Consiglio di Stato
sezione III
sentenza 1 agosto 2014, n. 4121
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE TERZA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5196 del 2009, proposto da:
Ministero dell’Interno
in persona del Ministro pro-tempore
rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ex lege, in Roma, via (…);
contro
-OMISSIS-,
non costituitosi in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA, sede di MILANO, SEZIONE III, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente diniego rinnovo licenza di porto di fucile per uso caccia.
Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 8 maggio 2014, il Cons. Paola Alba Aurora Puliatti;
Udito per il Ministero appellante, alla stessa udienza, l’avvocato dello Stato Va.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
1. – Con ricorso proposto dinanzi al TAR Lombardia, sede di Milano, notificato il 28 giugno 2008, il ricorrente ha impugnato il provvedimento del -OMISSIS-, emesso in data -OMISSIS-, con cui è stata rigettata l’istanza da lui presentata per il rinnovo della licenza di porto di fucile per uso caccia.
2. – Con la sentenza in epigrafe, il T.A.R., accogliendo l’impugnazione, ha annullato il provvedimento, rilevandone il difetto di motivazione.
La sentenza ha premesso che, ai sensi dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti alle persone ritenute capaci di abusarne; parimenti, ai sensi degli articoli 11 e 43 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, la licenza di porto d’armi può essere ricusata dal Questore a coloro che non danno affidamento di non abusare delle armi.
Tale disciplina, rileva il TAR, “è diretta al presidio dell’ordine e della sicurezza pubblica, alla prevenzione del danno che possa derivare a terzi da indebito uso ed inosservanza degli obblighi di custodia, nonché della commissione di reati che possano essere agevolati dall’utilizzo del mezzo di offesa”.
I provvedimenti autorizzzatorii postulano, quindi, che il beneficiario sia indenne da mende, osservi una condotta di vita improntata a puntuale osservanza delle norme penali e di tutela dell’ordine pubblico, nonché delle comuni regole di buona convivenza civile, sì che non possano emergere sintomi e sospetti di utilizzo improprio dell’arma.
E’ sufficiente, pertanto, anche un’erosione minima del requisito della totale affidabilità del soggetto a fondare il diniego di autorizzazione, fermo restando in capo all’amministrazione l’onere di esternare non solo il presupposto di fatto che l’ha indotta ad intervenire, ma anche le ragioni per le quali il soggetto viene ritenuto capace di abusare delle armi e munizioni.
Il primo giudice ha, quindi, osservato che il provvedimento di diniego oggetto del giudizio ha fatto riferimento alle condanne penali riportate dall’interessato, tra cui quella per il reato (detenzione illegale di armi) di cui agli artt. 10 e 12 della legge n. 497 del 1974, art. 23, c. 4., della legge n. 110/1975 e 62 bis c.p., alla pena di mesi 8 di reclusione ed alla multa di Lire 140.000, con il beneficio della non menzione e della sospensione condizionale della pena.
In particolare, il giudice penale aveva accertato che il ricorrente possedeva un vecchio fucile da caccia, che, sebbene regolarmente denunciato, non era stato mai immatricolato.
La fattispecie, ha sottolineato il T.A.R., non è stata ricondotta alla diversa ipotesi di chi abbia riportato una condanna per porto abusivo di armi (art. 43, I comma, lett. c, T.U.L.P.S.), la quale sarebbe di per sé automaticamente ostativa alla concessione del titolo abilitativo; ma, al contrario, l’omessa immatricolazione di vecchio fucile (sembrerebbe da collezione), regolarmente denunciato, di per sé, non è un indice presunto di inaffidabilità alla detenzione di armi e va valutata discrezionalmente dall’Amministrazione, con riguardo, nel caso di specie, alla condizione dell’istante, titolare di licenza di polizia da notevole tempo (40 anni), alla mancanza di qualsivoglia ulteriore elemento di riscontro della sua pericolosità per l’altrui incolumità e, soprattutto, alla circostanza che la sentenza penale è riferita a fatto commesso in epoca assai remota, ovvero il -OMISSIS-
Invece, con riguardo ai reati di omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali, estinti a seguito del tardivo versamento dei contributi, la sentenza appellata ha ritenuto che non sono certamente pertinenti alla materia oggetto del titolo abilitativo disconosciuto, al pari della sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida per omissione di soccorso a seguito di incidente stradale ed ai reati in tema di interventi edilizi.
Così pure la misura degli arresti domiciliari, in qualità di indagato per delitto di corruzione propria, ove non seguita da alcun accertamento di responsabilità penale, non può fondare alcun giudizio di riprovevolezza; il T.U.L.P.S., difatti, assegna valore ostativo alle misure di sicurezza e non a quelle cautelari.
Il resto degli addebiti riguarderebbe indagini penali ancora in corso per l’utilizzo di un falso certificato di residenza nel Comune di -OMISSIS-.
In definitiva, secondo il TAR, nessuno dei motivi addotti dalla pubblica amministrazione, considerato nella sua isolatezza, ha una portata automaticamente ostativa al possesso della licenza di porto uso caccia, richiedendosi invero una valutazione complessiva della personalità del soggetto destinatario del diniego di rinnovo dell’autorizzazione di polizia, onde valutarne l’incidenza in ordine al giudizio di affidabilità e/o probabilità di abuso nell’uso delle armi, sulla base di una congrua ed adeguata istruttoria, della quale dar conto in motivazione, “onde evidenziare le circostanze di fatto che farebbero ritenere il soggetto richiedente pericoloso o comunque capace di abusi”.
In conclusione, ad avviso del T.A.R., “quantomeno allo stato, i fatti allegati dall’amministrazione non paiono denotare alcun indice sintomatico di scarso equilibrio caratteriale e di indole incline alla violenza ed idoneo a supportare un giudizio di pericolosità sociale dell’interessato per l’ordine e la sicurezza pubblica”.
3.- Propone appello il Ministero dell’Interno, secondo cui la pluralità di condanne dimostrerebbe che l’interessato era ben lungi dall’essere esente da mende.
Il Ministero ha contestato anche l’interpretazione della normativa fatta propria dal primo giudice, il quale erroneamente non avrebbe attribuito rilevanza alle condanne per illeciti previdenziali, assistenziali ed edilizi, in quanto non attinenti alla materia oggetto del titolo abilitativo.
Il Ministero riporta un ulteriore episodio di particolare gravità, trascurato dal primo giudice: l’interessato è stato pure denunciato alla Procura della Repubblica di -OMISSIS- per contraffazione di sigilli e falsificazione di certificazione, al fine di ottenere l’ammissione all’esercizio dell’attività venatoria nella provincia di Alessandria.
L’appellante richiama, quindi, i limiti del sindacato giurisdizionale nella materia de qua, che non può estendersi fino a sovrapporsi al giudizio discrezionale di competenza della P.A., sostenendo che “nessun giudizio di pericolosità sociale deve precedere il rigetto dell’istanza” essendoci “una profonda differenza tra il mostrarsi del tutto esente da mende ed irreprensibile e non fornire sintomi di pericolosità sociale”.
4. – All’udienza dell’8 maggio 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1.- L’appello è fondato.
2.- Il Collegio condivide le critiche che il Ministero appellante muove alla sentenza impugnata.
Dopo aver ricostruito la normativa applicabile, da cui discende che l’autorizzazione alla detenzione ed al porto d’armi postulano che il beneficiario osservi una condotta di vita improntata alla piena osservanza delle norme penali e di quelle poste a tutela dell’ordine pubblico, nonché delle regole di comune buona convivenza, tale da non destare il sospetto di un possibile uso improprio delle armi, la sentenza contraddittoriamente, poi, ha ritenuto che i fatti allegati dall’amministrazione non fossero sintomatici di indole incline alla violenza ed idonei a supportare un giudizio di “pericolosità sociale” dell’interessato.
Invero, nessun giudizio di pericolosità sociale del richiedente deve precedere il rilascio dell’autorizzazione al porto d’armi, ma solamente un giudizio prognostico sull’affidabilità del soggetto e sull’assenza di rischio che egli possa abusare delle armi (Consiglio di Stato, sez. III, 12/06/2014, n. 2987).
La valutazione dell’Autorità di pubblica sicurezza è caratterizzata da ampia discrezionalità, perseguendo in tale materia lo scopo di prevenire, per quanto possibile, i delitti (ma anche i sinistri involontari), che potrebbero avere occasione per il fatto che vi sia la disponibilità di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili; tanto che il giudizio di “non affidabilità” è per certi versi più stringente rispetto a quello di “pericolosità sociale”, giustificando per esempio il diniego anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a “buona condotta” (si è ritenuto, ad es., legittimo il diniego in situazioni di inusuale conflittualità fisica e verbale nei rapporti familiari, o di convivenza, o di vicinato: Consiglio di Stato, sez. III, 19/09/2013, n. 4666).
Secondo la giurisprudenza di questa Sezione, da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, la licenza di porto d’ armi può essere negata anche in assenza di sentenza di condanna per specifici reati connessi proprio al corretto uso delle armi, potendo l’Autorità amministrativa valorizzare nella loro oggettività sia fatti di reato diversi, sia vicende e situazioni personali del soggetto che non assumano rilevanza penale, concretamente avvenuti, anche non attinenti alla materia delle armi, da cui si possa desumere la non completa “affidabilità” all’uso delle stesse (Consiglio di Stato, sez. III, 29/07/2013, n. 3979).
Le norme di cui agli artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, difatti, oltre ad ipotesi tipiche di diniego vincolato, collegato alla riportata condanna per alcuni reati, consentono di negare le autorizzazioni di polizia, in generale, a chi ha riportato condanna per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico, ovvero per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per violenza o resistenza all’autorità, e a chi non ha tenuto una buona condotta.
In particolare, l’art. 43 cit., per quanto riguarda la licenza di portare armi, prevede il divieto di autorizzazione a chi ha riportato condanna alla reclusione per i medesimi delitti di cui sopra, non colposi, ovvero a chi ha riportato condanna a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all’autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico; oppure, da ultimo, a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi.
Con norma di chiusura, inoltre, l’ultimo capoverso dello stesso articolo dispone che “la licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi” (la prova della buona condotta, a seguito della sentenza della Corte Cost. 16 dicembre 1993, n. 440, grava sull’Amministrazione).
Quest’ultimo inciso trova applicazione nella fattispecie.
Non sembra, invero, illogico, alla luce della disposizione normativa, che il -OMISSIS- abbia attribuito rilevanza a fatti e precedenti penali sia relativi alla illegale detenzione di armi e munizioni (condanna della -OMISSIS-con sentenza del -OMISSIS-, confermata dalla Corte di Cassazione, alla pena di mesi 8 di reclusione e alla multa di lire 140.000); sia non concernenti il buon uso delle armi, ma comunque denotanti senza dubbio una condotta non perfettamente specchiata.
Ci si riferisce ai fatti di reato in materia previdenziale e di contributi previdenziali e assistenziali di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 638/83, oggetto del decreto penale del GIP della -OMISSIS-del 23.3.1992; alle sentenze del 30 gennaio 1995, del 24 gennaio 1996 e del 26.2.1996, emesse a -OMISSIS-, per omissione di ritenute previdenziali ex art. 2, comma 1°, della legge n. 638/83; alla sentenza della -OMISSIS-del -OMISSIS-, per omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali ex art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 463/1983 ed alla sentenza della Corte di Cassazione del -OMISSIS-, per la medesima fattispecie; anche se si tratta di sentenze tutte che hanno dichiarato estinti i reati a seguito di intervenuto versamento tardivo delle somme dovute.
Appare pertinente anche il richiamo alle violazioni in materia edilizia (ancorché ottenuta la riabilitazione, come osserva il ricorrente nel ricorso introduttivo, pag. 9), nonché alla misura degli arresti domiciliari per il delitto di corruzione, nell’ambito del procedimento penale pendente presso il -OMISSIS-ed alla sospensione della patente di guida per omissione di soccorso a seguito di incidente stradale, in quanto si tratta di circostanze tutte insieme valorizzate al fine di valutare la sussistenza del requisito di “affidabilità” necessario al rilascio dell’autorizzazione.
In definitiva, il provvedimento impugnato indica fatti e circostanze in modo dettagliato e preciso, e, sebbene in modo scarno, ne ricava congruamente un giudizio di non sussistenza del requisito soggettivo dell’ “affidabilità”, in modo sufficiente a rendere comprensibile l’iter logico seguito e non manifestamente illogiche le conclusioni adottate; trattasi, infatti, di elementi tutti ben idonei, nel loro complesso, a fondare la valutazione fatta dal Prefetto, della quale non si evidenzia alcuna irragionevolezza o difetto di istruttoria, alla luce della chiara propensione dell’interessato ad una non episodica violazione delle regole.
Pertanto, l’appello va accolto.
3. – Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono, come di regola, la soccombenza.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Terza – definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.
Condanna la parte appellata alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio in favore dell’appellante, liquidandole in complessivi euro 3000,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 maggio 2014 con l’intervento dei magistrati:
Salvatore Cacace – Presidente FF
Vittorio Stelo – Consigliere
Roberto Capuzzi – Consigliere
Dante D’Alessio – Consigliere
Paola Alba Aurora Puliatti – Consigliere, Estensore
Depositata in Segreteria l’1 agosto 2014.
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