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3. Il ricorso per revocazione è inammissibile poiché, per come risulta dall’esposizione che precede, ha ad oggetto proprio la questione che costituì il punto controverso sul quale la sentenza ha pronunciato. Per di più, rispetto ai fatti ed ai documenti che ne sono a fondamento, la ricorrente non deduce alcun errore revocatorio rilevante ai sensi dell’art. 106 Cod. proc. amm. e dell’art. 395, n. 4 Cod. proc. civ.., se non quello di asserita omessa pronuncia su un profilo di censura sollevato con l’atto di appello.
Come la stessa ricorrente evidenzia, l’errore di fatto deducibile per revocazione deve:
a) derivare da errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato;
b) attenere ad un punto controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 10 gennaio 2013, n. 1 e numerose altre, tra cui Cons. Stato, 14 maggio 2015, n. 2431; id., V, 5 maggio 2016, n. 1824).
In sintesi, l’errore revocatorio, oltre ad apparire immediatamente rilevabile, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (cfr., tra le altre, Cons. Stato, IV, 13 dicembre 2013, n. 6006), non va confuso con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice e non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione, che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, V, 11 dicembre 2015, n. 5657; id., 12 gennaio 2017, n. 1296; id., 6 aprile 2017, n. 1610; id., 21 agosto 2017, n. 4047).
3.1. Nel caso di specie, si è avuto appunto che la questione controversa sia stata decisa sia dal TAR che dal Consiglio di Stato in base ad una chiara presa di posizione sull’individuazione dell’area assoggettata a vincolo cimiteriale ai sensi del R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 338, e sui rapporti tra questa norma del testo unico delle leggi sanitarie e gli strumenti urbanistici vigenti nel Comune.
Con la sentenza qui impugnata, confermando l’analoga impostazione della sentenza di primo grado, si è ritenuto che l’individuazione dell’area vincolata debba essere desunta dagli strumenti urbanistici vigenti e, quindi, nel caso di specie, dalla cartografia del piano operativo comunale, in quanto contenente nel dettaglio la specifica indicazione dei confini dell’area sottoposta a vincolo cimiteriale, evidenziati mediante tratteggio. Con la conseguenza, espressa nella sentenza, che l’eventuale illegittimità della previsione cartografica (nell’assunto della ricorrente, perché in contrasto con le norme del R.D. n. 1265 del 1934) avrebbe dovuto essere formalmente censurata, non essendo disapplicabile dal giudice amministrativo. Non risultando proposta alcuna specifica censura avverso il P.O.C. del Comune di Parma e le allegate cartografie, il Consiglio di Stato se ne è avvalso ed ha escluso che l’impianto di distribuzione del carburante assentito ricadesse nell’area di rispetto, secondo quelle cartografie.
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