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Al riguardo, deve rilevarsi che l’ordinanza sindacale risulta essere stata ritenuta, con pronuncia passata in giudicato, immune da censure e non può oggi a distanza di quasi trent’anni essere rimessa in discussione dall’originario ricorrente.
Merita di essere rammentato come il testo del comma 3 dell’art. 15 della l. 10/1977, ratione temporis vigente, dispone che: “Le opere eseguite in totale difformità o in assenza della concessione debbono essere demolite, a cura e spese del proprietario, entro il termine fissato dal sindaco con ordinanza. In mancanza, le predette opere sono gratuitamente acquisite, con l’area su cui insistono, al patrimonio indisponibile del comune che le utilizza a fini pubblici, compresi quelli di edilizia residenziale pubblica”.
La norma in questione dispone l’acquisizione alla mano pubblica delle opere abusive in alternativa alla demolizione a patto che le stesse siano utilizzate a fini pubblici.
Un simile utilizzo è accertato dalla sentenza n. n. 307/1989, che, nel respingere la censura di sviamento di potere, si è pronunciata in concreto sul vizio dedotto dal ricorrente e non, invece, come sostiene il primo giudice, in astratto, ossia sulla mera fattispecie giuridica.
Infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 16-02-1987, n. 89) ha, da sempre, chiarito che nel procedimento inteso all’acquisizione gratuita di opere edilizie abusive al patrimonio indisponibile del comune, ai sensi dell’art. 15 l. 28 gennaio 1977, n. 10, la verifica della mancanza di contrasto dell’opera con gli interessi urbanistici o ambientali e della utilizzabilità per fini pubblici dell’opera abusiva costituisce momento prioritario rispetto all’acquisizione e, in mancanza di tale condizione, dovrà procedersi alla demolizione del manufatto a spese del suo costruttore.
Il carattere prioritario dell’accertamento dell’utilizzo per fini pubblici rispetto all’adozione dell’ordinanza sindacale di acquisizione del bene e l’inoppugnabilità della stessa in ragione della pronuncia definitiva adottata dal TAR sullo specifico vizio in questione escludono la possibilità di sindacare ulteriormente che il bene sia stato utilizzato per fini pubblici.
Sotto questo profilo risulta del tutto irrilevante la contestazione dell’originario ricorrente in ordine all’assenza di una destinazione a fini pubblici del bene da parte dell’amministrazione, dal momento che il profilo dell’utilizzo per fini pubblici si è consolidato una volta per tutte a seguito del detto accertamento giurisdizionale e non può essere a distanza di quasi trent’anni essere rimesso in discussione dall’odierno appellato.
A ciò deve aggiungersi in ogni caso che le opere in questione sono stata effettivamente destinate a fini pubblici, dal momento che le dette abitazioni sono rimaste nella disponibilità degli inquilini che le abitavano, ossia hanno mantenuto quella destinazione ad edilizia residenziale pubblica che era già stata individuata quale utilizzo delle stesse da parte del TAR per la Campania con la pronuncia del 1989.
Da ciò discende, conseguentemente, l’infondatezza delle censure contenute nell’appello incidentale. Infatti, la circostanza che l’utilizzo per fini di edilizia residenziale pubblica accertata dalla sentenza n. 307/1989 del TAR e che la destinazione del bene a tali fini debba precedere l’ordinanza di acquisizione che ha superato indenne il vaglio giurisdizionale impediscono di rimettere in discussione la detta vicenda in occasione della controversia avente ad oggetto il diniego dell’istanza di condono edilizio in omaggio al principio del ne bis in idem.
Per la stessa ragione risulta irrilevante la questione relativa alla lamentata contraddittorietà tra la nota n. 675 del 3 marzo 2006 della Direzione Centrale VI, che attestava la destinazione dell’immobile entro il 1 dicembre 1994 e la nota n. 4932 del 9 novembre 2004 con la quale il Servizio patrimonio assumeva che la destinazione dell’immobile sarebbe avvenuta prima del 31 dicembre 1993. Peraltro, deve notarsi che dalla prima, come correttamente notato dal primo giudice, non potrebbe comunque trarsi un argomento a favore dell’appellante.
Venendo, infine, all’ultima doglianza è evidente che se il bene risultava destinato ed utilizzato a fini pubblici non rileva in alcun modo la questione relativa alla mancata assunzione del parere della commissione edilizia all’interno del procedimento di condono, poiché la stessa andava comunque respinta per difetto del presupposto fondamentale della destinazione del bene a fini pubblici.
7. L’appello principale deve, in definitiva, essere accolto, mentre va respinto l’appello incidentale, con ciò che ne consegue in termini di riforma della sentenza impugnata e di reiezione del ricorso di primo grado. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, accoglie l’appello principale, respinge l’appello incidentale e per l’effetto in parziale riforma della sentenza di primo grado, respinge il ricorso principale.
Condanna Pi. Ge. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio in favore del Comune di Napoli, che liquida in euro 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 settembre 2017 con l’intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi – Presidente
Fabio Taormina – Consigliere
Oberdan Forlenza – Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere, Estensore
Leonardo Spagnoletti – Consigliere
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