Consiglio di Stato
sezione III
sentenza 30 ottobre 2015, n. 4984
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE TERZA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5909 del 2015, proposto da:
Sh.Hu., rappresentato e difeso dall’avv. Va.Gi., con domicilio eletto presso Va.Gi. in Roma, Via (…);
contro
Ministero dell’Interno, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via (…);
nei confronti di
Utg – Prefettura di Fermo;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE II QUA n. 06099/2015, resa tra le parti, concernente silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza per la concessione della cittadinanza italiana
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero dell’Interno;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2015 il Pres. Pier Giorgio Lignani e udito l’avvocato dello Stato Ma.Sc.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellante, già ricorrente in primo grado, ha proposto ricorso al T.A.R. del Lazio (R.G. 10830/2014) contro il silenzio mantenuto dall’Amministrazione dell’Interno sulla sua istanza di concessione della cittadinanza italiana.
Il ricorso è stato trattato alla camera di consiglio del 23 aprile 2015, presente l’Avvocato dello Stato, assente il difensore dell’interessato.
Il T.A.R. ha emesso la sentenza n. 6099/2015, con la quale ha dichiarato il ricorso “inammissibile” perché il suo deposito presso la Segreteria del T.A.R. risultava effettuato a mezzo del servizio postale, anziché mediante consegna manuale. In proposito il T.A.R. ha richiamato una sua precedente decisione nello stesso senso, dettagliatamente argomentata. Nel contesto della sentenza, tuttavia, il T.A.R. ha dato atto che la difesa dell’Amministrazione aveva dedotto che in corso di giudizio era intervenuto un provvedimento espresso (diniego della cittadinanza) che aveva fatto cessare la materia del contendere.
Le spese sono state compensate.
2. L’originario ricorrente propone appello a questo Consiglio contro la dichiarazione d’inammissibilità.
L’appello è argomentato esaustivamente, anche se con apprezzabile brevità. L’appellante sostiene in primo luogo che non vi sono ragioni giuridiche per affermare che il deposito del ricorso a mezzo posta sia invalido ed inefficace; e in secondo luogo che, quand’anche ve ne fossero, nella fattispecie dovrebbe soccorrere il principio (di cui all’art. 156, c.p.c.) della sanatorie degli atti che, pur difettosi dal punto di vista formale, abbiano raggiunto lo scopo voluto dalla legge.
L’Amministrazione si è costituita con atto di mera forma, senza prendere posizione, né svolgere difese.
3. Il primo argomento sul quale si baserebbe la tesi dell’inammissibilità, fatta propria dal T.A.R., consiste nell’affermazione che, per il deposito di un ricorso al T.A.R., la modalità dell’invio a mezzo posta non è consentita da alcuna disposizione espressa.
Questo Collegio, al contrario, osserva che il principio generale, desumibile dall’art. 156, c.p.c., è quello della libertà, o della equivalenza, delle forme degli atti processuali, richiedendosi solo che la forma concretamente adottata sia idonea allo scopo voluto dalla legge. In questa prospettiva, non occorre una norma espressa per legittimare una determinata forma; al contrario, occorre una norma espressa per vietarla, ovvero per renderla obbligatoria escludendo implicitamente tutte le altre.
In questo caso, l’invio a mezzo posta non è espressamente consentito, ma non è neppure espressamente vietato. Sin qui, dunque, non si ha motivo per ritenerlo invalido e/o inefficace.
4. In secondo luogo, il T.A.R. fa riferimento ad una norma espressa, che è l’art. 5 delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo. Vi si legge, fra l’altro: “Ciascuna parte, all’atto della propria costituzione in giudizio, consegna il proprio fascicolo…”. L’espressione “consegna” alluderebbe inequivocamente ad una consegna manuale.
Questo Collegio osserva che l’argomento prova troppo. Ed invero, se ci si vuole attenere rigorosamente al tenore letterale delle parole, forse si giunge a leggervi il riferimento ad una “consegna” effettuata brevi manu, da persona a persona; ma vi si legge anche che tale consegna dovrebbe essere effettuata “dalla parte”. In una norma di procedura – se la si prende alla lettera – che un atto debba essere compiuto “dalla parte” può voler dire che deve essere compiuto dalla parte di persona; ovvero, per estensione, dal suo difensore costituito e munito di procura.
Ma si può dare per certo, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni, che nella prassi universale del processo amministrativo, come di quello civile, non si richiede ad validitatem che il deposito di un atto (incluso il ricorso introduttivo) in segreteria venga effettuato manualmente e personalmente dalla parte ovvero dal difensore costituito; può essere effettuato da un qualsivoglia mandatario, non necessariamente accreditato o qualificato, al limite neppure identificato. Non risulta che all’atto del ricevimento il cancelliere o segretario accerti l’identità e/o la qualifica del latore, tanto meno che ne prenda nota a verbale. E’ illuminante, per antitesi, il confronto con la necessaria identificazione di chi riceve una notifica, o di chi compare all’udienza.
Ora, se né la norma né la prassi esigono che vengano accertate e annotate l’identità e/o la qualifica della persona fisica che materialmente funge da latore, questo sta ad indicare che identità e qualifica sono assolutamente indifferenti ai fini della validità e dell’efficacia del deposito.
In questa luce, appare chiaro che la formulazione dell’art. 5 delle norme di attuazione (“Ciascuna parte, all’atto della propria costituzione in giudizio, consegna il proprio fascicolo…”) non va intesa alla lettera e per di più in senso rigorosamente restrittivo, pena l’invalidità e l’inefficacia dell’atto – e di conseguenza l’inammissibilità del ricorso – pur quando le modalità concretamente adottate siano idonee al raggiungimento dello scopo, tanto da averlo, di fatto, raggiunto.
5. Altra questione è se il supposto divieto dell’invio a mezzo posta discenda non da una norma espressa (la quale, come si è visto, non può essere interpretata in quel senso) ma da esigenze di ordine pratico. Ci si riferisce agli inconvenienti e disguidi che potrebbero derivare dall’impersonalità del mezzo e dalla mancanza di un incontro diretto fra la parte, o chi la rappresenta, e l’operatore che riceve il deposito.
Questi profili, tuttavia, potrebbero avere una certa rilevanza ove si discutesse de iure condendo; potrebbero, cioè, essere invocati per giustificare una disciplina che espressamente vietasse l’uso del mezzo postale, ovvero, al contrario, lo regolamentasse in modo da prevenire i temuti disguidi. Ma, in mancanza di una disciplina del genere, le considerazioni di opportunità non possono giungere sino al punto di creare nell’ordinamento una preclusione – con l’effetto sostanziale di una denegata giustizia – che il legislatore non ha previsto.
6. La mancanza di una norma che espressamente consenta l’uso del mezzo postale produce, semmai, un altro effetto giuridico; quello di porre a carico di chi se ne avvale i rischi di eventuali disfunzioni o ritardi inerenti a quel mezzo. Non si può dunque estendere al deposito del ricorso giurisdizionale il principio che ai fini dei termini di decadenza vale la data di spedizione, non quella di ricevimento dell’atto. Pertanto il ricorso inviato a mezzo posta si dovrà ritenere depositato solo nel momento in cui pervenga effettivamente all’ufficio ricevimento, e vi pervenga con tutte le caratteristiche formali e tutti gli elementi di corredo che sono necessari per la sua acquisizione e la sua iscrizione nel registro generale.
7. Non è compito di questo Collegio – non facendo parte della materia del contendere in questa sede – precisare in quali casi e a quali condizioni il deposito di un ricorso a mezzo posta possa essere rifiutato o ritardato dall’ufficio, e quali siano gli eventuali rimedi.
Ai fini del presente giudizio, è sufficiente osservare che, a parte l’aspetto puramente formale dell’impiego del mezzo postale per l’invio, null’altro è stato contestato o eccepito riguardo alla regolarità ed alla completezza del fascicolo depositato, degli atti ivi contenuti e degli adempimenti connessi. Il ricorso era stato notificato il 24 luglio 2014 e risulta iscritto nel registro generale ricorsi il 6 agosto successivo, quindi nei termini; il contributo unificato risulta regolarmente versato per l’intero importo dovuto.
A quanto pare, l’ufficio di segreteria è stato in grado di procedere de plano all’iscrizione del fascicolo nel registro generale ricorsi, senza che si manifestassero criticità o incertezze. Tanto meno, il fatto che si trattasse di un fascicolo pervenuto in segreteria a mezzo posta invece che brevi manu ha provocato inconvenienti o ritardi nel prosieguo del procedimento, e non si vede come avrebbe potuto. L’Avvocatura dello Stato si è costituita ed ha depositato documenti; il ricorso è stato iscritto alla camera di consiglio del 24 aprile 2015, è stato discusso ed è passato in decisione.
In questa situazione, dato e non concesso che si possa ricavare dal sistema una norma (non scritta) che esclude l’uso del servizio postale per il deposito del ricorso, non si vede come si possa eludere il disposto dell’art. 156, c.p.c., a norma del quale “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.
7. Concludendo sul punto, in accoglimento dell’appello la sentenza di primo grado va riformata e va ritenuta l’ammissibilità del ricorso.
8. L’appellante ha chiesto il rinvio al giudice di primo grado, ma l’art. 105, c.p.a., non prevede fra le ipotesi di annullamento con rinvio quella della sentenza di primo grado che abbia erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso per questioni di rito.
Si deve dunque passare alla fase rescissoria.
9. Sotto questo profilo, non si può che prendere atto della circostanza – riferita nella sentenza del T.A.R. e non smentita dall’appellante – che nel corso del giudizio di primo grado il silenzio dell’amministrazione è venuto meno per effetto del provvedimento esplicito di diniego.
Trattandosi tuttavia di provvedimento sfavorevole all’interessato e come tale suscettibile di dar vita ad un nuovo contenzioso, non sembra appropriato parlare di “cessazione della materia del contendere” quanto di sopravvenuto difetto d’interesse alla decisione del ricorso.
In conclusione, il ricorso erroneamente dichiarato inammissibile dal T.A.R. deve essere dichiarato invece improcedibile.
10. Le spese del giudizio possono essere compensate, tenuto conto delle seguenti circostanze: (a) se è vero che l’amministrazione era inadempiente nel momento in cui il ricorso è stato proposto in primo grado, l’istanza dell’interessato, sulla quale si era formato il silenzio, non era meritevole di accoglimento; (b) l’appello contro la dichiarazione d’inammissibilità, pur fondato, è stato proposto in un momento nel quale l’interesse sostanziale alla decisione era venuto meno.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l’appello e in riforma della sentenza di primo grado dichiara il ricorso improcedibile per sopravvenuto difetto d’interesse. Compensa le spese per l’intero giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2015 con l’intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani – Presidente, Estensore
Carlo Deodato – Consigliere
Bruno Rosario Polito – Consigliere
Massimiliano Noccelli – Consigliere
Pierfrancesco Ungari – Consigliere
Depositata in Segreteria il 30 ottobre 2015.
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