Buona fede contrattuale: tutela interessi reciproci

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|10 gennaio 2025| n. 656.

Buona fede contrattuale e la  tutela interessi reciproci

Massima: La clausola generale di buona fede nell’esecuzione del contratto impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali e da quanto espressamente stabilito da singole norme di legge; in virtù di tale principio ciascuna parte è tenuta da un lato ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche l’inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse. Ad un tale riguardo il semplice ritardo di una parte nell’esercizio di un diritto può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun interesse del suo titolare, correlato ai limiti ed alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la controparte (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha censurato la sentenza gravata in quanto, nella circostanza, la corte del merito, nel ritenere legittimo il recesso esercitato dal promissario acquirente da un contratto di vendita immobiliare, aveva omesso di valutare, secondo i canoni della buona fede, la condotta silente assunta da quest’ultimo e protrattasi per un tempo inusitatamente lungo, anche avuto riguardo ai consistenti acconti sul prezzo pagati, i quali avrebbero dovuto invece spingerlo ad una sollecita presa di posizione).

 

Ordinanza|10 gennaio 2025| n. 656. Buona fede contrattuale e la  tutela interessi reciproci

Integrale

Tag/parola chiave: Contratto – Efficacia del contratto – Esecuzione di buona fede – Clausola generale di buona fede nell’esecuzione – Contenuto – Ritardo nell’esercizio del diritto – Violazione della buona fede – Esclusione – Limiti – Fattispecie relativa a contratto preliminare di vendita immobiliare

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 22491/2020 R.G. proposto da:

CO.SG. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in R, (OMISSIS), presso lo Studio Gi.Or., rappresentata e difesa dall’avvocato AL.NA. e dall’avvocato DA.VE. giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

Sc.Ca., elettivamente domiciliato in R, (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato AN.MA., che lo rappresenta e difende con l’avvocato CL.ZA. giusta procura in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 970/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 23/04/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/11/2024 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;

Buona fede contrattuale e la  tutela interessi reciproci

Osserva

1. Sc.Ca., premettendo di avere promesso di acquistare, con contratto del 6/9/2011, da Hi.SG. Spa (ora CO.SG. Spa) un complesso immobiliare in corso di costruzione per il prezzo di Euro 1.478.200,00; di avere versato Euro 278.520,00 a titolo di caparra confirmatoria, nonché tre acconti, ognuno dell’importo di Euro 145.314,26; che l’art. 5 del contratto disponeva che la promittente alienante avrebbe dovuto “ultimare la costruzione dell’edificio” entro il 30/6/2013, salvo la possibilità di avvalersi di un diverso termine, nel rispetto delle modalità stabilite dallo strumento negoziale; che l’esponente aveva receduto dal contratto in data 31/7/2014, poiché, trascorsi dodici mesi dalla pattuita consegna, non era stato ancora possibile addivenire alla stipula del contratto definitivo, chiese e ottenne ingiunzione di pagamento ai danni della promittente alienante per il complessivo importo di Euro 992.982,78, oltre accessori.

Il Tribunale di Milano rigettò l’opposizione e le domande riconvenzionali proposte dall’ingiunta.

2. La Corte d’Appello di Milano disattese l’impugnazione di Co.S. Spa (già Hi.SG. Spa), la quale aveva negato di essere inadempiente e aveva chiesto, per contro, condannarsi la controparte al risarcimento del danno e pronunciarsi sentenza ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., previa condanna del promissario acquirente al pagamento del residuo prezzo.

2.1. Questi in sintesi gli argomenti salienti della decisione di secondo grado.

Al fine di ricostruire la vicenda negoziale e gli accadimenti rilevanti la Corte locale riporta ampio stralcio della sentenza di primo grado, dalla quale era dato trarre che in base al contratto (art. 5) l’edificio avrebbe dovuto essere ultimato entro il 20/6/2013, la promittente alienante avrebbe potuto prorogare, “entro e non oltre il 31.12.2012”, il termine per la consegna delle unità immobiliari con un “nuovo termine”, mediante una comunicazione scritta inviata al promissario acquirente; ove la proroga avesse superato dodici mesi il promissario acquirente avrebbe avuto la facoltà di recedere dal contratto a mezzo di comunicazione scritta da far pervenire alla promittente alienante entro trenta giorni dalla comunicazione del nuovo termine, con diritto alla restituzione di quanto versato; in difetto, il nuovo termine doveva intendersi accettato e a esso si applicava un periodo di tolleranza di trenta giorni.

L’accordo, inoltre, contemplava l’ipotesi di un termine suppletivo, ove il ritardo non fosse stato imputabile alla promittente alienante.

Le unità immobiliari promesse in vendita andavano consegnate e il contratto definitivo stipulato, ad avvenuto completamento di esse, anche anteriormente all’ultimazione dell’intero fabbricato, previa comunicazione scritta della promittente alienante, con la previsione di sessanta giorni per la verifica in contraddittorio dello stato di fatto.

Quindi, secondo la ricostruzione giudiziaria, la clausola distingueva il termine per l’ultimazione dell’edificio da quello delle unità promesse in vendita.

Indi, prosegue la narrazione, il termine del 30/6/2013 per l’ultimazione dell’edificio non era stato osservato.

La promittente alienante aveva sostenuto di avere comunicato allo Sc.Ca., con lettera raccomandata del dell’11/12/2012, il nuovo termine del 30/6/2014 per l’ultimazione dell’edificio e quello stimato di fine 2013 per il completamento delle unità promesse in vendita.

Per contro, il promissario acquirente aveva negato di avere ricevuto la comunicazione e chiesto chiarimenti a mezzo e-mail, il giorno 11/7/2013, a riguardo della consegna delle unità immobiliari, essendo decorso il termine contrattuale del 30/6/2013.

Con nota del 12.12.2013 la Coima aveva sostenuto che lo Sc.Ca. aveva tacitamente accettato il nuovo termine del 30/6/2014.

Seguiva, il 30/7/2014, comunicazione del recesso del promissario acquirente, con richiesta di restituzione degli importi versati e del doppio della caparra, per un complessivo ammontare di Euro 992.982,78.

Secondo la ricostruzione del Tribunale, fatta propria dalla Corte d’Appello, il nuovo termine (30/6/2014) per la consegna delle unità immobiliari era privo d’efficacia poiché non comunicato tempestivamente, poiché la promittente, che non aveva prodotto l’avviso di ricezione, non aveva dimostrato, come era suo onere, che la missiva fosse stata effettivamente ricevuta dal destinatario.

Non era applicabile la presunzione di cui all’art. 1335 cod. civ. perché mancava la prova che la comunicazione fosse giunta al domicilio del destinatario.

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Per altro verso, non era stato neppure allegato che l’impossibilità di rispettare il termine del 30/6/2013 (30/7/2013, con la prevista tolleranza) fosse dipesa da circostanze non addebitabili alla promittente alienante.

In particolare, esaminato il secondo motivo d’appello, valutato assorbente, la Corte di Milano, a prescindere dal contenuto della lettera dell’11/12/2012 (se con questa, cioè, fosse stato differito solo il termine per la consegna delle unità immobiliari, ma non quello per il completamento dell’edificio), afferma testualmente: “Ora, se è vero che la giurisprudenza… è solita far proprio il principio per cui la comunicazione spedita con raccomandata senza ricevuta di ritorno si presume giunta a destino salva contestazione del preteso destinatario, nel qual caso spetta al mittente provare l’arrivo del plico al domicilio della controparte, anche con presunzioni (purché rispettose dei criteri di cui all’art. 2729 c.c.) è altrettanto vero che, se del caso anche in funzione del controllo del ragionamento presuntivo, non si può trascurare di verificare se le disposizioni contrattuali divisate inter partes presentino una qualche interferenza, voluta od oggettiva, col meccanismo di consolidamento degli effetti della dichiarazione recettizia. Qui infatti si sta parlando non del procedimento di conclusione di un contratto e dell’incontro tra le manifestazioni di volontà prenegoziale…, ma della modifica o dell’integrazione di un contratto già concluso ed efficace, che ben può essersi occupato delle modalità e delle condizioni da adottare per disciplinare detta immutazione, rilevanti ai fini di che trattasi, siccome incidenti sul livello di consapevolezza della ricezione dell’atto da parte del destinatario. Stando così le cose, il Tribunale fece buon governo dell’insieme di tali principi, quando valorizzò -tra l’altro- la specifica disposizione della clausola 5.2. ove i contraenti, nel prevedere la facoltà della promittente venditrice di posticipare il termine di ultimazione e consegna, avevano stabilito i tempi ed i modi di comunicazione del Nuovo Termine -ossia “entro e non oltre” la data del 31.12.2012 e “per iscritto”, prescrizioni oltretutto finalizzate alla fissazione della movenza iniziale dei 30 giorni (dalla comunicazione di un “Nuovo Termine” differito dal precedente di più di 12 mesi) entro i quali l’acquirente poteva recedere, e che restringono non poco gli spazi applicativi della presunzione di arrivo entro una data certa di un atto scritto”.

Lo stampato di Poste Italiane, attestante la spedizione e l’indicazione presuntiva della consegna, prodotto dall’appellante, corroborava l’assunto dell’appellato, invece che smentirlo: “Se infatti la visura avverte che è solo “indicativa” la data in cui potrebbe essere avvenuta la consegna, nulla si prova, mentre se il documento prosegue nel datare tale incerta evenienza fino al 10 gennaio 2013, si fornisce in più (o in alternativa) l’ammissione della sua tardività, come pure puntualizzato dal Tribunale, per avere la promittente venditrice inteso modificare il termine di consegna oltre la data del 31.12.2012, prevista dall’art. 5 del contratto. Con la conseguenza che il “nuovo termine” del 30.6.2014 di ultimazione e consegna delle unità immobiliari promesse in vendita non è efficace e vincolante per le parti, non essendo stato comunicato (o comunque non essendo stato comunicato tempestivamente) ai sensi dell’art. 5 del contratto preliminare”.

Co.SG. Spa ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di tre motivi. L’intimato resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

3. Con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1335 e 2729 cod. civ.

Secondo la ricorrente la Corte milanese aveva fatta corretta ricognizione degli artt. 1335 e 2729 cod. civ., facendone, tuttavia, erronea applicazione.

La presunzione di cui all’art. 1335 cod. civ. presuppone che il plico sia giunto al domicilio del destinatario. Al contrario della conclusione cui giunge la sentenza impugnata, le emergenze di causa consentivano di raccogliere plurimi elementi sulla base dei quali potersi affermare che la raccomandata era giunta al domicilio dello Sc.Ca., ciò a prescindere dall’individuazione del giorno.

Sulla base del consolidato indirizzo di legittimità, la trasmissione per raccomandata postale assicura la prova presuntiva della ricezione, spettando al destinatario l’onere di dimostrare “di essere stato incolpevolmente ignaro dell’atto”.

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3.1. Il motivo è fondato.

È principio consolidato quello secondo il quale la spedizione di una comunicazione in plico raccomandato non vale da sola a stabilire che il destinatario sia venuto a conoscenza della dichiarazione in esso contenuta, occorrendo, invece, provare che detto plico sia pervenuto a destinazione, per poter fondare una presunzione di conoscenza nei confronti del destinatario; il principio di presunzione di conoscenza posto dall’art. 1335 cod. civ., infatti,

opera per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione, ma non quando sia contestato che essa sia mai pervenuta a quell’indirizzo e il dichiarante non fornisca elementi di prova idonei a sostenere tale assunto 8Sez. 1, n. 20924, 27/10/2005, Rv. 584770; conf. Cass. nn. 9303/2012, 24703/2017).

Tuttavia, La produzione in giudizio di un telegramma, o di una lettera raccomandata, anche in mancanza dell’avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione, attestata dall’ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione dell’arrivo dell’atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi dell’art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della suddetta spedizione e sull’ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico Sez. L. n. 24015, 12/10/2017, Rv. 646099; conf. Cass. nn. 511/2019, 17204/2016, 17417/2007, 8073/2002, 758/2006, 23920/2013).

La sentenza, attraverso motivazione di non agevole comprensibilità, esclude l’applicazione del riportato principio, valorizzando (parrebbe) una pretesa evidenza priva, in realtà, di efficacia discriminatoria: qui, secondo la Corte di merito, non si sarebbe trattato di verificare l’incontro di volontà per la conclusione del contratto, bensì “della modifica o dell’integrazione di un contratto già concluso ed efficace, che ben può essersi occupato delle modalità e delle condizioni da adottare per disciplinare detta immutazione, rilevanti ai fini di che trattasi, siccome incidenti sul livello di consapevolezza della ricezione dell’atto da parte del destinatario”.

Per contro, il discrimine, piuttosto che costituire conclusione della compiuta ricognizione della volontà delle parti, viene posto quale postulata premessa apriori.

4. Con il secondo motivo viene denunciata violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ.

La ricorrente deduce che la Corte di merito aveva reputato che la clausola negoziale imponesse all’esponente di comunicare entro e non oltre il 31/12/2012 la proroga, nel senso che entro detta data fosse necessario che la comunicazione fosse giunta a destino e non solo che fosse inviata, omettendo di prendere in considerazione la volontà delle parti, siccome poteva ricavarsi dall’insieme dell’intero contratto.

Emergeva dallo strumento che, laddove le parti avevano inteso fissare il “dies ad quo” del termine dal momento della consegna della comunicazione, una tale scelta era stata espressa inequivocamente (vengono riportate due clausole tratte sempre dall’art. 5).

Le clausole non erano state interpretate le une per mezzo delle altre (art. 1363 cod. civ.). Il termine, invero, decorreva, nel caso in cui la consegna avrebbe dovuto effettuarsi alla società, da essa consegna (adempimento agevole, trattandosi di soggetto avente nota e ufficiale sede). Lo stesso onere non avrebbe potuto essere imposto alla ricorrente per la comunicazione a persona fisica (promissario acquirente), col rischio, quindi di non potere esercitare il proprio diritto.

4.1. Il motivo è fondato.

La Corte d’Appello, condividendo il ragionamento del Tribunale, ritiene che la disposizione di cui alla clausola 5.2. del contratto imponga alla promittente alienante, ove intenda avvalersi della prevista proroga per ultimazione e consegna, di far pervenire la comunicazione scritta all’altra parte entro e non oltre il 31/12/2012.

Interpretazione, questa, che, pur in sé plausibile, non si misura con il complesso delle disposizioni negoziali e, in particolare con la scelta delle parti di avere previsto nello stesso strumento, per l’opposta ipotesi (consegna alla promittente alienante), con statuizione espressa e inequivoca, la decorrenza degli effetti solo dal momento in cui la comunicazione scritta venga materialmente consegnata all’altra parte.

Scelta, questa, adottata per la prevista facoltà del promissario acquirente di recedere dal contratto, nel caso in cui il nuovo termine fissato dalla promittente alienante fosse successivo di oltre dodici mesi rispetto a quello iniziale.

In questo caso, invero, il contrato impone testualmente: “… mediante comunicazione scritta da consegnare alla Promittente Venditrice entro e non oltre 30 (trenta) giorni dalla comunicazione del Nuovo Termine”. Analogamente, nel caso in cui non fosse stato possibile stipulare il contratto definitivo.

Fermo restando che costituisce ambito motivazionale riservato al giudice del merito spiegare la evidenziata distonia, essa, tuttavia, non può essere ignorata in spregio al canone ermeneutico imposto dall’art. 1363 cod. civ.

5. Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.

Il motivo censura la sentenza per avere sostenuto che, anche ad ammettere l’avvenuta tempestiva consegna della comunicazione di proroga, non avrebbe assunto significato la successiva condotta tenuta dallo Sc.Ca.

In particolare, viene evidenziato il suo silenzio, protratto per svariati mesi e la sua espressa dichiarazione, in risposta alla e-mail della esponente, di non intendere accettare il nuovo termine, pur ove la comunicazione gli fosse giunta.

Una tale condotta contrastava con il dovere di agire secondo buona fede; specie il silenzio protratto per un tempo non ragionevole: a fronte della condotta diligente della ricorrente, l’intimato sino al luglio del 2013 era rimasto silente, così ingenerando la convinzione che la proroga non avrebbe più potuto essere contestata e permanendo, inoltre, in ulteriore silenzio fino al 19/11/2013, quando per la prima volta ebbe ad eccepire di non avere ricevuto la comunicazione.

Buona fede contrattuale e la  tutela interessi reciproci

5.1. Il motivo è fondato.

La sentenza (pag. 11, secondo periodo), partendo dal presupposto che non fosse stata dimostrata la rituale comunicazione del nuovo termine di consegna dell’immobile, afferma che “il termine vincolante per le parti restò quello contrattualmente previsto del 30.6.2013, pacificamente decorso per svariati mesi (anche considerando i 30 giorni di tolleranza) senza l’ultimazione dell’edificio e la consegna delle unità promesse in vendita. Ciò vuol dire altresì che il recesso del promissario acquirente, esercitato con la lettera del 30 luglio 2014, è giustificato dall’inadempimento grave della promittente venditrice e comporta la restituzione a suo favore degli importi reclamati in via monitoria, oltreché la conferma del rigetto della riconvenzionale, in quanto fondata sull’insussistente presupposto dell’inadempienza dell’odierno appellato”.

La Corte di Milano, quindi, presupponendo la non rituale e tempestiva comunicazione della proroga di cui avrebbe inteso avvalersi la COIMA SGR, ritiene legittimo il recesso del promissario acquirente manifestato con la lettera del 30/7/2014.

A prescindere dalle valutazioni riservate alla sede di rinvio, dipendenti dall’accoglimento dei primi due motivi, di per sé la statuizione non si misura con gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., non avendo il Giudice proceduto a considerare secondo i canoni della buona fede la condotta silente del promissario acquirente protratta per un tempo inusitatamente lungo, anche avuto riguardo ai consistenti acconti sul prezzo pagati, che avrebbero dovuto spingerlo a una sollecita presa di posizione.

Sul punto, quindi, la decisione ha omesso di confrontarsi con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, alla quale va data continuità.

Si è chiarito che i princìpi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 cod. civ., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009, Rv. 610222 – 01; conf., ex multis, Cass. nn. 20106/2009).

Con un angolo d’incidenza peculiare, si è ulteriormente chiarito che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è un’espressione, svolge una funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore (nella specie, la banca), quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese, avendo ciascuna delle parti contrattuali il dovere di tutelare l’utilità e gli interessi dell’altra, nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori (Sez. 1, n. 17642, 15/10/2012, Rv. 624747).

Ed ancora, la clausola generale di buona fede nell’esecuzione del contratto impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali e da quanto espressamente stabilito da singole norme di legge; in virtù di tale principio ciascuna parte è tenuta da un lato ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche l’inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse. Ad un tale riguardo il semplice ritardo di una parte nell’esercizio di un diritto (nel caso di specie, diritto di agire per far valere l’inadempimento della controparte) può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun interesse del suo titolare, correlato ai limiti e alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la controparte (Sez. 3, n. 5240, 15/3/2004, Rv. 571152; conf., ex multis, Cass. nn. 2855/2005, 264/2006, 10182/2009).

6. In conclusione, accolto il ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio.

Il Giudice del rinvio riesaminerà la vicenda facendo applicazione dei principi sopra richiamati e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano, altra composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso nella camera di consiglio del 13 novembre 2024

Depositato In Cancelleria il 10 gennaio 2025.

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