Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 12 luglio 2018, n. 31998.
La massima estrapolata:
Viola il divieto di reformatio in pejus la decisione del giudice d’appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato avverso una sentenza di condanna pronunciata per più reati unificati dal vincolo della continuazione, pur dichiarando l’estinzione per prescrizione di taluno di essi, non diminuisce l’entità della pena originariamente inflitta, secondo quanto, invece previsto dall’articolo 597, 4, del Cpp.
Sentenza 12 luglio 2018, n. 31998
Data udienza 6 marzo 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente
Dott. ZAZA Carlo – Consigliere
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere
Dott. MOROSINI Elisabetta M. – Consigliere
Dott. BRANCACCIO Matilde – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 26/04/2017 della CORTE APPELLO di TRIESTE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Matilde Brancaccio;
udito il Sostituto Procuratore Generale Giovanni Di Leo che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio che va rideterminato in anni uno e mesi due di reclusione. Rigetto nel resto.
udito il difensore del ricorrente, avv. (OMISSIS), in sostituzione dell’avv. (OMISSIS) che si riporta ai motivi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la pronuncia impugnata, emessa in data 26 aprile 2017, la Corte d’Appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza emessa in data 3 aprile 2015 dal Tribunale di Udine, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) per i reati di cui ai capi d) ed e) dell’imputazione, per essere gli stessi estinti per prescrizione, confermando nel resto l’impugnata sentenza e l’entita’ della pena inflitta in primo grado in anni uno e mesi due di reclusione per il reato di esercizio abusivo della professione medico-dentistica e per quelli di truffa nei confronti dei propri pazienti e falso in atto pubblico, relativamente alla formazione di falsi diplomi di laurea in medicina ed odontoiatria, di attestati di abilitazione all’esercizio della professione di odontoiatra, del tesserino dell’Ordine dei medici ed odontoiatri di Udine.
2. Avverso detto provvedimento propone ricorso personalmente l’imputato, deducendo quattro motivi di ricorso.
2.1. Il primo motivo rappresenta violazione di legge con riferimento all’articolo 348 cod. pen., non essendovi prova che effettivamente l’imputato abbia svolto interventi medico-dentistici su pazienti, in mancanza del titolo professionale, all’interno della struttura sanitaria (OMISSIS) s.r.l.: egli non e’ stato mai regolarmente individuato come autore delle condotte da alcun paziente ne’ sono stati confrontati i presunti interventi effettuati con le fatture emesse dalla clinica.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge in riferimento al reato di truffa aggravato dall’abuso di prestazione d’opera, poiche’ la clinica ove avvenivano gli indebiti trattamenti era di proprieta’ di (OMISSIS) – coimputato che ha definito la propria posizione processuale separatamente – cui si doveva la complessiva gestione della struttura e dei pazienti ed al quale, dunque, unicamente, andava ascritta la condotta truffaldina. Il ricorrente, infatti, non ha posto in essere alcun artificio o raggiro per ingannare i pazienti, non potendosi ritenere tali le rassicurazioni che egli faceva a costoro, anche considerato il fatto che gli attestati di studio ritrovati in casa sua e risultati poi falsi non erano mai stati mostrati ad alcuno.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si evidenzia manifesta illogicita’ della motivazione con riferimento alle contestazioni di falso in atto pubblico. Il reato e’ stato ascritto all’imputato poiche’ trovato in possesso di alcuni documenti non genuini attinenti ai suoi titoli di studio, conservati nella sua abitazione senza che sia stata provata alcuna forma di utilizzo di tali atti ne’ alcuna volonta’ o prospettiva di utilizzarli. La sentenza d’appello erra nel ritenere che tali documenti falsi siano stati mostrati quanto meno alla struttura sanitaria privata ove il ricorrente svolgeva la sua attivita’ abusiva, poiche’ anzi non ve ne era alcun bisogno, essendo a conoscenza i titolari della clinica dell’inesistenza dei titoli professionali in capo al (OMISSIS).
2.4. Infine, con un ultimo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla dosimetria della pena. La sentenza d’appello, pur avendo dichiarato la prescrizione dei reati di cui ai capi d) ed e) dell’imputazione (lesioni colpose), ha lasciato immodificata la misura finale della pena, confermando quella inflitta in primo grado, non rideterminando la sanzione in relazione alla continuazione tra reati invece sensibilmente modificata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ inammissibile quanto ai primi tre motivi, peraltro pedissequamente ripetitivi di quelli d’appello e, dunque, caratterizzati, anzitutto dal vizio di aspecificita’, poiche’ non si confrontano con le argomentazioni del provvedimento impugnato.
1.1. I motivi propongono affermazioni assertive ed apodittiche, senza addurre una reale dialettica con la motivazione dei giudici d’appello, consegnando, in tal modo, inevitabilmente le proprie ragioni al vizio di genericita’ estrinseca e, pertanto, all’inammissibilita’.
Deve, infatti, essere ribadito il principio secondo cui, quanto al ricorso per cassazione, i motivi difensivi sono da considerarsi aspecifici se mancanti di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 6, n. 13449 del 12/2/2014, Kasem, Rv. 259456; Sez. 2, n. 36406 del 27/6/2012, Livrieri, Rv. 253983; da ultimo, con riferimento all’applicabilita’ di tale vizio dell’impugnazione non soltanto al ricorso per cassazione ma anche all’atto di appello, cfr. Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Galtelli, Rv. 268822).
La sentenza di secondo grado prende in esame, peraltro, gia’ tutti i profili di doglianza del ricorso, che ricalca pedissequamente i motivi d’appello, con cio’ pure alimentandosi il giudizio di inammissibilita’ (cfr. tra le altre, Sez. 6, n. 8700 del 21/1/2013, Leonardo, Rv. 254584).
Il ricorso propone, altresi’, deduzioni che implicano una rivalutazione nel merito della sentenza da parte di questa Corte, non consentita in sede di legittimita’ (Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482).
Ed infatti, e’ stato piu’ volte ribadito che il giudice di legittimita’ non puo’ sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio (Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099), restando esclusa la possibilita’ di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilita’ delle fonti di prova (Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716).
1.2. In ogni caso, i primi tre motivi di ricorso sono anche di per se’ manifestamente infondati.
E difatti, quanto alla doglianza riferita alla insussistenza del reato di esercizio abusivo e truffa a carico del ricorrente, le deduzioni difensive non tengono conto, nel riproporre ragioni tutte di fatto volte a rivedere l’accertamento cui e’ pervenuta la Corte di merito, che la motivazione del giudice di secondo grado appare adeguata e scandita da passaggi logici puntuali, oltre che privi di qualsiasi seria criticita’ argomentativa, saldandosi, peraltro, con quella di primo grado, in un unicum argomentativo coerente e convincente.
Anzitutto, quanto al primo motivo, dalle prove raccolte ed esaminate nei due gradi di giudizio (testimonianze di pazienti ed anche riconoscimenti e descrizioni somatiche del ricorrente da parte di costoro), e’ emerso chiaramente, ed i provvedimenti di condanna ne hanno dato coerentemente atto in motivazione, che l’imputato, in difetto di abilitazione all’esercizio della professione medico-dentistica, l’aveva invece esercitata per un consistente arco temporale, compiendo attivita’ tecniche complesse quali devitalizzazioni, ricostruzioni, estrazioni ed impianti dentari, prescrivendo farmaci a numerosi pazienti; risulta accertato, inoltre, che fosse effettivamente lui il medico che, all’interno della struttura sanitaria di riferimento, rispondeva al nome di (OMISSIS). Con riferimento al secondo motivo di ricorso, deve sottolinearsi come, secondo la costante giurisprudenza di legittimita’, la responsabilita’ di chi dirige lo studio medico non certo esclude quella dell’esercente abusivo della professione sanitaria, bensi’ si cumula ad essa, ove il primo sia a conoscenza della mancanza del titolo del suo operatore (nel senso che risponde di concorso nel reato di cui all’articolo 348 cod. pen. ed eventualmente anche di quello di lesioni colpose, prevedibilmente collegate all’attivita’ abusiva, Sez. 6, n. 21220 del 24/4/2013, Cutroneo, Rv. 255626; Sez. 6, n. 22534 del 12/5/2015, Curnis, Rv. 263628).
Infine, il motivo riferito all’insussistenza del reato di falso in atto pubblico e’ egualmente versato in fatto, oltre ad essere basato su argomentazioni assertive e prive di riscontro reale: appare, infatti, molto poco sostenibile che la mole di attestazioni false attinenti a titoli di studio, ritrovate in possesso del ricorrente, e la presenza anche di un falso tesserino dell’ordine dei medici di Udine, siano stati nella sua disponibilita’ per non farne alcun uso o senza che alcun uso ne sia stato fatto.
A fronte di cio’, le ulteriori risultanze probatorie (ed in particolare le testimonianze) provano, invece, che l’imputato si e’ servito delle sue false credenziali professionali scientemente e reiteratamente.
L’uso che si faccia dell’atto falso e’, peraltro, irrilevante per la giurisprudenza di legittimita’ (fatta salva l’ipotesi della falsita’ in scrittura privata), poiche’ il reato si consuma con la semplice formazione del documento falso (Sez. 5, n. 47029 del 22/9/2011, Auriemma, Rv. 251447), mentre l’innocuita’ del falso deve essere valutata non con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto, ma avendo riguardo all’idoneita’ dello stesso ad ingannare comunque la fede pubblica (Sez. 5, n. 47601 del 26/5/2014, Lamberti, Rv. 261812).
D’altra parte, i diplomi scolastici o di laurea hanno il carattere di atto pubblico originario (Sez. 5, n. 6321 del 17/4/1973, Sammartino, Rv. 125026; Sez. 5, n. 656 del 21/4/1967, Abrami, Rv. 104696).
2. Il quarto motivo e’, invece, fondato, con riferimento alla dosimetria della pena ed alla disciplina del reato continuato.
Nel caso di specie, il giudice d’appello ha dichiarato la prescrizione di alcuni dei reati satellite oggetto della continuazione (specificamente quelli di cui ai capi d ed e dell’imputazione, attinenti alle lesioni colpose provocate dal ricorrente ai pazienti (OMISSIS) e (OMISSIS)), ma non ha ritenuto di diminuire la misura della pena complessivamente inflitta (negando anche la concessione dei benefici di legge richiesti: sospensione condizionale della pena, sanzione sostitutiva); cio’ alla luce dei precedenti penali specifici e reiterati del ricorrente e della sua personalita’.
Tale decisione non e’ corretta e viola il divieto di reformatio in peius, sicche’ deve essere annullata senza rinvio, provvedendo questa Corte direttamente alla rideterminazione della pena.
Sul tema dei mutamenti attinenti al reato continuato e delle conseguenti modifiche del trattamento sanzionatorio unificato che lo caratterizza la giurisprudenza di legittimita’ si e’ espressa piu’ volte, anche con numerosi interventi delle Sezioni Unite, tracciando un percorso complesso e affatto privo di incoerenze.
Nella ampia motivazione ricostruttiva di una delle ultime sentenze che si sono occupate delle vicende del reato continuato, Sez. U, n. 22471 del 22/2/2015, Sebbar, Rv. 263717 ha affermato che la “visione multifocale” che caratterizza la disciplina normativa prevista dall’articolo 81 cod. pen. e la rende ora unitaria, ora pluralistica, da’ ragione della necessita’ della individuazione delle singole pene per i reati-satellite ed e’ essenziale ai fini della “misura” degli aumenti da apportare alla pena-base.
La perdita della autonomia sanzionatoria dei reati-satellite nell’ambito del reato continuato non comporta, infatti, la irrilevanza della valutazione della gravita’ dei predetti reati, in se’ considerati, per l’ottima ragione che il momento sanzionatorio segue quello valutativo e dunque lo presuppone e – ovviamente – si distingue da esso. Il giudice, dunque, considerata la unitarieta’ del disegno criminoso, procedera’ ai singoli incrementi sanzionatori, “determinando”, cosi’, la pena, in osservanza delle norme sulla continuazione, ed ogni reato-satellite “contribuira’” alla determinazione della “pena finale” in base al concreto valore ponderale che il giudicante intendera’ – in concreto attribuirgli (tenuto conto della indicazione che – in astratto – gli ha fornito il legislatore con la apposizione dei termini edittali).
Se tali sono le strutture logico-giuridiche della disciplina del reato continuato, ben individuate dalle Sezioni Unite, si comprende perche’ sia stato affermato che, nel giudizio di appello, il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall’imputato non riguarda solo l’entita’ complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, per cui il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante e per l’effetto irroga una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza (articolo 597 c.p.p., comma 4), non puo’ fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Sez. U, n. 40910 del 27/9/2005, William Morales, Rv. 232066).
Il nucleo di principio di tale arresto e’ stato sostanzialmente confermato, con riferimento ad analoghe o parzialmente differenti fattispecie, dalla giurisprudenza successiva maggioritaria della Cassazione (cfr. tra le tante, da ultimo, Sez. 6, n. 23356 del 4/3/2014, Di Lauro, Rv. 259953; Sez. 3, n. 3903 del 13/5/2014, dep. 2015, Tufano, Rv. 263193; Sez. 3, n. 17113 del 17/10/2014, dep. 2015, C., Rv. 263387; Sez. 4, n. 18086 del 24/3/2015, Carota, Rv. 263449; Sez. 2, n. 48259 del 23/9/2016, Pappalepore, Rv. 268636; Sez. 2, n. 41933 del 3/4/2017, Brajdic, Rv. 271182; Sez. 5, n. 50083 del 29/9/2017, D’Ascanio, Rv. 271626).
Alcune specificazioni importanti sono state aggiunte a tali affermazioni, ancora dalle Sezioni Unite, nel corso degli anni.
Sez. U n. 33752 del 18/4/2013, Papola, Rv. 255660 ha chiarito che il giudice di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante o riconosciuto un’ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall’imputato, puo’, senza incorrere nel divieto di “reformatio in peius”, confermare la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purche’ questo sia accompagnato da adeguata motivazione, poiche’ il vincolo di operare la diminuzione di pena, previsto dall’articolo 597 c.p.p., comma 4, in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti anche se uniti dal vincolo della continuazione, si riferisce ad ipotesi interessate da un metodo di calcolo comportante mere operazioni di aggiunta od eliminazione di entita’ autonome di pena rispetto alla pena-base, senza accenno alcuno ad ipotesi implicanti un giudizio di comparazione.
Secondo la pronuncia Papola, nessun richiamo o riferimento al divieto di reformatio in peius e’ rinvenibile nella disposizione di cui al comma 5 dell’articolo citato, che disciplina ipotesi derogatorie alla regola dell’effetto parzialmente devolutivo posta dal comma primo dello stesso articolo, tra l’altro attribuendo al giudice di appello, “quando occorre”, il potere di effettuare il giudizio di comparazione a norma dell’articolo 69 c.p..
Il tenore letterale delle disposizioni dell’articolo 597 cod. proc. pen., commi 4 e 5 (entrambe di stretta interpretazione) porta a ritenere che non possa estendersi il regime previsto dall’articolo 597 cod. proc. pen., comma 4 ad ipotesi diverse da quelle in tale comma contemplate, ne’, pertanto, che possa leggersi il comma 5 nel solco del divieto posto dal comma 4.
Sulla stessa scia logica, le Sezioni Unite hanno affermato che, quando muti la struttura stessa del reato continuato, come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella piu’ grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima, non viola il divieto di “reformatio in peius” previsto dall’articolo 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che apporta per uno dei fatti unificati dall’identita’ del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/3/2014, C., Rv. 258653).
Cio’ perche’ – affermano le Sezioni Unite – se muta uno dei termini (vale a dire, una o piu’ delle regiudicande cumulate o il relativo “bagaglio” circostanziale) oppure l’ordine di quella sequenza (la regiudicanda-satellite diviene la piu’ grave o muta la qualificazione giuridica di quella piu’ grave), sara’ lo stesso meccanismo di unificazione a subire una “novazione” di carattere strutturale, non permettendo piu’ di sovrapporre la nuova dimensione strutturale a quella oggetto del precedente giudizio, giacche’, ove cosi’ fosse, si introdurrebbe una regola di invarianza priva di qualsiasi logica giustificazione. In tali casi, pertanto, l’unico elemento di confronto non puo’ che essere rappresentato dalla pena finale, dal momento che e’ solo questa che “non deve essere superata” dal giudice del gravame: esattamente come non potrebbe comunque essere superata una pena determinata dal primo giudice in mitius anche se contra legem.
Ed invece, in una ipotesi come quella in esame, nel caso in cui viene eliminata una porzione di continuazione per effetto della dichiarazione di prescrizione di taluni dei reati unificati dal vincolo di cui all’articolo 81 cpv. cod. pen., occorre tener presente quanto previsto dall’articolo 597 c.p.p., comma 4, secondo cui: “In ogni caso, se e’ accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata e’ corrispondentemente diminuita”.
Tale precetto normativo e’ stato interpretato tradizionalmente nel senso che il giudice dell’impugnazione ha “in ogni caso” il dovere di diminuire la pena complessivamente irrogata in misura corrispondente all’accoglimento dell’impugnazione (cosi’, in particolare, Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995, P., Rv. 201034).
Anche le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 16208 del 2014 hanno lasciato intendere che, se modifiche in peius al computo della pena del reato continuato nei suoi elementi costitutivi possono esserci qualora muti la struttura stessa della continuazione, il limite dell’articolo 597 c.p.p., comma 4, tuttavia, in caso di impugnazione del solo imputato, rimane invalicabile poiche’ e’ posto dal legislatore come “termine di riferimento” e “vincolo” per il secondo giudice, se e’ accolto l’appello dell’imputato in relazione a circostanze aggravanti o a reati concorrenti, anche in continuazione.
Specificamente, si e’ affermato, con principio che il Collegio condivide e ribadisce, che viola il divieto di “reformatio in pejus” la decisione del giudice d’appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato avverso una sentenza di condanna pronunciata per piu’ reati unificati dal vincolo della continuazione, pur dichiarando l’estinzione per prescrizione di taluni di essi, non diminuisce l’entita’ della pena originariamente inflitta. Con il necessario corollario che il risultato di mancata diminuzione della pena originaria non puo’ essere conseguenza dell’aumento di un diverso, perdurante elemento della continuazione, che “si sostituisca”, con aggravata valenza sanzionatoria, a quello eliminato (Sez. 3, n. 38084 del 23/6/2009, Riggio, Rv. 244961; Sez. 4, n. 47341 del 28/10/2005, Salah, Rv. 233177; Sez. 3, n. 20403 del 28/4/2005, Caliandro, Rv. 231837).
Allo stesso modo si e’ affermato l’obbligo di diminuire la pena finale in caso di assoluzione per alcuni dei reati posti in continuazione (in tal senso, Sez. 2, n. 28042 del 5/4/2012, Vannucci, Rv. 253245, con cui si e’ ribadito che il divieto di “reformatio in peius” deve avere riguardo non solo al trattamento sanzionatorio finale cumulativamente considerato, ma anche alla pena inflitta per ogni singolo reato).
Cio’ sul presupposto – sicuramente esistente anche nella decisione di merito oggi sottoposta al vaglio di questa Corte – che, nella valutazione logica del giudice di merito, pur operata con ragionamento non esplicito, la pena eliminata a titolo di aumento per la continuazione sia stata “compensata” da una maggior pena per i reati residui, per ottenere il risultato di una sanzione finale immutata, nonostante l’eliminazione della condanna per due delle imputazioni (conseguente alla dichiarazione di prescrizione).
Il giudizio di “adeguatezza” della pena inflitta all’imputato in primo grado, infatti, operato anche nel caso di specie, non puo’ trovare altra spiegazione di computo (le valutazioni sono state agganciate ai precedenti penali ed alla personalita’ dell’imputato). Tuttavia, a ragionare in questi termini, il giudice di appello, nel determinare il trattamento sanzionatorio per i singoli reati superstiti, ha senza dubbio, di fatto, operato una reformatio in peius della sentenza di primo grado, non consentita in difetto di appello da parte del pubblico ministero (recentemente, si e’ ribadito, con riferimento alla non distante ipotesi dell’esclusione di una circostanza aggravante relativa al reato piu’ grave, che sussiste violazione del divieto di reformatio in peius nel caso in cui la pena base sia determinata in misura identica a quella determinata in primo grado: Sez. 6, n. 5220 del 12/1/2018, Ballabene, Rv. 262186).
In sintesi, deve affermarsi il principio secondo cui “viola il divieto di “reformatio in pejus” la decisione del giudice d’appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato avverso una sentenza di condanna pronunciata per piu’ reati unificati dal vincolo della continuazione, pur dichiarando l’estinzione per prescrizione di taluno di essi, non diminuisce l’entita’ della pena originariamente inflitta, secondo quanto, invece, previsto dall’articolo 597 c.p.p., comma 4″.
Tale principio, beninteso, puo’ conoscere eccezioni nel caso, del tutto peculiare, in cui la pena sia stata determinata illegalmente in misura inferiore al minimo edittale e si sia in fase di giudizio di rinvio per la rideterminazione in seguito a prescrizione di taluno dei reati in continuazione: in tale ipotesi, non viola il divieto di reformatio in peius la mancata riduzione della pena complessivamente inflitta (cfr. Sez. 5, n. 51615 del 17/10/2017, Pala, Rv. 271604).
2.1. Alla luce di quanto affermato, deve procedersi all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla pena di mesi quattro di reclusione, individuata come porzione di aumento in continuazione dal giudice di primo grado in relazione ai reati di cui all’articolo 590 cod. pen. contestati ai capi D e E dell’imputazione (due mesi di reclusione per ciascun capo), dichiarati prescritti in appello, con la conseguente eliminazione della relativa pena direttamente da parte di questa Corte, non implicando tale decisione alcuna valutazione di merito.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena di mesi 4 di reclusione concernente i reati di cui all’articolo 590 c.p. (capi D, E), pena che elimina.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
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