Consiglio di Stato, Sentenza|31 marzo 2021| n. 2712.
Al fine di sollecitare il potere di verifica e controllo dell’Amministrazione, è irrilevante il periodo temporale trascorso tra la presentazione della d.i.a. o della s.c.i.a. e l’iniziativa assunta dai terzi che si reputano lesi. L’art. 19, commi 3 e 6-bis, l. n. 241/1990 circoscrive il potere di verificare la carenza dei requisiti e dei presupposti per l’applicazione del regime della s.c.i.a. entro un termine precipuo e perentorio; di conseguenza, la sollecitazione di cui al comma 6-ter può considerarsi idonea a fondare il riconoscimento dell’obbligo di provvedere con un dispiegamento senza limiti dei poteri repressivi solo quando interviene prima della scadenza di tale termine. Quando, invece, la sollecitazione, che deve essere comunque assistita da elementi minimali di identificazione e qualificazione dell’attività della quale si chiede la verifica, è proposta oltre il suddetto termine, essa non può valere ad attribuire un potere che, con quei contenuti ed effetti, si è ormai consumato, ma comporta l’obbligo di procedere e emanare un provvedimento espresso, con contenuto condizionato dall’accertamento e valutazione della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies.
Sentenza|31 marzo 2021| n. 2712
Data udienza 25 marzo 2021
Integrale
Tag – parola chiave: Intervento edilizio – Verifica della d.i.a. – Legittimità delle altezze assentite – Connessione soggettiva e oggettiva – Riunione degli appelli – Art. 96, comma 1, c.p.a. – Art. 2 bis, testo unico edilizia – principi fondamentali della vincolatività – interventi di demolizione e ricostruzione – deroga alla disciplina dei parametri in tema di altezze e distanze – potere di verifica e controllo dell’Amministrazione – iniziativa assunta dai terzi lesi – Termine – art. 19, commi 3 e 6-bis, l. n. 241/1990
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 485 del 2018, proposto da
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pi. Ze., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Da. Va. in Roma, via (…);
contro
Ve. Pa., rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Co., Al. La., Ma. Za., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ma. Za. in Roma, viale (…);
nei confronti
An. S.r.l., rappresentato e difeso dagli avvocati St. Ga., En. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio St. Ga. in Roma, via (…);
Ce. S.r.l., rappresentato e difeso dagli avvocati Re. Cu., Em. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Re. Cu. in Roma, via (…);
sul ricorso numero di registro generale 395 del 2018, proposto da
An. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati St. Ga., En. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio St. Ga. in Roma, via (…);
contro
Ve. Pa., rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Co., Al. La., Ma. Za., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ma. Za. in Roma, viale (…);
En. Se. S.p.A. – Inserito per Errore, rappresentato e difeso dagli avvocati Lo. Gr. Tr., Ma. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ma. Sa. in Roma, viale (…);
nei confronti
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pi. Ze., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Da. Va. in Roma, via (…);
Ce. S.r.l., rappresentato e difeso dagli avvocati Re. Cu., Em. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Re. Cu. in Roma, via (…);
per la riforma
quanto al ricorso n. 395 del 2018:
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale Per Il Veneto (sezione Seconda) n. 00944/2017, resa tra le parti, concernente quanto al ricorso n. 44 del 2016:
del provvedimento a firma del Responsabile dei Servizi Urbanistica – Ambiente – Edilizia Privata, prot. n. 42654 del 22.10.15, nella parte in cui ha disposto di non adottare provvedimenti inibitori/repressivi avverso l’attività edilizia avviata dalla An. S.r.l. con DIA 22.7.14, successivamente integrata con DIA 22/7/2014, successivamente integrata con DIA in variante il 24/9/2015 ed il 9/11/2015..
quanto al ricorso n. 1070 del 2016:
– del provvedimento del comune di (omissis) prot. n. 30253 del 15 luglio 2016 avente ad oggetto: “Determinazioni su istanze del 01/02/1016 prot. 4322 e del 26/02/2016 prot. 8564 – ricevuto in data 27/07/2016 – con il quale si è dato riscontro alle istanze – denunce ex artt. 19 L. n. 241/90 e 27 T.U. Edilizia in data 01/02/2016 e 26/02/2016, depositate dalla ricorrente in relazione alle Dia in variante alla Dia 22/07/2014 presentate da An. nelle date del 9/11/2015, 15/12/2015 e 19/02/2016;
quanto al ricorso n. 1411 del 2016:
del provvedimento del Dirigente 5° Settore Tecnico – Servizio Edilizia Privata, prot. n. 37724 del 13.9.16 – “Determinazioni su istanza 8 luglio 2016” – ricevuto il 19.9.16 – con il quale si è riscontrata l’istanza ex artt. 27 d.P.R. n. 380/01 e 19, co. 6 ter, L. n. 241/90 del 7.7.16 depositata dalla Signora Pa. in relazione alla Dia 15.3.16 in variante della Dia 22.7.14 presentata da An.; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale ivi compresa la Dia 15.3.16
quanto al ricorso n. 255 del 2017:
del provvedimento del Dirigente 4° Settore Sviluppo del Territorio, prot. n. 55362 del 28.12.16 – ricevuto in pari data – con il quale è stata riscontrata l’istanza della Signora Pa. del 30.11.16, presentata a fronte della delibera di Giunta Regionale 29.11.16 in merito all’interpretazione dell’art. 9, co. 8 bis, L.R.V. n. 14/09, con riferimento al progetto edilizio di An. di cui alle Dia 22.7.14-24.9.15-9.11.15-15.12.15-19.2.16-15.3.16; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale.
quanto al ricorso n. 485 del 2018:
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale Per Il Veneto (sezione Seconda) n. 00944/2017, resa tra le parti, concernente Annullamento e/o riforma della sentenza n. 944/2017 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Seconda, pubblicata mediante deposito in Segreteria avvenuto il 24.10.2017 e notificata dalla signora Pa. Veronica al Comune di (omissis), con pec del 08.11.2017, assunta al protocollo comunale n. 0049500 del 09.11.2017, con riferimento al capo con il quale accoglie i ricorsi promossi dall’odierna appellata “nella parte in cui il Comune di (omissis) si è determinato erroneamente riguardo la verifica dell’altezza del costruendo edificio” e, pertanto, “ordina al Comune di (omissis) di adottare i necessari provvedimenti di ripristino riguardo il rispetto dell’altezza”.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ve. Pa. e di An. S.r.l. e di Ce. S.r.l. e di Ve. Pa. e di Comune di (omissis) e di Ce. S.r.l.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 marzo 2021 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Pi. Ze., Gi. Co. ed En. Ga., in collegamento da remoto, ai sensi degli artt. 4, comma 1, del Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020 e 25 del Decreto Legge n. 137 del 28 ottobre 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa. L’udienza si svolge ai sensi degli artt. 4, comma 1, del Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020 e 25 del Decreto Legge n. 137 del 28 ottobre 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il primo degli appelli di cui in epigrafe l’impresa An. odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 944 del 2017, nella parte in cui il Tar veneto aveva accolto l’originario ricorso, tra i diversi proposti dall’odierna parte appellata Pa. avverso l’intervento edilizio avviato dalla stessa An., annullando i provvedimenti del comune di (omissis) in quanto la verifica della d.i.a. operata dal comune stesso non ha applicato i parametri di legge per quanto riguarda la legittimità delle altezze assentite.
Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante formulava i seguenti motivi di appello:
– erronea interpretazione e falsa applicazione dell’art. 9 comma 8 bis l.r. 14/2009, come introdotto dal comma 13 dell’art. 10 l.r. Veneto. n. 32 del 29 novembre 2013, in relazione all’art. 2 bis del T.U. dell’Edilizia e all’art. 8 del D.M. Lavori Pubblici 2 aprile 1968, n. 1444;
– violazione degli artt. 111, sesto comma, Cost. e 3 cod.proc.amm. per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della decisione appellata, con particolare riguardo agli artt. 19 e 21 nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241.
La parte appellata si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello e riproponendo i motivi non esaminati o assorbiti. Si costituiva in giudizio la società Ce. chiedendo l’accoglimento dell’appello.
Alla camera di consiglio del 22 febbraio 2018 l’istanza cautelare veniva rinunciata in vista della trattazione del merito.
Con il secondo appello di cui in epigrafe la medesima sentenza veniva impugnata, nella stessa parte di accoglimento, dal Comune di (omissis) che, nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, formulava i seguenti motivi di appello:
– mancato pronunciamento su di un punto decisivo del petitum e violazione dell’art. 12 preleggi, in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 9, co. 8 bis, della L.R. Veneto n. 14/2009;
– carente motivazione in ordine all’asserita violazione della medesima norma regionale;
– illegittimità nella parte in cui ritiene che il Comune abbia violato i limiti di altezza di cui alla predetta norma, travisamento dei fatti e contraddittorietà ;
Anche in tale giudizio la parte appellata si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del gravame e riproponendo i motivi non esaminati o assorbiti. Si costituiva parimenti la società Ce., concludendo analogamente per l’accoglimento dell’appello.
Alla pubblica udienza del 14 febbraio 2019 le cause passavano in decisione.
Con ordinanza n. 1431 del 2019, disposta preliminarmente la riunione degli appelli proposti avverso la medesima sentenza, veniva rimessa alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’art. 9 comma 8 bis della legge regionale del Veneto 8 luglio 2009, n. 14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117 Cost. secondo comma lett l) e terzo comma, della Costituzione.
All’esito dell’incidente di costituzionalità, la Consulta – con sentenza n. 30 del 2020 – dichiarava inammissibili le questioni e – con ordinanza del 15 gennaio 2020 – dichiarava inammissibili gli interventi di Anci Veneto ed Ance Veneto.
Alla pubblica udienza del 25 marzo 2021 le cause passavano in decisione.
DIRITTO
1. Preliminarmente, va confermata la riunione degli appelli di cui in epigrafe, sia in quanto proposti avverso la medesima sentenza, a norma dell’art. 96, comma 1, cod. proc. amm., sia in considerazione della sussistenza della connessione, sia soggettiva che oggettiva, dei ricorsi, nei termini già evidenziati in sede di ordinanza n. 1431 del 2019 di questa sezione,
2. Sempre in via preliminare, vanno riassunti i fatti di causa.
2.1 In particolare, oggetto del contenzioso è un intervento di edilizia abitativa realizzato in (omissis) dalla società An., con appalto dei lavori alla ditta Ce. s.r.l., relativo ad un edificio residenziale degli anni cinquanta di cui è stata progettata la demolizione e ricostruzione accedendo alle facoltà premiali introdotte con la normativa regionale veneta relativa al cosiddetto “piano-casa” (ll.rr. nn. 14 del 2009, 13 del 2011 e 32 del 2013), compreso un ampliamento del fabbricato.
2.2 Con una serie di ricorsi proposti dalla odierna parte appellata, contitolare di un confinante complesso condominiale, venivano impugnati gli atti adottati dal Comune interessato in relazione al predetto intervento.
All’esito del giudizio di prime cure il Tar Veneto, riuniti i ricorsi, dichiarato inammissibile l’ultimo (in quanto avente ad oggetto un atto meramente confermativo) e respinti per il resto gli altri gravami, accoglieva le domande di parte ricorrente annullando gli atti impugnati limitatamente alla parte in cui il comune di (omissis) si è determinato erroneamente riguardo la verifica dell’altezza del costruendo edificio. Ciò in accoglimento delle censure dedotte da parte ricorrente con riferimento alla corretta applicazione del comma 8 bis dell’art. 9 della legge regionale n. 14 del 2009; secondo il Tar tale norma, di riferimento per il caso di specie, non consente di considerare come edificio esistente l’edificio circostante più alto, come invece erroneamente imputato dai Giudici di prime cure al comune di (omissis).
2.3 Anche le censure dedotte coi vizi di appello, richiamati nella narrativa in fatto, si basano sulla contestata applicazione della norma regionale predetta, di cui occorre pertanto richiamare il tenore letterale: “Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza dell’edificio esistente”.
3. A seguito della pronuncia della Consulta e del conseguente sostanziale “non liquet”, se preliminarmente non sussistono i presupposti per la invocata riproposizione di analoga questione, è ben possibile passare all’esame del merito, prendendo le mosse dalla questione di fondo, concernente l’interpretazione della norma regionale oggetto di applicazione e conseguente contestazione principale fra le parti.
3.1 Invero, a fronte del principio che va tratto dalla norma statale di riferimento (art. 2 bis cit.), nonché della formulazione letterale della stessa norma regionale (che si dichiara in attuazione dello stesso art. 2 bis), va condivisa l’opzione ermeneutica seguita dal Giudice di prime cure.
Se è pur vero che le continue modifiche alla stessa norma statale predetta rendono difficoltosa l’individuazione e l’applicazione delle indicazioni in termini di principio, il criterio di riferimento del limite massimo non può che riguardare lo stesso edificio esistente, cioè il medesimo oggetto di intervento.
3.2 La complessità del substrato normativo coinvolto impone un excursus, che prenda le mosse da quanto già evidenziato in sede di ordinanza di rimessione.
3.3 Come noto, con l’introduzione dell’art. 2-bis del testo unico edilizia, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98 (norma vigente ratione temporis ai fini di causa), l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano “inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio” (cfr. ad es. sentenze nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La deroga alla disciplina dei parametri in tema di altezze e distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici doveva quindi ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (artt. 8 B nel caso di specie e 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
3.4 Alla luce delle considerazioni appena svolte, poteva ritenersi non coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui all’art 2 bis t.u. edilizia, il mancato riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968 richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle altezze e delle distanze.
Inoltre, la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m., che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013).
3.5 Ne consegue che dovrebbero ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (ex multis, sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del 2014).
Peraltro, tali peculiari elementi presupposti della deroga non si rinvenivano dal testo della norma regionale in contestazione.
Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore regionale veneto al comma 9 bis in oggetto, appare infatti in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica.
L’assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto già evidenziato dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l’esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul piano semantico, a legittimare anche interventi diretti a singoli edifici, in aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte in precedenza.
In tale ottica appariva pertanto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina delle distanze tra fabbricati al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, in violazione del limite dell’ordinamento civile assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
3.6 In materia è stata altresì richiamata, a fini di completezza e di estensione al tema delle altezze, la valenza generale del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega dell’art. 41 quinquies, l. 17 agosto 1942 n. 1150, inserito dall’art. 17, l. 6 agosto 1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 2 dicembre 2013, n. 5732). Le relative disposizioni in tema di distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad adeguarvisi nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono immediatamente operanti nei confronti dei proprietari frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti l’altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell’igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell’indirizzo urbanistico dell’abitato (cfr. in termini ad es. Cons. Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, n. 3931).
Analogamente la giurisprudenza è da tempo orientata in modo univoco ad affermare che il decreto ministeriale in questione (ascrivibile secondo una preminente teoria all’atipica categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (cfr. a partire da Cass ss.uu. 1 luglio 1997 n. 5889, nonché ad es. Cass., sez. II, 14 marzo 2012, n. 4076 e Cass., sez. un., 7 luglio 2011, n. 14953).
A fronte della riconosciuta valenza del d.m. 1444, confermata dalla consolidata giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenze 114/2012, 282/2016, 185/2016, 178/2016, 41/2017), gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in capo al legislatore regionale, nei limiti dettati dal legislatore statale, dotato di competenza in tema appunto di principi fondamentali in materia di governo del territorio; orbene, nel caso di specie il legislatore regionale appare aver oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente le indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
4. Peraltro, a fronte della declaratoria di inammissibilità della questione in sede costituzionale, occorre procedere ad esaminare la disciplina rilevante, ai fini di causa, anche alla luce delle sopravvenute modifiche legislative conosciute dallo stesso testo unico.
4.1 Infatti, la norma statale di principio risulta modificata, statuendo ora che “in ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici, anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini, la ricostruzione è comunque consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela”.
4.2 Pur se la normativa applicabile ratione temporis appariva più restrittiva, la nuova formulazione consente un’interpretazione delle disposizioni regionali meno vincolata dal dato statale; infatti queste ultime sono soggette al rispetto dei soli principi fondamentali dettati dal legislatore statale, con la evidente conseguenza che, dinanzi ad un dato legislativo statale sempre più incerto e frammentato, si rende necessario individuare i limiti di principio laddove sia possibili trarli, con sufficiente certezza, per gli operatori coinvolti, altrimenti residuando maggiore spazio per gli interventi del legislatore regionale.
In particolare, la norma statale ormai consente, in caso di interventi di demolizione e ricostruzione (posti al di fuori delle zone A e di quelle alle stesse assimilabili, come nel caso di specie), il superamento dell’altezza massima, sempre nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti.
4.3 Nel caso in esame, pertanto, la legge regionale individua un limite alle altezze massime, nell’ambito di uno spazio legislativo attuativo lasciato libero dalla norma statale. Ciò in quanto, rispetto alla illogicità della tesi secondo cui il legislatore statale consentirebbe di elevare senza limiti, il riferimento di principio è solo la possibilità di superare l’altezza massima dell’edificio demolito (cioè del preesistente), cosicché in tale contesto la norma regionale si pone quale ulteriore (e ragionevole previsione) di limite massimo ulteriore per l’edificio realizzando, rispetto al preesistente.
Di conseguenza occorre procedere all’applicazione della norma regionale in questione, in coerenza con tale interpretazione, che trova peraltro piena corrispondenza al dato letterale: l’elevazione dell’edificio demolito e ricostruito potrà avvenire nel limite del 40 per cento dello stesso edificio preesistente.
4.4 Vanno pertanto condivise le considerazioni poste a fondamento della sentenza impugnata (cfr. in specie punto 4 della motivazione): sia dal punto di vista dell’interpretazione letterale della norma, sia dal punto di vista della natura eccezionale della stessa, non estendibile analogicamente per principio generale. Nei medesimi termini si muove l’interpretazione autentica fornita dalla Regione (cfr. delibera della giunta regionale in data 29 novembre 2016).
Nel tradurre l’opzione ermeneutica in relazione al progetto in esame, dall’analisi degli atti di causa emerge come l’edificio esistente fosse alto 7,14 metri, con la conseguenza che l’entità della deroga al limite delle altezze previste dal piano casa debba reputarsi pari a metri 2,86 ossia al 40 per cento di 7,14, da sommarsi allo stesso edificio esistente; e non, come disposto dagli atti impugnati in prime cure, all’altezza dell’edificio circostante più alta, che è risultata pari a metri 11,57.
5. Le considerazioni sin qui svolte confermano la correttezza dell’interpretazione fatta propria dai Giudici di prime cure, con conseguente infondatezza dei motivi di appello, in specie il primo di An. e tutti quelli comunali, nonché l’assorbimento delle censure riproposte dalla parte originaria ricorrente in relazione alla norma regionale oggetto di applicazione.
6. Per ciò che concerne il secondo motivo di appello della società, lo stesso è parimenti infondato.
6.1 Sul punto la giurisprudenza di questo Consiglio ha ribadito ancora di recente che è irrilevante il periodo temporale, sia pure significativo, trascorso tra la presentazione della d.i.a. o della s.c.i.a. e l’iniziativa assunta dai terzi che si reputano lesi al fine di sollecitare il potere di verifica e controllo dell’Amministrazione, laddove quest’ultima eserciti infine il predetto potere e adotti, come nel caso di specie, un provvedimento espresso, poi oggetto di impugnazione giudiziale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. II, 12 marzo 2020, n. 1795).
6.2 In tale ottica, la tutela del privato va garantita, in termini di piena compatibilità con il principio costituzionale di cui all’art. 24 Cost ed in rapporto alla natura officiosa del potere autoritativo di intervento sull’attività edilizia.
Al riguardo, l’art. 19, commi 3 e 6-bis, l. n. 241/1990 circoscrive il potere di verificare la carenza dei requisiti e dei presupposti per l’applicazione del regime della s.c.i.a. entro un termine precipuo e perentorio; di conseguenza, la sollecitazione di cui al comma 6-ter può considerarsi idonea a fondare il riconoscimento dell’obbligo di provvedere con un dispiegamento senza limiti dei poteri repressivi solo quando interviene prima della scadenza di tale termine. Quando, invece, la sollecitazione, che deve essere comunque assistita da elementi minimali di identificazione e qualificazione dell’attività della quale si chiede la verifica, è proposta oltre il suddetto termine, essa non può valere ad attribuire un potere che, con quei contenuti ed effetti, si è ormai consumato, ma comporta l’obbligo di procedere e emanare un provvedimento espresso, con contenuto condizionato dall’accertamento e valutazione della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/05/2019, n. 3124).
6.3 Tale sollecitazione, se muta sul versante della p.a. nei termini predetti, non impone formule sacramentali, essendo all’evidenza adeguata l’invocazione del potere di cui è titolare l’autorità investita. Ciò che rileva è la concretezza dell’istanza, richiesta dalla giurisprudenza di questo Consiglio nel senso che la stessa debba contenere elementi minimali di identificazione e qualificazione dell’attività della quale si chiede la verifica; elementi all’evidenza presenti sin dalla prima istanza datata 1 luglio 2015 – inoltrata nell’immediatezza dell’avvio dei lavori, rispetto alla quale il Comune, in data 9 luglio 2015, comunicava ad An. l’avvio del procedimento di annullamento in autotutela del provvedimento formatosi a seguito della d.i.a. 22 luglio 2014 e, in data 6 agosto 2015, sospendeva i lavori. Seguivano la d.i.a. 24 settembre 2015 e, il successivo 22 ottobre 2015, il provvedimento prot. n. 42654, con il quale il Comune, ritenuto che An. si fosse conformata, in punto altezza, alla normativa, decideva di non assumere alcuna iniziativa inibitoria, oggetto della originaria impugnazione di Pa. (r.g, n. 44 del 2016).
6.4 D’altronde è in tale ottica che si è mossa la stessa Corte costituzionale nel respingere le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 19, comma 6 ter, della legge n. 241 del 1990, con riferimento alla mancata previsione di un termine finale per la sollecitazione da parte del controinteressato della verifica della legittimità della s.c.i.a. (cfr. Corte cost. n. 45 del 2019).
Il testo dell’art. 19, comma 6-ter, cit., così consolidato dalla Consulta, obbliga il privato, che intenda contrastare l’attività oggetto di s.c.i.a., a sollecitare in via amministrativa l’intervento repressivo dell’Ente pubblico e, in caso di mancata risposta di quest’ultimo, a ricorrere in sede giurisdizionale avverso il silenzio dallo stesso serbato. Ne deriva che, nell’attuale quadro normativo, l’unico strumento di reazione processuale spettante al terzo in virtù della nuova disposizione è l’azione avverso il silenzio ovvero l’impugnativa dell’atto negativo adottato. Tale norma non ha portata interpretativa, ma innovativa, e soprattutto ? disciplinando la tipologia dei mezzi di tutela a disposizione del terzo ? ha natura sostanziale e non già processuale (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI, 29/08/2018, n. 5072).
6.5 Nel caso di specie, se per un verso la originaria diffida degli odierni appellanti è intervenuta entro il termine concernente l’autotutela, risulta altresì risalente ad un periodo anteriore al consolidamento della norma e dei principi suddetti, con la conseguenza che (nei termini già evidenziati dalla sezione: cfr. sentenza 5072 del 2018 cit.) neppure potrebbero trarsi elementi di formale inammissibilità rispetto a termini e norme sopravvenute, per un altro e dirimente verso i soggetti terzi, che si ritenevano lesi dall’intervento, hanno correttamente attivato il rimedio giurisdizionale.
A fronte delle istanze di parte originaria ricorrente il Comune ha esercitato il potere autoritativo, in termini negativi e quindi legittimando la relativa contestazione, svolta nella presente sede; ciò non toglie che, in sede di riesercizio, il potere comunale resta soggetto ai principi sopra ricordati, così come dettati dalla norma generale di cui all’art. 19 cit., nei termini ulteriormente chiariti dalla sentenza costituzionale n. 45 del 2019.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono gli appelli sono infondati e vanno pertanto respinti.
Sussistono giusti motivi, a fronte della complessità della questione sia in fatto che in diritto, per compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, li respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2021 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Andrea Pannone – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere, Estensore
Giovanni Orsini – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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