Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza 14 maggio 2018, n.21286
E’ rimessa alle S.U. la seguente questione di diritto: se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell’evento.
SENTENZA 14 maggio 2018, n.21286
Pres. Fumu
est. Pavich
Ritenuto in fatto
1. P.F. , tramite il suo difensore di fiducia, ricorre avverso la sentenza di applicazione di pena ex art. 444 cod.proc.pen. emessa nei suoi confronti dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato per il reato p. e p. dall’art. 589-bis cod.pen., commesso in (omissis).
Per l’esattezza, giova evidenziare che la condotta alla guida del P. che cagionò la morte della persona offesa B.P. , investito in prossimità di un attraversamento pedonale, fu posta in essere il 20 gennaio del 2016, mentre il decesso del B. , a causa degli esiti del traumatismo conseguenti al sinistro stradale, intervenne appunto il 28 agosto dello stesso anno.
2. Con l’unico motivo di doglianza, l’esponente lamenta violazione di legge in riferimento al fatto che il reato ascrittogli ex art. 589-bis cod.pen. è stato introdotto nel nostro codice penale in epoca successiva alla condotta contestata; all’epoca in cui questa fu posta in essere era in vigore una disposizione penale assai più mite; secondo l’esponente, quindi, è illegittima, per violazione degli artt. 25 Cost., 7 Convenzione E.D.U. e 2 cod.pen., l’applicazione alla fattispecie dell’ipotesi di reato di cui al citato art. 589-bis, introdotta dopo il sinistro ma prima del decesso del B. dalla legge n. 41/2016: di tal che la norma applicata nella specie è sicuramente meno favorevole di quella vigente all’epoca della condotta, e la sua applicazione viola il principio di prevedibilità delle conseguenze penali della condotta, affermato dalla Corte Costituzionale. Osserva l’esponente che, in base al criterio adottato nella decisione impugnata, se il B. fosse morto sul colpo anziché dopo alcuni mesi dal sinistro, il reato sarebbe stato punito con una pena sensibilmente meno grave.
3. Con requisitoria scritta, il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
1. Prima di affrontare direttamente il motivo di doglianza rassegnato con il ricorso in esame, è necessario esaminare brevemente il profilo della ricorribilità per cassazione della sentenza di patteggiamento per ragioni inerenti alla pena: non già a quella stabilita in concreto attraverso il patto recepito dal giudice, ma a quella prevista in astratto, ossia alla cornice edittale.
La lagnanza del ricorrente è, in sostanza, riassumibile nei termini seguenti: può dirsi legale l’applicazione (sia pure frutto di un accordo tra le parti) di una pena che, al momento della condotta, si sarebbe collocata all’interno di limiti edittali più favorevoli rispetto a quelli presi a base del patteggiamento e ricavati dallo ius superveniens (ossia alla nuova e più severa cornice edittale che, al momento dell’evento, era entrata in vigore)?
La questione si pone soprattutto perché la pena concordata nel caso di specie risulta comunque ricompresa sia nei limiti edittali vigenti all’epoca della condotta, sia in quelli in vigore al momento dell’evento; ma è chiaro che, ove la pattuizione fosse avvenuta secondo la lex mitior vigente al momento della condotta, essa avrebbe potuto condurre alla determinazione di un trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’odierno ricorrente.
Il Collegio ritiene di dover rispondere senz’altro in senso affermativo al quesito di che trattasi.
È noto che, secondo un’impostazione tradizionale risalente ai primi anni di operatività del codice di rito oggi vigente, si affermava che la sentenza che recepisce l’intesa raggiunta dalle parti sul quantum della pena da applicarsi in concreto è ricorribile per Cassazione, oltre che per errores in procedendo, per mancato proscioglimento – ricorrendone le condizioni – ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. F, n. 2692 del 14/09/1990, Lofti Ben T., Rv. 185716).
Progressivamente si ammise che il ricorso per cassazione avverso sentenza di patteggiamento potesse essere presentato anche in relazione a pena illegale, ma ciò essenzialmente con riferimento al caso in cui il risultato finale del calcolo non risultasse conforme a legge (cfr. ad es. Sez. 6, n. 18385 del 19/02/2004, Obiapuna, Rv. 228047; e, più di recente, Sez. F, n. 38566 del 26/08/2014, Yossef, Rv. 261468).
Negli ultimi anni, tuttavia, la nozione di pena illegale (oggi espressamente menzionata fra i casi in cui è ammesso il ricorso per cassazione avverso la sentenza a pena patteggiata, in base all’art. 448, comma 2-bis, cod.proc.pen., introdotto dall’art. 1, comma 50, della legge 23 giugno 2017, n. 103) ha subito un’evoluzione che ne ha esteso la portata, anche con riguardo all’ammissibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione di pena ex art. 444 cod.proc.pen.. Soprattutto in seguito al mutamento del quadro edittale relativo ai reati in materia di stupefacenti (determinato sia dalle conseguenze della sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, sia dall’entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, conv. con mod. dalla legge 16 maggio 2014, n. 79), la Corte di legittimità ha avuto modo di affermare, a più riprese e anche a Sezioni Unite, che è affetta da illegalità sopravvenuta la pena applicata sul consenso delle parti in base a parametri edittali successivamente modificati da una legge penale più favorevole, o colpiti da declaratoria d’illegittimità costituzionale, anche quando la pena concretamente irrogata sia compresa entro i limiti edittali nella specie applicabili.
Basti qui ricordare la sentenza a Sezioni Unite Jazouli, che, con riferimento a un ricorso avverso sentenza di patteggiamento, ha affermato l’illegalità della pena determinata attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette ‘leggere’, sui limiti edittali dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 e 264206).
Analogamente la sentenza a Sezioni Unite Marcon ha affermato che la pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, deve essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale, e ciò anche nel caso in cui la pena concretamente applicata sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità. (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264857).
In altre pronunzie l’illegalità della pena patteggiata è stata affermata anche per i reati commessi prima della data di entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, conv. con mod. dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, che ha ridotto i limiti edittali della sanzione irrogabile per il fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, del d.P.R. n. 309 del 1990, anche qualora la pena determinata in concreto sia compresa all’interno della forbice edittale (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 2702 del 18/11/2015, dep. 2016, Nuti, Rv. 265822; Sez. 4, n. 49531 del 21/11/2014, Loconte, Rv. 261074).
Ne deriva una nozione di pena illegale che, lungi dal riferirsi esclusivamente al trattamento sanzionatorio che si collochi al di fuori della misura determinata dalla legge, è comprensiva anche dell’ipotesi in cui la pena applicata in concreto rientra in tale misura, ma si fonda su parametri astratti che nel frattempo sono stati modificati; e ciò pur quando il trattamento sanzionatorio sia frutto della volontà delle parti formalizzata attraverso il patteggiamento.
Nel caso oggetto del presente giudizio, la pena era stata pattuita in misura tale da rientrare sia all’interno dei limiti edittali in vigore al momento dell’evento (ossia del decesso della persona offesa B.P. , intervenuto il 28 agosto 2016, quando era già in vigore l’art. 589-bis cod.pen., oggetto di imputazione e introdotto con la legge n. 41/2016), sia all’interno dei limiti edittali più favorevoli vigenti al momento della condotta (ossia il 20 gennaio 2016, quando l’imputato, alla guida dell’autovettura di cui all’imputazione, cagionò per colpa l’incidente da cui conseguì la morte del pedone).
Nondimeno, come da prospettazione del ricorrente, vi era stato medio tempore un mutamento in peius del trattamento sanzionatorio.
È ben vero, infatti, che gli estremi edittali della fattispecie contestata (art. 589-bis comma 1 cod.pen.) sono compresi fra due e sette anni di reclusione, esattamente come quelli stabiliti dall’art. 589, comma 2, cod.pen. nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della citata legge n. 41/2016 con riferimento al delitto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale.
Ma, mentre in quest’ultimo caso era configurabile una circostanza aggravante del delitto di omicidio colposo di cui al primo comma dell’art. 589 cod.pen. (circostanza aggravante che, si badi, era soggetta a giudizio di bilanciamento, atteso che il previgente testo dell’art. 590-ter cod.pen. qualificava come aggravante rinforzata, sottratta come tale alla comparazione di cui all’art. 69 cod.pen., solo quella di cui al terzo comma dell’art. 589), nel caso di cui all’art. 589-bis, comma primo, cod.pen. deve parlarsi di ipotesi autonoma di reato (cfr. sul punto Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni, Rv. 270918). Ciò del resto trova rispondenza, nel caso di specie, come si ricava dai passaggi attraverso i quali si è giunti alla determinazione della pena patteggiata: il computo delle circostanze attenuanti generiche ha infatti determinato una diminuzione di un terzo rispetto alla pena minima edittale (passata da due anni e un anno e quattro mesi di reclusione), laddove, qualora le suddette attenuanti ex art. 62-bis cod.pen. fossero state applicate al previgente art. 589, comma 2, cod.pen., per effetto del giudizio di comparazione la pena minima applicabile sarebbe stata quella dell’ipotesi-base di cui al primo comma dello stesso articolo, ossia sei mesi di reclusione in caso di giudizio di equivalenza, che sarebbero potuti scendere a quattro mesi nel caso di giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche.
Di qui, fra l’altro, è agevole desumere l’interesse del ricorrente sotteso all’impugnazione.
Ritiene pertanto il Collegio che, sotto l’indicato profilo, il ricorso de quo superi il vaglio di ammissibilità, in quanto riferibile a una particolare ipotesi di pena (asseritamente) illegale, che nella specie sarebbe divenuta tale per effetto del mutamento della forbice edittale riferita allo stesso fatto, intervenuto fra il momento della condotta e il momento dell’evento.
2. Fatta questa ampia premessa, può affrontarsi la questione proposta dal ricorrente: la quale attiene, per l’appunto, all’individuazione della legge penale applicabile nei casi in cui, tra la condotta e l’evento, intercorra un arco temporale durante il quale entri in vigore una norma penale che sanziona il medesimo reato in termini più sfavorevoli all’imputato rispetto alla norma previgente.
3. Nel fornire risposta al quesito di che trattasi, riferito al rapporto intercorrente tra tempus commissi delicti e trattamento sanzionatorio, la giurisprudenza si richiama alla legge penale in vigore al momento di commissione, ovvero di consumazione, del reato; secondo l’indirizzo prevalente, per i reati di evento tale momento coincide con quello in cui l’evento si verifica, anche laddove ciò avvenga a distanza di tempo dal momento della condotta.
A tale indirizzo, come evidenziato dal Procuratore generale nella requisitoria scritta, aderisce la giurisprudenza di legittimità ivi menzionata (Sez. 4, Sentenza n. 22379 del 17/04/2015, Sandrucci e altri, n.m.), secondo cui, per il trattamento sanzionatorio, deve comunque aversi riguardo a quello vigente al momento della consumazione del reato, cioè al momento dell’evento lesivo. In breve sintesi, tale orientamento riafferma il principio in base al quale, ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 2, cod.pen., il tempus commissi delicti va collocato al momento della consumazione del reato; e nella specie, trattandosi di reato a forma libera, tale momento coincide con il verificarsi dell’evento tipico.
La richiamata sentenza Sandrucci, giova qui ricordare, riguardava imputazioni per omicidio colposo formulate nei confronti di due direttori di uno stabilimento per la produzione di lampadine e tubi fluorescenti – i quali avevano ricoperto il loro incarico in un arco temporale compreso fra il 1972 e il 1984 – in relazione a decessi di dipendenti intervenuti tra il 2005 e il 2009 per mesotelioma pleurico o per adenocarcinoma polmonare (patologie lungo-latenti riferibili all’esposizione ad amianto).
Nel caso in esame la condotta ascritta agli imputati si collocava per intero ‘a monte’ del duplice innalzamento dei limiti edittali della pena previsti per il reato di cui all’art. 589 cod.pen., sui quali il legislatore era intervenuto in epoca successiva a tale condotta, ossia dapprima con la L. 21 febbraio 2006, n. 102 (che aveva innalzato da cinque a sei anni il limite superiore previsto dal secondo comma in materia di infortuni sul lavoro), poi con il D.Lgs. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, che aveva innalzato di un anno il minimo edittale, portandolo a 2, e di un ulteriore anno il massimo edittale, portandolo a 7 anni, per il reato di cui all’art. 589 c.p., comma 2.
Nell’affrontare la questione del trattamento sanzionatorio applicabile, con particolare riguardo alla questione di legittimità costituzionale in allora sollevata dai ricorrenti (avuto riguardo ai parametri costituiti dagli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.), la citata sentenza Sandrucci così si esprime testualmente: ‘(…) la pena applicata non risulta illegale perché è comunque ricompresa nei limiti edittali previsti dalla norma, da ritenere applicabile comunque osservato la correttezza della decisione del giudice di merito che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità, evidenziando che per il trattamento sanzionatorio doveva comunque aversi riguardo a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell’evento lesivo’.
‘Non vi è quindi ragione di evocare l’art. 2 c.p., comma 4, per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato. È cioè rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta’.
‘Quindi è al momento della consumazione che bisogna avere riguardo alla normativa applicabile e rispetto a tale momento può in ipotesi porsi una questione di applicazione di normativa sopravvenuta. Ciò che qui deve escludersi, con conseguente manifesta infondatezza in fatto della questione di costituzionalità’.
Nella stessa sentenza Sandrucci vengono poi evocati alcuni precedenti giurisprudenziali che si collocherebbero nel solco dei principi in essa affermati: il riferimento è a Sez. 1, n. 20334 del 11/05/2006, Caffo, Rv. 234284 (in tema di applicabilità della modifica apportata all’art. 9 dalla legge 31 luglio 2005 n. 155, che ha trasformato la contravvenzione in delitto con riguardo alla violazione del divieto di frequentare soggetti pregiudicati connessa alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, di cui all’art. 9 legge n. 1423/1956) e ad alcune pronunzie in materia di atti persecutori, con riferimento a condotte in tutto o in parte commesse prima dell’entrata in vigore dell’art. 612-bis cod.pen., introduttivo della nuova fattispecie sanzionatoria.
In realtà, va per l’esattezza osservato che i casi richiamati dalla sentenza Sandrucci (riferibili a reati abituali, o comunque caratterizzati da condotte protratte nel tempo) si riferiscono, nella quasi totalità, ad azioni poste in essere almeno in minima parte – ‘a cavallo’ fra le due diverse discipline del trattamento sanzionatorio. Solo il riferimento a Sez. 5^, 19/05/2011, L. riguarda un’ipotesi di atti persecutori consumatasi nella vigenza della norma incriminatrice, in cui la condotta materiale di minaccia e/o di molestia era stata posta in essere per intero prima dell’entrata in vigore della nuova norma incriminatrice.
4. Nel solco dello stesso orientamento interpretativo si pone altresì Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita e altri, Rv. 260003. Secondo detta pronunzia, in tema di successione di leggi penali nel tempo, il concorrente che abbia realizzato un contributo causale interamente esauritosi prima della introduzione di una nuova norma incriminatrice o meramente sanzionatoria è soggetto a((a disciplina sopravvenuta, anche se più sfavorevole, quando il reato è pervenuto a consumazione dopo l’entrata in vigore di quest’ultima. Nella fattispecie la Corte aveva ritenuto corretta l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203, in relazione ai reati di importazione e conseguente detenzione di armi da guerra, nei confronti di un imputato che aveva intrapreso trattative con il venditore prima della introduzione dell’aggravante, e la condotta illecita si era però perfezionata dopo il suo arresto e dopo l’entrata in vigore della nuova norma per effetto dell’apporto di altri concorrenti.
Nella parte in diritto della sentenza in esame si legge: ‘(…) quando una condotta (concorsuale, nel caso di specie) inizia sotto il vigore di una norma incriminatrice o meramente sanzionatoria, ma si conclude sotto il vigore di una nuova norma della medesima specie, non può essere dubbio che debba trovare applicazione la seconda norma, anche se le conseguenze in tema di pena possano essere più severe. In tal caso non si ha alcuna violazione dell’art. 2 c.p., comma 4 perché, evidentemente, il tempus commissi delicti è quello in cui si perfeziona la condotta o si verifica l’evento. E se la condotta si è protratta nel tempo (anche eventualmente ad opera di più soggetti concorrenti) è il momento conclusivo quello che rileva’.
‘Ciò è stato esplicitamente sostenuto per i delitti associativi (cfr., ad es., ASN 201040203-RV 248461), ma il principio deve trovare applicazione anche peri reati non permanenti, quando l’azione abbia avuto durata apprezzabile e si sia, comunque, conclusa (e dunque il reato abbia avuto consumazione) sotto la vigenza della nuova legge (…)’.
Qui la particolarità sta in ciò, che il reato permanente, o comunque caratterizzato da condotte protratte nel tempo, viene commesso almeno in parte (da alcuni fra i concorrenti) sotto il vigore della nuova e più severa previsione sanzionatoria; ma quest’ultima, oltre a doversi applicare ai compartecipi che pongano in essere condotte criminose anche nella vigenza di essa, trova applicazione – secondo la sentenza in esame – anche nei riguardi di colui il quale abbia fornito il proprio apporto concorsuale al reato limitatamente a condotte esauritesi, per intero, sotto il vigore del previgente e più favorevole quadro legislativo.
5. L’approccio ermeneutico fin qui illustrato presenta tuttavia, ad avviso del Collegio, notevoli controindicazioni con riferimento a fattispecie del tipo di quella che forma oggetto del presente giudizio.
Invero, a ben vedere, una rigorosa adesione al ragionamento posto a base delle richiamate pronunzie (cui del resto si è uniformato il rappresentante della Procura generale nella sua requisitoria scritta) implicherebbe che, anche in presenza di una condotta – nella specie istantanea, anziché ‘di durata’ – posta in essere (oltretutto per colpa) sotto il vigore di una disciplina legislativa più favorevole in punto di trattamento sanzionatorio, trovi applicazione la legge penale in vigore al momento dell’evento, intervenuto a distanza di tempo, pur quando essa preveda per il reato de quo conseguenze sanzionatorie più severe rispetto a quelle precedentemente vigenti.
Non va sottaciuto che un pur risalente indirizzo giurisprudenziale di legittimità era pervenuto a soluzioni opposte, che si ritiene di dover oggi condividere e riproporre, quanto meno in relazione a fattispecie come quella in esame.
Ci si riferisce in particolare a Sez. 4, n. 8448 del 05/10/1972, Bartesaghi, Rv. 122686, secondo la quale, nel caso di successione di leggi penali che regolano la stessa materia, la legge da applicare e quella vigente al momento dell’esecuzione dell’attività del reo e non già quella del momento in cui si è verificato l’evento che determina la consumazione del reato.
Dal canto suo, sempre in tema d’individuazione del tempus commissi delicti, la dottrina prevalente sembra aderire a quest’ultima opzione interpretativa (che per comodità viene comunemente definita ‘criterio della condotta’) in contrapposizione a quella precedentemente illustrata (denominata ‘criterio dell’evento’). In generale si afferma che, applicando il criterio dell’evento, il soggetto non sarebbe in grado di adeguare la propria condotta alle mutate prescrizioni di legge. La legge successiva verrebbe così applicata retroattivamente a fatti commessi in un tempo in cui non era conoscibile.
Sempre secondo la dottrina, sono peraltro previste diverse declinazioni dei suddetti criteri.
Ad esempio, nei reati omissivi propri, si ha riguardo al momento della scadenza del termine utile per ottemperare all’obbligo la cui violazione è penalmente sanzionata; nei reati a forma vincolata istantanei, e nel delitto tentato, il momento del commesso reato coincide con il momento di realizzazione completa della fattispecie; nei reati di durata (in specie nei reati permanenti ed in quelli necessariamente ed eventualmente abituali) parte della dottrina ritiene rilevante il momento in cui la condotta ha termine e la legge applicabile è la legge (anche più sfavorevole) in vigenza della quale la condotta cessa o si protrae; altri Autori censurano tale impostazione, perché confonderebbe fra consumazione e realizzazione del reato: nel caso di reato permanente la consumazione avviene quando la permanenza cessa, la realizzazione sussiste quando la permanenza ha inizio; con l’inizio della permanenza il reato deve ritenersi commesso ed è a questo istante che occorre riferirsi per stabilire quale sia la legge applicabile.
Nei reati causalmente orientati (o a forma libera) di tipo doloso, la dottrina ritiene che il momento rilevante coincida con l’ultimo momento sorretto da dolo, mentre nei reati colposi esso coinciderebbe con il primo atto contrario ai doveri di attenzione; oppure, secondo altra dottrina, con il momento in cui il colpevole realizza l’ultimo fra gli elementi della condotta, che ricade sotto i suoi poteri di controllo.
Altro Autore, commentando la citata sentenza Sandrucci, evidenzia che il criterio in base al quale il tempus commissi delicti deve essere agganciato alla consumazione del reato (a sua volta corrispondente alla verificazione dell’evento tipico) si appalesa ‘pericolosamente fuorviante, giacché conduce ad adottare un’interpretazione dell’art. 2 c.p. contraria al sistema di garanzie delineato dalla Costituzione e della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo’. Evocando una serie di principi costituzionali e sovranazionali e richiamando la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988, lo stesso Autore evidenzia che ‘l’esigenza sottesa al principio di irretroattività della norma sfavorevole è quella di tutelare le libere scelte dei consociati, e in definitiva la loro libertà di autodeterminazione, rendendo prevedibili le conseguenze giuridico-penali delle condotte: evitando cioè che taluno possa essere punito, o punito più severamente, in relazione a fatti che, al momento in cui furono commessi, o non costituivano reato, oppure, pur costituendo reato, erano soggetti ad un trattamento sanzionatorio più mite’.
6. A fronte di un così composito quadro interpretativo, il Collegio ritiene di dover aderire, come già anticipato, al criterio della condotta, quanto meno con riferimento alle fattispecie come quella in esame (che è inquadrabile tra i reati colposi a forma libera).
Appaiono opportune, sul punto, alcune considerazioni.
Sono sicuramente suggestive e meritevoli di riflessione le considerazioni del ricorrente nel sottolineare che, a fronte di un incidente stradale avvenuto nel vigore del più favorevole quadro normativo quoad poenam, il trattamento sanzionatorio che ne è seguito è dipeso in modo decisivo dal momento del decesso della vittima: se il pedone fosse morto sul colpo, la legge penale applicabile sarebbe stata quella ante l. n. 41/2016, contenente (come si è visto) previsioni più miti; poiché invece la persona offesa è deceduta dopo che la legge n. 41/2016 è entrata in vigore, ragionando sulla base del c.d. criterio dell’evento dovrebbe applicarsi quest’ultima, benché più severa in punto di pena. E questo sebbene non fosse prevedibile, per il soggetto attivo, che il trattamento sanzionatorio a suo carico sarebbe stato sensibilmente peggiore in dipendenza della permanenza in vita della vittima per alcuni mesi dopo il sinistro.
È di tutta evidenza che tale epilogo stride con il principio nullum crimen, nulla poena sine (praevia) lege poenali, e con l’assunto, condivisibilmente sostenuto dalla richiamata dottrina, in base al quale il principio di irretroattività della legge penale meno favorevole si pone a garanzia del soggetto attivo, nella considerazione che egli non dev’essere chiamato a soggiacere non solo a previsioni incriminatrici non vigenti al momento del fatto, ma neppure a previsioni sanzionatorie che dopo il fatto sono divenute più gravi: ciò in quanto egli non poteva non solo conoscere, ma neppure prevedere che lo ius superveniens potesse comportare, per il reato da lui commesso, conseguenze più gravi di quelle in vigore nel momento in cui egli si determinò a commettere il reato.
Nella specie, poi, la conseguenza dell’adozione del criterio dell’evento è ancor più paradossale, poiché il soggetto attivo non aveva neppure agito con dolo, ma con colpa: di tal che esulava dalla sua sfera di volizione quell’evento, le cui conseguenze gli verrebbero poste a carico secondo la più grave previsione sanzionatoria vigente al momento del verificarsi dell’evento medesimo.
Per questo non è condivisibile l’assunto secondo il quale, per stabilire la previsione sanzionatoria applicabile, occorre sempre e comunque avere riguardo al momento di consumazione del reato, anche quando – come nella specie – si tratti di reato (colposo) di evento a forma libera e l’evento (nella specie, la morte della vittima) si sia verificato a distanza di tempo dalla condotta, quando nel frattempo era entrata in vigore una più severa cornice edittale per lo stesso fatto.
I casi giurisprudenziali che si sono citati supra e che aderiscono, sostanzialmente, al c.d. criterio dell’evento si riferiscono, pervero, a fattispecie alquanto diverse da quella in esame, tutte riconducibili a reati ‘di durata’ (abituali o permanenti), alcune delle quali a ben vedere neppure sembrano potersi rapportare a detto criterio: infatti, laddove anche solo una parte della condotta riferibile al reato abituale o permanente sia stata posta in essere sotto il vigore della nuova legge penale meno favorevole, è di tutta evidenza che si versa in un’ipotesi pienamente riconducibile ai principi generali in materia di successione di leggi penali nel tempo, perché la condotta (riferita a reato non istantaneo) si protrae oltre il momento in cui la previsione sanzionatoria diviene più grave.
A parte ciò, la frizione fra il principio costituzionale di legalità penale e la previsione di un trattamento sanzionatorio più grave di quello vigente all’epoca della condotta, quando quest’ultima si esaurisca invece per intero sotto il vigore della lex mitior, appare comunque nettamente percepibile.
A fondamento del principio di legalità stanno, per l’appunto, la conoscibilità e la prevedibilità in concreto sia del precetto penale che della relativa sanzione (‘nullum crimen, nulla poena’).
A proposito della prevedibilità in concreto, infatti, essa costituisce com’è noto un criterio-guida per assicurare la tenuta costituzionale di una serie di istituti che, sotto il profilo della legalità penale, sono stati considerati ‘problematici’ o ‘di confine’: si pensi, solo per fare qualche esempio, al concorso anomalo (cfr. Sez. 5, n. 34036 del 18/06/2013, Malgeri e altri, Rv. 257251), al delitto di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 cod.pen.: cfr. Sez. U, n. 22676 del 22/01/2009, Ronci, Rv. 243381), ai delitti aggravati dall’evento (cfr. Sez. 5, n. 18490 del 14/11/2012 – dep. 2013, Acerbis, Rv. 256239) e così via.
Se però si sposta il tema della (necessaria) prevedibilità dall’evento alla sanzione, è di tutta evidenza che le considerazioni che sorreggono il criterio della prevedibilità in concreto non soccorrono più, atteso che non può certo evocarsi, e porsi a carico del soggetto attivo, l’onere di prevedere che medio tempore (dopo il compimento della condotta e prima del verificarsi dell’evento) il legislatore decida di colpire il reato con maggiore gravità. Diversamente opinando, la minaccia penale verrebbe deprivata della sua funzione di influenza dell’autodeterminazione dei consociati (funzione rivolta necessariamente alle azioni presenti e future, giammai a quelle passate); al tempo stesso, si abdicherebbe a un’essenziale ratio garantistica che ispira e contraddistingue l’intero sistema penale, sotto il profilo dell’individuazione non solo del precetto, ma anche della sanzione da applicarsi ratione temporis.
Sotto il profilo dell’uniformità e della coerenza logica dell’ordinamento, va chiarito che i principi stabiliti dall’art. 2 cod.pen. rispondono a logiche e a finalità diverse rispetto ad altri istituti che chiamano in causa la commissione del reato: ad esempio, non possono evocarsi ai fini che qui interessano le previsioni in tema di decorrenza del termine di prescrizione (art. 158 cod.pen.), atteso che esse non coinvolgono la prevedibilità delle conseguenze penali della condotta (del resto, quando ciò accade, anche l’istituto della prescrizione, di diritto sostanziale, soggiace alle previsioni di cui all’art. 2 cod.pen.: cfr. ex multis Sez. 3, n. 3385 del 17/11/2016 – dep. 2017, A, Rv. 268805; Sez. 6, n. 31877 del 16/05/2017, B, Rv. 270629; Sez. 3, n. 47902 del 18/07/2017, Abrate, Rv. 271446); differenti sono anche le finalità della disciplina del locus commissi delicti di cui all’art. 6 cod.pen. e della disciplina della competenza per territorio di cui all’art. 8 cod.proc.pen.: con l’avvertenza, però, che in tali ambiti acquista rilievo anche la condotta in sé considerata; e che anzi il secondo comma dell’art. 8 cod.proc.pen. stabilisce che, se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione.
7. Si ritiene da ultimo opportuno evidenziare, in adesione ai rilievi critici della migliore dottrina, che l’adozione del c.d. criterio dell’evento – quanto meno, lo si ripete, in fattispecie del tipo di quella oggetto del presente giudizio – si pone in contrasto con una serie di principi fondamentali dell’ordinamento.
Ci si riferisce in primo luogo al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), attesa l’ingiustificata disparità di trattamento che ne deriva tra soggetti autori di una medesima condotta nello stesso momento, sol perché l’evento del reato si verifica in tempi diversi per ragioni a loro non riferibili.
In secondo luogo, al principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost., riferito pacificamente non solo alla necessaria conoscibilità del precetto, ma anche alla conoscibilità e prevedibilità della sanzione penale prevista per la relativa violazione (nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali). Sotto tale profilo, non appaia improprio il richiamo ai principi affermati nella ben nota sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, laddove vi si afferma che l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito: un riflesso, questo, della necessaria conoscibilità ex ante delle prescrizioni penali, che non può non estendersi anche alla prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie della violazione del precetto. Si condivide a tal proposito l’opinione dottrinaria secondo la quale, attraverso il percorso tracciato dalla Consulta nella citata sentenza, il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost. si salda con il principio di colpevolezza ex art. 27 co. 1 Cost..
In terzo luogo, al principio di adesione dell’ordinamento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117, comma 1, Cost.), con particolare riguardo ai principi, enunciati dall’art. 7 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo e ribaditi a più riprese dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, di ‘accessibilità’ della norma penale per il destinatario (sia sotto il profilo del precetto, sia sotto il profilo della sanzione) e di ‘prevedibilità’ delle conseguenze della sua condotta in caso di trasgressione di precetti penali.
8. A fronte, peraltro, del sopra delineato contrasto (quanto meno potenziale) di orientamenti giurisprudenziali, si ravvisano le condizioni per devolvere la questione alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618, comma 1, cod.proc.pen., il cui intervento chiarificatore si impone, nel sistema processuale, quale corollario della funzione nomofilattica dì cui la Corte di legittimità è depositaria soprattutto nella sua più autorevole composizione, nel perseguimento della tendenziale uniformità della giurisprudenza.
Nella specie, il dictum del Consesso apicale potrà fornire indicazione, in relazione agli aspetti come sopra evidenziati, circa la soluzione da dare alla seguente questione: ‘se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell’evento’.
P.Q.M.
Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.
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