Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 10 novembre 2017, n. 5180. Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo

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Sotto una angolazione diversa, la sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha ritenuto non dimostrata la corrispondenza tra le opere abusive in contestazione, della cui demolizione si fa questione, e i manufatti ai quali il signor Va. ha fatto riferimento con le istanze di condono prot. n. 6604, per l’ampliamento di 22 mq., e n. 7186, per il locale di 14 mq., entrambe del 28.2.1995. L’appellante muove dall’assunto per cui il Comune è obbligato a concludere il procedimento di condono prima di dare corso al procedimento repressivo con l’emissione dell’ingiunzione di demolizione: l’ampliamento di 22 mq. e il locale di 14 mq. hanno formato oggetto -e formano tuttora oggetto- di istanze di sanatoria edilizia, non ancora definite; l’avvenuta presentazione delle istanze di condono impone la preventiva definizione negativa di quei procedimenti perché si possa legittimamente procedere all’adozione della misura sanzionatoria.
L’appellante ribadisce che, a differenza di ciò che si afferma in sentenza, gli atti e i documenti depositati nel processo di primo grado proverebbero a) la riconducibilità delle opere sanzionate a quelle oggetto delle istanze di condono e, come rilevato, b) la violazione della normativa sul condono edilizio in base alla quale, in pendenza del relativo procedimento, deve considerarsi inibita l’adozione di misure sanzionatorie.
La sentenza avrebbe errato nel limitarsi a richiamare e ad evidenziare la sola relazione del Comune di Omissis.
Sub II) si sostiene che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui afferma che “l’intervento in questione risultava soggetto alla previa autorizzazione paesaggistica, titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi”.
Poiché l’anno di realizzazione delle opere è precedente al 1995, ciò determina la violazione della normativa che rende inopponibili gli abusi successivi alla realizzazione dell’abuso.
Viene poi riaffermata la natura pertinenziale delle opere eseguite, le quali sarebbero assai modeste e tali da non alterare l’assetto del territorio.
Attesa la loro irrilevanza urbanistico -edilizia, le opere in questione, anziché essere assoggettate a permesso di costruire, dovevano ritenersi soggette esclusivamente al regime della DIA, con il conseguente divieto di irrogare sanzioni ripristinatorie nel caso di abuso, e l’obbligo di applicazione unicamente di sanzioni pecuniarie, in base a quanto dispone l’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La sanzione irrogata deve ritenersi comunque illogica e sproporzionata.
Sub III) si ritiene che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui afferma che “l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare l’emanazione della misura sanzionatoria”.
Parte appellante afferma in particolare che:
-non sarebbero stati valutati gli effetti dell’avvenuta presentazione delle due istanze di condono edilizio per le opere sanzionate, e neppure l’avvenuta formazione del silenzio – assenso sulle istanze medesime;
-non sarebbe stata correttamente vagliata la natura pertinenziale delle opere e, comunque, la irrilevanza urbanistica delle stesse, il che avrebbe dovuto escludere l’applicazione della sanzione ripristinatoria;
-non sarebbe stata valutata la circostanza che le opere eseguite dovevano essere qualificate come di “ristrutturazione” e, come tali, assoggettate alla sanzione di cui all’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001 e non a quella di cui all’art. 27;
-non sarebbe stata effettuata un’istruttoria, anche tecnica, idonea a verificare se dal ripristino ordinato potesse derivare un danno strutturale/funzionale all’edificio preesistente;
-in ogni caso, è stata inflitta la più grave delle sanzioni previste per gli abusi edilizi, senza un esame preventivo in ordine alla possibilità di applicare, in luogo della demolizione, la sanzione pecuniaria prevista dalla normativa vigente e senza motivare sulla scelta della sanzione;
-quantunque le opere sanzionate siano state realizzate circa 17 anni addietro (la prova dell’epoca della costruzione sarebbe fornita dalle istanze di condono del 1995), il Comune ha irrogato la più grave delle sanzioni previste senza avere considerato l’affidamento ingenerato nel ricorrente per effetto della pendenza delle istanze di sanatoria medesime e senza avere contemperato tale affidamento con eventuali esigenze concrete e attuali di interesse pubblico al ripristino.
Infine, sub IV), si sottolinea che la sentenza avrebbe sbagliato anche nella parte in cui non ha riconosciuto il difetto di motivazione nel quale è incorso il Comune con l’ordinanza di demolizione, priva di riferimento alcuno all’interesse pubblico, dopo che era trascorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.
Risulta inoltre evidente -prosegue la parte appellante- la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata.
3.2. La tesi centrale sulla quale si basa l’appello sembra riguardare l’affermata erroneità della sentenza nella parte in cui è stata considerata non dimostrata la corrispondenza tra le opere abusive in contestazione, della cui demolizione cioè si fa questione, e i manufatti ai quali il signor Va. aveva fatto riferimento con le istanze di condono prot. n. 6604 per il primo manufatto, di 22 mq., si sostiene, e prot. n. 7186 per il secondo, di 14 mq., presentate il 28.2.1995 e tuttora non definite.
Parte appellante ribadisce che, ferma la corrispondenza suindicata, in base a quanto prevede l’art. 38 della l. 47 del 1985, e per giurisprudenza amministrativa pacifica, l’avvenuta presentazione delle istanze di condono imponeva la preventiva definizione negativa dei procedimenti di sanatoria prima di poter legittimamente procedere all’adozione della misura repressiva.
Parte appellante ribadisce in particolare che la riconducibilità delle opere sanzionate a quelle oggetto delle istanze di condono risulta comprovata in maniera adeguata.
Così però non è.
Le deduzioni di parte appellante non riescono a scalfire le conclusioni, ragionevoli e corroborate da una corretta lettura degli atti e dei documenti di causa, alle quali è giunto il Tar in sentenza.
Non risulta invero comprovata la coincidenza tra le opere abusive descritte sopra, e della cui ingiunzione di demolizione si fa questione, e le opere abusive denunciate con le istanze di condono n. 6604 e 7186.
L’insufficienza degli elementi offerti al riguardo dalla parte ricorrente, con la produzione della perizia tecnica di parte del geom. Fe., emerge con chiarezza alla luce della documentata relazione, prot. n. 193 del 5.5.2010, depositata dal Comune in primo grado sub. doc. 1.
A fronte del “carattere meramente assertivo” della perizia di parte, che non consente di “cogliere, con l’ausilio di elementi descrittivi, grafici e fotografici – che pur avrebbero dovuto essere allegati alla domanda di condono e comunque prodotti a sostegno dei relativi assunti difensivi – l’effettiva riconducibilità delle opere in contestazione con quelle denunciate con le originarie domande di condono”, in sentenza si evidenzia, in maniera condivisibile e conforme alle risultanze documentali, che “lo stato dei luoghi è stato monitorato nel corso del tempo, in data 1.12.1994, 8.2.1995, 27.11.1998 ed, a tale data, non risultavano ancora realizzati gli ampliamenti in contestazione (mentre le domande di condono sono datate 28.2.1995).

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