichiarata la illegittimità dell’art. 275, comma 3, del codice di rito, nella parte concernente il riferimento ai procedimenti per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Anche per tale delitto la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria è stata considerata non rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e alle connotazioni criminologiche della figura criminosa, pur se essa presuppone uno stabile vincolo di appartenenza a un sodalizio criminoso. Con tale sentenza è stato precisato che il delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope si concretizza in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine, che non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attività personali e di mezzi economici, benchè semplici ed elementari. Detta figura criminosa, ha osservato ancora la Corte Costituzionale, si presta, pertanto, a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei, sì che non è possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le connotazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari.
Mette conto sottolineare che il Giudice delle leggi con la precedente sentenza n. 331 del 2010 ha fatto venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria anche in riferimento ai delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 3.
Infine, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 110 del 2012, è intervenuta ancora una volta con una ulteriore (parziale) declaratoria di incostituzionalità dell’art. 275 c.p.p., comma 3, con specifico riferimento alla fattispecie di cui all’art. 416 c.p., realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p., facendo così venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere per tale reato associativo.
Nel riprendere le argomentazioni delle precedenti pronunce, la Corte ha significativamente precisato che le parziali declaratorie di illegittimità costituzionale non si possono estendere alle altre fattispecie criminose disciplinate dall’art. 275 c.p.p., comma 3, e non prese in esame specificamente dalle dichiarazioni di incostituzionalità, perchè “la lettera della norma…, il cui significato non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme…, non consente in via interpretativa di conseguire l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre”. Ha quindi aggiunto che anche per la fattispecie presa in esame può dirsi che mancano quelle connotazioni normative (forza intimidatrice del vincolo associativo e condizione di assoggettamento ed omertà) proprie dell’associazione di tipo mafioso e in grado di fornire una congrua base statistica alla presunzione assoluta di adeguatezza. Con tale decisione, la stessa Corte ha definito “particolarmente significativa” la propria sentenza n. 231 del 2011 (sopra illustrata), con la quale è stata dichiarata illegittima la presunzione in argomento in riferimento ad una fattispecie associativa ( D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74), ed ha evidenziato che nell’occasione è stato in particolare sottolineato che il delitto di associazione di tipo mafioso è “normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua base statistica alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria”.
Ai fini dello scrutinio della questione di legittimità costituzionale oggetto della citata sentenza n. 110 del 2012, la Corte Costituzionale ha quindi precisato che le argomentazioni svolte nella sentenza n. 231 del 2011 – come si è visto, diffusamente richiamate – devono ritenersi riferibili anche al delitto di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p.. Nell’occasione, la Corte Costituzionale ha altresì significativamente evidenziato – il che appare rilevante ai fini della delibazione della questione di legittimità costituzionale prospettata dalla difesa del L. – quanto segue: “deve escludersi che l’inserimento dell’associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., tra i reati indicati dall’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, sia idoneo a offrire legittimazione costituzionale alla norma in esame: questa Corte ha infatti chiarito che la disciplina stabilita dall’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, risponde a “una logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alla disposizione sottoposta a scrutinio”, trattandosi di una norma “ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti i procedimenti per i quali quella deroga è stabilita”.
8. Le ragioni che, ad avviso di queste Sezioni Unite, sostengono il giudizio di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità in esame, si sostanziano, per una parte, negli argomenti, quali sopra ricordati, che la stessa giurisprudenza costituzionale ha nel tempo utilizzato per eliminare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per alcuni tipi di reato (con particolare riferimento a quello associativo di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ed a quello di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., caratterizzati da un vincolo di appartenenza alla organizzazione malavitosa, dal Giudice delle leggi ritenuto di per sè solo inidoneo a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della più afflittiva misura cautelare, in assenza delle altre connotazioni specifiche del legame che caratterizza gli appartenenti ad un’associazione di tipo mafioso);
per altra parte, nel rilievo che anche i delitti aggravati ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, – avendo, o potendo avere, una struttura individualistica – potrebbero, per le loro caratteristiche, non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere. La circostanza aggravante in esame può accompagnare, invero, la commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa; di talchè, ove si volesse ricomprendere anche i reati così aggravati nella locuzione “delitti di mafia”, cui si fa ripetutamente richiamo nelle decisioni della Corte Costituzionale, si finirebbe con l’assimilare, sotto il profilo del disvalore sociale e giuridico, manifestazioni delittuose del tutto differenti, sia con riferimento alla loro portata criminale sia con riferimento alla pericotosità dell’agente: la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p., comporterebbe, infatti, una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso agevolare le attività delle associazioni stesse. Parificazione che sembrerebbe ingiustificata sulla scorta delle considerazioni svolte dalla stessa Corte Costituzionale laddove la presunzione in argomento è stata ritenuta ragionevole e giustificata, come ricordato, solo in presenza di un legame associativo, peraltro connotato da specifiche caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo associativo stesso e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, che non sembrano riscontrabili in una condotta delittuosa pur aggravata ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7; comportamento ovviamente grave e indice di pericolosità ma non necessariamente, ed in ogni caso maggiore, di chi sia – ad esempio – partecipe di un’associazione dedita al traffico di stupefacenti, posto che, giova ripeterlo, in relazione all’aggravante contestata sotto il profilo dell’agevolazione delle attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p. – situazione corrispondente alla concreta fattispecie, avuto riguardo al reato per il quale è intervenuta sentenza di condanna del L. – è escluso un vincolo o legame con l’associazione.
9. Oltre alla non manifesta infondatezza, appare ravvisabile – come in precedenza già accennato – anche la rilevanza della questione, posto che l’appello del P.m., avverso l’ordinanza con la quale era stata concessa al L. la detenzione domiciliare, è stato accolto dal Tribunale (con il provvedimento oggetto del presente ricorso) proprio muovendo dal presupposto che la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per il reato di favoreggiamento personale, in quanto aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, deve ritenersi operante non esclusivamente in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva, e riguarda quindi anche le vicende successive che attengono alla permanenza o meno delle esigenze cautelari.
Giova ricordare, infine, che in merito alla circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, sono intervenute anni addietro le Sezioni Unite di questa Corte (Sent. n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377) per risolvere la questione se detta aggravante, contestata per i reati fine, sia applicabile ai partecipi di un’associazione di stampo mafioso. Dopo aver precisato che essa si articola in due diverse forme, l’una a carattere oggettivo, costituita dall’impiego del metodo mafioso nella commissione dei singoli delitti, l’altra di tipo soggettivo, che si sostanzia nella volontà specifica di favorire o facilitare l’attività del gruppo, le Sezioni Unite hanno dato risposta positiva al quesito, escludendo che possa configurarsi un’ipotesi di concorso apparente di norme, e specificamente di reato complesso, sulla base dell’indiscussa autonomia del reato associativo rispetto al reato-fine. Hanno in particolare chiarito che il metodo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p., e quello di cui alla disposizione che prevede la circostanza aggravante integrano due distinte entità: il primo connota il fenomeno associativo ed è, al pari del vincolo, un elemento che permane indipendentemente dalla commissione dei vari reati; il secondo costituisce eventuale caratteristica di un concreto episodio delittuoso, ben potendo accadere, di converso, che un associato ponga in essere una condotta penalmente rilevante, pur costituente reato- fine, senza avvalersi del potere intimidatorio del gruppo. Lo stesso ragionamento hanno poi sviluppato in riferimento alla forma soggettiva della circostanza aggravante in esame: l’associato risponde di un contributo permanente allo scopo sociale, che prescinde dalla commissione dei singoli delitti. Qualora l’associato concorra in essi e la sua condotta sia qualificata dal dolo specifico di agevolare l’attività dell’associazione, tale fatto psicologico si prospetta come ulteriore, e pertanto può essergli addebitato in funzione di aggravamento della pena. Del resto, il reato associativo richiede un effettivo apporto alla causa comune, mentre la previsione aggravatrice è relativa alla semplice volontà di favorire, indipendentemente dal risultato, l’attività del gruppo, e cioè qualsiasi manifestazione esteriore del medesimo, che non coincide con il perseguimento dei fini sociali in cui si sostanzia il dolo specifico di cui all’art. 416 bis c.p..
10. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo, come modificato dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 2, (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p. (aggravante così contestata nella concreta fattispecie), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; non manifesta infondatezza ravvisabile in relazione ai seguenti articoli della Costituzione: art. 3, per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, a quelli concernenti i delitti di mafia nonchè per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; art. 13, primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; art. 27, comma 2, con riferimento all’attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena.
Per completezza argomentativa, appare opportuno sottolineare che analoghe considerazioni ben possono valere anche con riferimento alla forma aggravatrice del c.d. “metodo mafioso” (profilo non contestato al L.). Ed invero, la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per un reato in tal senso aggravato, comporterebbe una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso approfittare della condizione di assoggettamento, dalle medesime creato, per portare più efficacemente a compimento il proprio, e specifico, proposito criminoso dei tutto estraneo al programma delinquenziale dell’associazione malavitosa.
A norma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, deve dichiararsi la sospensione del procedimento e deve disporsi l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ferma restando la misura cautelare in atto.
La Cancelleria provvederà alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alla comunicazione della stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
P.Q.M.
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo, al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, (convertito dalla L. n. 203 del 1991), in riferimento all’art. 3 Cost., art. 13 Cost., comma 1, e art. 27 Cost., comma 2.
Sospende il giudizio in corso e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa nonchè al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
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