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In secondo luogo, la sentenza impugnata ha correttamente considerato rilevante anche il fatto che l’ordine di demolizione trova un fondamento giuridico autonomo nella disposizione speciale che sanziona la violazione del vincolo paesaggistico (cfr. art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001).
Il Comune di Omissis rientra, infatti, nell’ambito di applicazione del Piano Territoriale Paesistico isolano, approvato con d. m. dell’8.2.1999 (cfr. art. 1 del d. l. n. 312 del 1985, conv. in l. n. 431/1985), come in sentenza non si è mancato di rammentare, con la specificazione ulteriore che dal preambolo della ordinanza di demolizione impugnata in primo grado si precisa che i manufatti si trovano entro un’area dichiarata di notevole interesse pubblico, ai sensi della l. n. 1497 del 1939, con d. m. del 9.9.1952 (cfr. anche il d. m. 23.5.1958).
Ciò implica che anche per tale ragione si imponeva comunque la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica – atto autonomo e presupposto rispetto ai titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio – in mancanza della quale l’applicazione della sanzione demolitoria era doverosa.
L’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce infatti all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato.
Bene dunque la sentenza impugnata ha dapprima osservato che la consistenza delle nuove opere realizzate, comportanti una significazione trasformazione dell’esistente, per effetto degli incrementi di volume e di superficie che ne sono conseguiti, e l’assenza di un vincolo, oggettivo e comprovato, di strumentalità funzionale ad altra “res”, escludono l’accoglibilità della tesi con la quale “parte ricorrente rivendica la natura meramente pertinenziale del manufatto in contestazione”, “tanto più che vengono qui in rilievo non già autonome strutture ma ampliamenti che fanno corpo con il fabbricato preesistente”; e ha quindi rilevato che “gli interventi edilizi sanzionati sono idonei a dare vita a opere edilizie del tutto nuove cui si correlano incrementi di superficie e di volume con conseguente, significativa trasformazione dell’esistente e alterazione dell’originario stato dei luoghi, di tal che si imponeva il previo rilascio, oltre che dell’autorizzazione paesistica, giacché l’intervento ricade in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, anche del permesso di costruire; e ha rimarcato che l’autorizzazione paesistica va acquisita in via preventiva ed è “titolo autonomo non conseguibile a sanatoria” e ciò sulla base del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del t. u. n. 42 del 2004, il quale ultimo esclude sanatorie per interventi che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi”.
Non pare superfluo aggiungere che non assume rilievo, ai fini di una verifica critica in ordine alla legittimità e alla correttezza sia dell’ordinanza di demolizione e sia delle statuizioni pronunciate dal Tar al riguardo, il profilo, sul quale l’appellante insiste, deducendo anche il vizio di sproporzione tra natura degli abusi e misura repressiva adottata, inerente alla modesta entità delle opere abusive.
Riguardo alla possibilità di applicare, nel caso di specie, la sanzione pecuniaria, anziché quella ripristinatoria, e ciò sulla base di quanto dispongono gli articoli 33 comma 2 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, anzitutto, come si rileva correttamente in sentenza, le disposizioni del d.P.R. n. 380 del 2001 richiamate nell’appello non assumono rilievo nella fattispecie in discussione, trovando applicazione gli articoli 27 e 31 del decreto medesimo.
In secondo luogo, e in ogni caso, l’applicabilità della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 33, in deroga alla regola generale della demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio, il che nella specie non risulta comprovato.
Neppure risulta che l’appellante abbia formulato una istanza in questo senso al Comune.
Infine, l’applicabilità o meno della sanzione pecuniaria può essere decisa dall’Amministrazione solo nella fase esecutiva dell’ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico (conf. Cons. Stato, VI, n. 4855 del 2016, nel senso che “la valutazione circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire: con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell’ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l’accertamento delle conseguenze derivanti dall’omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell’incidenza della demolizione sulle opere non abusive” -conf. Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1940).
Per quanto attiene infine alla necessità, o meno, di un obbligo motivazionale “rinforzato”, segnatamente in ordine all’esistenza e alla indicazione di un interesse pubblico attuale e concreto alla applicazione della sanzione demolitoria, avuto anche riguardo a una comparazione di detto interesse con gli altri interessi coinvolti, essendo trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell’abuso e l’emissione dell’ordinanza di demolizione n. 37/2011, questo Collegio di appello ritiene sufficiente fare richiamo alla recente sentenza dell’Ad. plen. di questo Consiglio di Stato, n. 9 del 2017, con la quale si è statuito che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
In conclusione, l’appello va respinto e la sentenza confermata.
Tuttavia, talune peculiarità della vicenda in punto di fatto giustificano in via eccezionale la compensazione integrale delle spese e dei compensi di causa del grado di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.
Spese del grado del giudizio compensate.
Dispone che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 settembre 2017, con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Marco Buricelli – Consigliere, Estensore
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Italo Volpe – Consigliere
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