Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 21 agosto 2018, n. 20880.

La massima estrapolata:

Il medico impiegato presso una pubblica amministrazione a tempo indeterminato deve rispettare l’articolo 53 del Dlgs 165/2001 che richiama il regime delle incompatibilità e il divieto di cumulo previsto dal Dpr 3/1957 e legittima il licenziamento del dirigente medico che non è stato, preventivamente, autorizzato a svolgere altri incarichi esterni.

Sentenza 21 agosto 2018, n. 20880

Data udienza 9 maggio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere

Dott. TRIA Lucia – Consigliere

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 12791/2017 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
ENTE STRUMENTALE CROCE ROSSA ITALIANA;
– intimata –
nonche’ da:
ENTE STRUMENTALE CROCE ROSSA ITALIANA, in persona del legale rappresentante pro tempore domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;
– controricorrente al ricorso incidentale –
avverso la sentenza n. 319/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 20/03/2017 R.G.N. 1321/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/05/2018 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale assorbito il ricorso incidentale condizionato;
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Firenze ha respinto il reclamo della L. n. 92 del 2012, ex articolo 1, comma 58, proposto da (OMISSIS) avverso la sentenza del Tribunale della stessa citta’ che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza emessa nella fase sommaria e rigettato il ricorso volto ad ottenere l’annullamento del licenziamento intimato il 28 novembre 2014 dall’Ente Strumentale alla Croce Rossa Italiana e la condanna del resistente alla reintegrazione nelle mansioni di dirigente medico ed al pagamento della indennita’ risarcitoria prevista dalla L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4.
2. La Corte territoriale ha premesso che la sanzione disciplinare era stata inflitta all’appellante perche’ negli anni 2011 e 2012 aveva svolto, senza preventiva autorizzazione del datore di lavoro, l’incarico di medico penitenziario, percependo compensi superiori per ciascun anno a Euro 100.000,00.
3. Il giudice d’appello ha evidenziato, per quel che qui ancora rileva, che il reclamante non poteva invocare la speciale disciplina dettata dalla L. n. 740 del 1970, articolo 2, perche’ nella specie non veniva in rilievo il rapporto con l’amministrazione penitenziaria bensi’ quello instaurato con la Croce Rossa Italiana, caratterizzato dal principio di esclusivita’. Il (OMISSIS), pertanto, avrebbe dovuto domandare al datore di lavoro pubblico l’autorizzazione allo svolgimento o alla conservazione dell’altro incarico.
4. La Corte fiorentina ha escluso l’eccepita tardivita’ della contestazione ed ha rilevato che con la missiva dell’8 febbraio 2000 l’appellante si era limitato a richiedere notizie sulle regole di condotta da rispettare nello svolgimento di incarichi esterni. Dallo scambio di corrispondenza non si poteva desumere alcuna tolleranza del datore di lavoro rispetto ad un’eventuale incompatibilita’.
5. Infine il giudice del reclamo ha ritenuto la sanzione espulsiva proporzionata all’addebito contestato ed ha evidenziato che le fattispecie tipizzate dall’articolo 55 quater, del richiamato decreto legislativo non costituiscono un numero chiuso, in quanto lo stesso legislatore ha mantenuto ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e ha fatto salve le ulteriori ipotesi previste dai contratti collettivi. Ha aggiunto che il (OMISSIS) aveva svolto un elevato numero di incarichi, produttivi di redditi consistenti, pur essendo consapevole della necessita’ dell’autorizzazione, circostanza questa desumibile dalla richiesta di chiarimenti inoltrata nell’anno 2000. Infine la Corte ha ritenuto non rilevante l’archiviazione di altro procedimento avviato con riferimento ad incarichi svolti negli anni 2014 e 2015, ossia nel periodo successivo alla trasformazione dell’ente, che aveva determinato il venir meno del divieto di cumulo.
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS) sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria ex articolo 378 c.p.c., ai quali ha opposto difese l’Ente Strumentale alla Croce Rossa Italiana, che ha notificato ricorso incidentale condizionato affidato ad un’unica censura.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia, ex articolo 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 740 del 1970, articolo 2, nella parte in cui prevede che “a tutti i medici che svolgono a qualsiasi titolo attivita’ nell’ambito degli istituti penitenziari non sono applicabili le incompatibilita’ e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale”. Il ricorrente sostiene che la finalita’ della disposizione e’ quella di agevolare l’accesso all’esercizio di un’attivita’ particolarmente gravosa, sicche’ non poteva essere circoscritto l’ambito soggettivo di applicazione della norma al solo rapporto con l’amministrazione penitenziaria.
1.2. La seconda censura, nel denunciare la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 7, articoli 1175 e 1375 c.c., addebita alla sentenza impugnata di avere erroneamente respinto l’eccezione di tardivita’ della contestazione disciplinare “e/o di intervenuta abdicazione da parte di CRI della potesta’ disciplinare”. Il ricorrente riporta nel ricorso il contenuto della corrispondenza intercorsa fra le parti nell’anno 2000 e sostiene che dalla stessa la Corte territoriale avrebbe dovuto desumere la volonta’ dell’ente di tollerare lo svolgimento di altri incarichi, atteso che il dipendente aveva fatto riferimento ad un’incompatibilita’ che poteva essere gia’ in atto.
1.3. Il terzo motivo denuncia, sotto altro profilo, la violazione delle norme di legge sopra richiamate nonche’ degli articoli 1455 e 2106 c.c., perche’ il giudice del reclamo avrebbe dovuto ritenere la sanzione espulsiva non proporzionata alla gravita’ della condotta addebitata, valutando tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi dell’illecito disciplinare e non la sola entita’ degli importi percepiti.
1.4. Con la quarta critica il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, articolo 5, articolo 115 c.p.c. e articolo 2697 c.c. e rileva che il datore di lavoro non aveva assolto all’onere della prova sullo stesso gravante, non avendo dimostrato l’idoneita’ della condotta a ledere il vincolo fiduciario ne’ che per la stessa la contrattazione collettiva aveva previsto la sanzione espulsiva.
2. Il ricorso incidentale condizionato denuncia, con un unico motivo, violazione e falsa applicazione della L. n. 740 del 1970, articolo 2, comma 2. L’Ente strumentale rileva che la norma richiamata in rubrica e’ riferibile ai soli “medici incaricati” ammessi all’incarico previo espletamento di una procedura concorsuale e non trova applicazione nei casi in cui l’incarico venga conferito dal direttore dell’istituto ai sensi dell’articolo 50 della stessa legge. Il Dott. (OMISSIS) non aveva dimostrato di avere sottoscritto il contratto previo superamento del concorso indetto con decreto del Ministro della Giustizia, sicche’, per cio’ solo, doveva essere esclusa la fondatezza delle doglianze del ricorrente, tenuto al rispetto della normativa dettata dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53.
3. Il primo motivo del ricorso principale e’ infondato.
La L. n. 740 del 1970, detta norme volte a disciplinare l'”ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell’Amministrazione penitenziaria” e all’articolo 1 definisce “medici incaricati” i “medici chirurghi, non appartenenti al personale civile di ruolo dell’Amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena, i quali prestano la loro opera presso gli istituti o servizi dell’amministrazione stessa” (comma 1) ed hanno le attribuzioni previste dai regolamenti di istituto (comma 2).
L’articolo 2 della legge, intitolato “rapporto di incarico”, prevede, al comma 1, che “le prestazioni professionali rese in conseguenza del conferimento dell’incarico sono disciplinate dalle norme della presente legge” ed al comma successivo aggiunge che “ai medici incaricati non sono applicabili le norme relative alla incompatibilita’ ed al cumulo di impieghi ne’ alcuna altra norma concernente gli impiegati civili dello Stato”. Infine il comma 3, inserito dal Decreto Legge n. 187 del 1993, convertito dalla L. n. 296 del 1993, stabilisce che “a tutti i medici che svolgono, a qualsiasi titolo, attivita’ nell’ambito degli istituti penitenziari non sono applicabili altresi’ le incompatibilita’ e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio Sanitario nazionale”.
3.1. Questa Corte ha da tempo affermato che le prestazioni rese dai medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena, non integrano un rapporto di pubblico impiego, bensi’ una prestazione d’opera professionale caratterizzata dagli elementi tipici della parasubordinazione (Cass. S.U. 12618/1998 e Cass. S.U. n. 7901/2003), che trova la propria fonte normativa nel complesso delle disposizioni contenute nella L. n. 740 del 1970, le quali si pongono come norme speciali (Cass. n. 3782/2012 e Cass. n. 10189/2017).
Il comma 2 dell’articolo 2, quindi, trova la sua ratio nella peculiare natura del rapporto al quale la disposizione si riferisce, perche’ e’ volto a rimarcare la non assimilabilita’ dello stesso all’impiego pubblico, e, quindi, ad escludere l’applicazione, non delle sole norme inerenti il regime delle incompatibilita’, ma in genere dell’intera disciplina dettata per gli impiegati civili dello Stato.
In considerazione della particolare penosita’ del servizio prestato dai sanitari addetti agli istituti penitenziari (Cass. n. 14947/2016; Cass. n. 17092/2010; Cass. n. 9046/2006) il legislatore, poi, ha ritenuto di non dovere estendere ai medici che svolgono “a qualsiasi titolo” detta attivita’ “le incompatibilita’ e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale”, rimarcando la specialita’ del rapporto anche rispetto a quelli, egualmente parasubordinati, instaurati con i medici convenzionati.
La disposizione in commento e’, quindi, volta a disciplinare il rapporto fra il sanitario e l’amministrazione penitenziaria ed esclude l’obbligo di esclusivita’, anche al fine di estendere la platea dei possibili aspiranti all’incarico, in considerazione della peculiare natura dello stesso.
3.2. Da cio’, peraltro, non si possono trarre le conseguenze pretese dal ricorrente, perche’ la norma non incide sulla disciplina di rapporti diversi da quello al quale si riferisce e, pertanto, non conferisce al medico incaricato il diritto a cumulare l’incarico con qualsiasi altra attivita’, prescindendo dai requisiti che per quest’ultima il legislatore richiede. Il distinto rapporto che viene in rilievo resta soggetto alle regole sue proprie, sicche’, ove lo stesso sia caratterizzato dall’esclusivita’, l’obbligo resta immutato, e non rileva che l’incarico ulteriore che si pretende di svolgere sia riconducibile alle previsioni della L. n. 740 del 1970.
Da cio’ discende che il medico legato ad una pubblica amministrazione da rapporto di impiego a tempo indeterminato, in relazione a detto rapporto ed agli obblighi che dallo stesso scaturiscono, e’ tenuto al rispetto del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, che richiama il regime delle incompatibilita’ ed il divieto di cumulo di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, sicche’ non puo’ sottrarsi alle conseguenze derivanti dalla violazione del divieto facendo leva sulla disciplina dettata, ad altri fini, dal menzionato della L. n. 740 del 1970, articolo 2, che la Corte territoriale, correttamente, ha ritenuto non applicabile alla fattispecie.
4. Il secondo motivo e’ inammissibile.
La Corte fiorentina, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, esaminata la corrispondenza intercorsa fra le parti nell’anno 2000, ha escluso che il contenuto della missiva inviata dal Dott. (OMISSIS) consentisse all’ente di avere contezza dello svolgimento di incarichi extralavorativi ed ha, poi, aggiunto che la conoscenza dei fatti per i quali si era proceduto in sede disciplinare risaliva all’agosto 2014, epoca in cui l’Agenzia delle Entrate aveva comunicato i redditi percepiti aliunde dal reclamante.
Il motivo, pur denunciando la violazione degli articoli 1175 e 1375 c.c. e della L. n. 300 del 1970, articolo 7, in realta’ si duole dell’errata valutazione delle risultanze processuali e sollecita una lettura diversa dei documenti trascritti in ricorso, riservata al giudice del merito e non censurabile in questa sede, nella quale, ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., comma 5, non puo’ neppure trovare ingresso la denuncia ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5.
E’ utile rammentare al riguardo che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa;
viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’ esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura e’ possibile, in sede di legittimita’, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi e’ segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, e’ mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le piu’ recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110).
Ne discende che, in relazione al tema che qui viene in rilievo, e’ ammissibile una denuncia ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, solo qualora si assuma che il giudice di merito abbia errato nella concretizzazione del concetto di tempestivita’, che si risolve in violazione di legge, ad esempio non considerando il carattere relativo dello stesso o valorizzando il solo arco temporale decorso fra il fatto e la contestazione, senza accertare il momento della conoscenza.
Non e’ questa l’ipotesi che ricorre nella fattispecie, sicche’ la censura non puo’ essere scrutinata.
4.1. A soli fini di completezza si osserva che il motivo muove da un presupposto erroneo li’ dove pretende di desumere dall’asserita tolleranza del datore di lavoro, che la Corte territoriale ha comunque escluso con indagine di fatto, l'”intervenuta abdicazione da parte di CRI della potesta’ disciplinare”.
Il Collegio intende dare continuita’ all’orientamento gia’ espresso con la sentenza n. 8722 del 4.4.2017 che, pronunciando in fattispecie nella quale veniva in rilievo la violazione del divieto di cumulo di impieghi, ha evidenziato che “nell’impiego pubblico contrattualizzato, il principio dell’obbligatorieta’ dell’azione disciplinare esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceita’ della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva”.
Con la richiamata pronuncia, analizzate le disposizioni del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, come modificato dal Decreto Legislativo n. 150 del 2009, dalle quali si desume la doverosita’ dell’iniziativa disciplinare, si e’ evidenziato che nel rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche l’inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri di ufficio puo’ solo rilevare, eventualmente, quale causa di decadenza dall’esercizio dell’azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non puo’ mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceita’ della condotta vietata, perche’ il principio dell’affidamento incolpevole presuppone che il potere del datore sia discrezionale, di modo che l’inerzia possa essere interpretata dal lavoratore subordinato come rinuncia all’esercizio del potere medesimo e come valutazione in termini di liceita’ della condotta.
I doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva tengono conto della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato al “servizio della Nazione” e, quindi, lo impegna a ispirare la propria condotta ai principi efficacemente riassunti nell’ultima versione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 54, con il richiamo ai “doveri costituzionali di diligenza, lealta’, imparzialita’ e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”.
La consapevole violazione di detti doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, non puo’ essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta.
5. Il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente perche’ entrambi investono il capo della sentenza relativo alla ritenuta sussistenza della giusta causa e della necessaria proporzionalita’ fra addebito contestato e sanzione inflitta.
Come evidenziato nello storico di lite la Corte territoriale, ritenuto provato lo svolgimento di attivita’ incompatibili con il rapporto di impiego pubblico, svolgimento, tra l’altro, mai contestato dal ricorrente, ha ravvisato nello stesso una condotta idonea, per la sua gravita’, a ledere il vincolo fiduciario ed ha a tal fine considerato sia gli aspetti oggettivi dell’illecito (numero e durata degli incarichi, produttivi di redditi consistenti) sia il profilo soggettivo, rilevando che la corrispondenza intercorsa fra le parti, lungi dal provare la buona fede del (OMISSIS), dimostrava, al contrario, come lo stesso fosse ben consapevole del regime di incompatibilita’, tanto che per altri incarichi aveva provveduto ad inoltrare all’ente richiesta di autorizzazione.
Il ricorso e’ infondato nella parte in cui assume che, in difetto di una espressa previsione da parte della legge e della contrattazione collettiva, la condotta addebitata non poteva essere sanzionata con il licenziamento.
Il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 quater, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, pur tipizzando una serie di illeciti da ricondurre al licenziamento disciplinare, richiama nell’incipit “la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo” e attraverso detto richiamo consente di infliggere la sanzione espulsiva a fronte di condotte non sussumibili nelle fattispecie tipizzate dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ma comunque idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e, quindi, a giustificare il recesso immediato o con preavviso.
Non vi e’ dubbio che la reiterata violazione dell’obbligo imposto dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, alla quale la stessa disposizione riconosce, al comma 7, rilevanza disciplinare, possa giustificare il recesso, giacche’, come questa Corte ha gia’ evidenziato, l’obbligo di esclusivita’ ha particolare rilievo nella disciplina del rapporto e trova il suo fondamento costituzionale nell’articolo 98 Cost., con il quale il legislatore costituente, nel prevedere che ” i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, ha voluto rafforzare il principio di imparzialita’ di cui all’articolo 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attivita’ (cfr. Cass. n. 28797/2017; Cass. 8722/2017; Cass. n. 28975/2017).
5.1. Per il resto il ricorso si risolve in un’inammissibile critica del giudizio di fatto espresso dalla Corte territoriale in relazione alla gravita’ della condotta, che non puo’ trovare ingresso in questa sede.
Al riguardo va, infatti, precisato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione e’ deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass. n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).
E’ stato precisato, inoltre, che il vizio di cui dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, comprende la falsa applicazione della norma, ossia il vizio di sussunzione del fatto, ipotizzabile anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimita’, e’ indispensabile, cosi’ come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta cosi’ come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici (Cass. n. 18715/2016).
Il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto va, dunque, individuato tenendo conto della distinzione “tra ricostruzione storica (assoggettata ad un mero giudizio di fatto) e giudizi di valore, sicche’ ogniqualvolta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realta’, in un giudizio di valore, si e’ in presenza d’una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d’azione della Corte Suprema” (Cass. n. 6501/2013).
Perche’, quindi, la censura possa essere ricondotta alla falsa applicazione di norme di diritto, in tema di licenziamento per giusta causa, si deve assumere che il fatto addebitato, ricostruito negli esatti termini indicati dal giudice del merito nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, e’ idoneo o non idoneo a giustificare il recesso dal rapporto, in quanto riconducibile o non riconducibile alla nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, come enunciata dalla Corte di legittimita’.
Ricorre, invece, l’errata interpretazione di norma di diritto qualora il giudice di merito abbia espresso il giudizio sulla gravita’ dell’inadempimento sulla base di criteri valutativi che collidono “con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalita’ assunta, come diritto vivente” (Cass. n. 7305/2018).
Nessuna di dette ipotesi ricorre nella fattispecie perche’ la Corte territoriale, dopo avere correttamente affermato che la violazione dell’obbligo di esclusiva puo’ giustificare il recesso per giusta causa, ferma restando la necessaria proporzionalita’ di cui all’articolo 2106 c.c., fra addebito e sanzione, ha espresso il giudizio sulla gravita’ dell’inadempimento, sia pure con motivazione sintetica, valutando gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta, ed a fronte di detta valutazione il ricorrente si e’ limitato a contestare il risultato dell’attivita’ valutativa, che si pone sul piano del giudizio di fatto, nella specie non sindacabile neppure nei limiti di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5, per la preclusione posta dall’articolo 348 ter c.p.c..
6. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate come da dispositivo.
Il rigetto del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente principale.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato. Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’ liquidate in Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1, quater da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. articolo 13, comma 1-bis.

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