Corte di Cassazione, sezione tributaria, Ordinanza 15 maggio 2019, n. 12901.
La massima estrapolata:
Al fine di escludere la responsabilità dell’autore che ha commesso la violazione tributaria, per identificare l’elemento soggettivo della violazione, che emerge soltanto in presenza di colpa, non è sufficiente il suo generico stato di ignoranza, ma occorre altresì la sua incolpevolezza, non superabile dall’interessato con l’ordinaria diligenza. Ai fini probatori la prova di siffatto presupposto grava necessariamente sul contribuente e dunque deve escludersi la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice tributario di una presunta carenza dell’elemento soggettivo sotto il profilo della mancanza assoluta di colpa.
Ordinanza 15 maggio 2019, n. 12901
Data udienza 3 luglio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere
Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere
Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28069/2011 R.G. proposto da:
(OMISSIS) rappresentato e difeso giusta delega in atti dall’avv. (OMISSIS) e dall’avv. (OMISSIS) elettivamente domiciliato nel presente giudizio presso lo studio di questo’ultimo in (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
– controricorrenti –
Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 109/20/10 depositata il 25/10/2010, non notificata;
Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 3/7/2018 dal consigliere Roberto Succio.
RILEVATO
che:
– con la sentenza di cui sopra il giudice di seconde cure ha accolto l’appello dell’Agenzia e quindi confermato la legittimita’ dell’atto impugnato che era stato annullato in primo grado in relazione alle sanzioni;
– con tal atto l’Erario richiedeva il pagamento di Euro 75.725,36 quale somma dovuta in forza di adesione del contribuente al c.d. condono tombale L. n. 289 del 2002, ex articolo 9, per gli anni dal 1997 al 2002;
– avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per cassazione il contribuente, affidato a tre motivi. L’Amministrazione Finanziaria resiste con controricorso.
CONSIDERATO
che:
– con il primo motivo di ricorso il ricorrente censura la sentenza impugnata denunciando la nullita’ della sentenza stessa per violazione dell’articolo 112 c.p.c. in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo la CTR omesso di pronunciarsi sui motivi di appello incidentale; il motivo e’ infondato;
– questa Corte ha ritenuto in altra occasione che l’assorbimento, anche improprio, non rappresenta mai un’omissione di pronuncia; in specifico si e’ chiarito che (Corte Cass. civ., sez. trib., 17-12-2014, n. 26493) se il giudicato interno si forma anche sui capi della sentenza che siano stati oggetto di decisione implicita, ove la stessa non sia stata impugnata, nel caso di assorbimento c.d. improprio (il quale ricorre allorche’ una domanda viene rigettata in base alla soluzione di una questione di carattere esaustivo che rende vano esaminare le altre), sul soccombente non grava l’onere di formulare sulla questione assorbita alcun motivo di impugnazione, essendo sufficiente, per evitare il giudicato interno, censurare o la sola decisione sulla questione giudicata di carattere assorbente o la stessa statuizione di assorbimento, contestando i presupposti applicativi e la ricaduta sulla effettiva decisione della causa; l’assorbimento non comporta infatti un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realta’, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione e’ proprio quella dell’assorbimento, come nel caso di specie;
– e ancora, si e’ ulteriormente precisato che (Corte Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 8571 del 06/04/2018) la figura dell’assorbimento puo’ aversi in forma esplicita, allorche’ la decisione spieghi espressamente le ragioni per cui la domanda assorbita e’ ritenuta superflua, ovvero anche in forma implicita, allorquando l’affermazione contenuta in motivazione sia logicamente incompatibile con l’accertamento richiesto nella domanda implicitamente assorbita; (nella fattispecie la S.C. ha affermato la natura implicita dell’assorbimento in un’ipotesi in cui la pregressa statuizione della Corte di appello sulla vigenza di un contratto di comodato rendeva inutile affrontare la domanda di novazione del medesimo);
– con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articoli 5 e 6, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il secondo giudice non aver valutato l’insussistenza dell’elemento psicologico, in questo caso della colpa; ritiene il contribuente che l’aver pagato la prima rata del condono sarebbe indicativo del difetto di elemento soggettivo, quanto meno sotto il profilo proprio della mancanza di diligenza, quanto alle sanzioni;
– nello specifico il contribuente sostiene in sintesi che il fatto contestatogli (vale a dire l’adesione alla disciplina condonistica) sia esclusivamente addebitabile a terzi, vale a dire al proprio consulente che avrebbe predisposto e presentato l’istanza a insaputa del contribuente;
– sostiene quindi il contribuente di aver dimostrato, senza pero’ che la CTR lo abbia riconosciuto, la sussistenza della propria buona fede;
– il motivo e’ infondato; peraltro il suo esame consente alla Corte di completare e chiarire il contesto normativo rilevante in tema di sanzioni, con particolare riferimento all’indagine relativa all’elemento soggettivo delle stesse, che come e’ noto e’ elemento costitutivo della fattispecie;
– ritiene la Corte di dover premettere come i principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo in tema di sanzioni amministrative siano stati chiariti con quella sentenza (Cass. Sez. U., Sentenza n. 20930 del 30/09/2009) che ha statuito, pronunciandosi in tema di sanzioni amministrative delle quali le sanzioni tributarie costituiscono sottoinsieme governato da principio analogo per il profilo che qui interessa, che una volta integrata e provata dall’autorita’ amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtu’ della presunzione di colpa posta dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 3, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza;
– deve poi valutarsi come il fatto del terzo di per se’ non rilievi ove sia configurabile la sussistenza della culpa in vigilando, come gia’ questa Corte ha ritenuto con pronuncia (Cass. 6223/17), che richiama in motivazione le precedenti (Cass. n. 11433/15; n. 5965/14; n. 14042/12; n. 13068/11) che costituisce precedente specifico sul punto;
– va poi specificato come se e’ ben vero che in forza ancora di giurisprudenza costante di questo giudice di legittimita’ (Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8630 del 30/05/2012) l’infedelta’ dell’intermediario che, incaricato del pagamento dell’imposta e della trasmissione della dichiarazione dei redditi, ometta di provvedervi, quand’anche accertata in sede penale, non esonera il contribuente dal pagamento dell’imposta stessa, rimanendo non dovuti soltanto gli interessi e le sanzioni, in base al principio di cui al Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articolo 6, comma 3, e’ altrettanto vero che tal orientamento si riferisce a una ipotesi particolare, nel quale l’intermediario aveva falsificato la firma del contribuente sugli atti inviati all’Amministrazione Finanziaria, fattispecie non coincidente con quella che qui rileva;
– conseguentemente i principi espressi dalla sentenza sopra citata non trovano applicazione al caso in esame;
– nella presente fattispecie quindi, in applicazione dei principi qui enunciati e precisati in materia di riparto dell’onere della prova, rileva la Corte come il contribuente non abbia fornito le prove dell’assenza di colpevolezza (anzi, a ben vedere, il pagamento della prima rata della somma dovuta in forza dell’adesione alla disciplina condonistica e’ fatto di per se’ idoneo a provare il contrario);
– risulta pertanto qui confermato il principio generale applicabile a ogni tipologia di sanzione amministrativa e tenuto presente oltre che ovviamente applicato il deciso di questa Corte avente portata generale (Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 720 del 15/01/2018) secondo il quale in tema di illeciti amministrativi, la sufficienza, al fine d’integrare l’elemento soggettivo della violazione, della semplice colpa L. n. 689 del 1981, ex articolo 3, comporta che, al fine di escludere la responsabilita’ dell’autore dell’infrazione, non basta uno stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale ignoranza sia incolpevole, cioe’ non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza;
– conseguentemente, in applicazione di tal principio, che si estende anche alle sanzioni tributarie non penali, che hanno certamente natura di sanzioni amministrative, secondo la Corte (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13068 del 15/06/2011) anche in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ai fini dell’affermazione di responsabilita’ del contribuente, ai sensi del Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, articolo 5, occorre quindi, complessivamente e conclusivamente, da un lato che l’azione od omissione causativa della violazione sia volontaria, ossia compiuta con coscienza e volonta’, e secondariamente colpevole, ossia compiuta con dolo o negligenza;
– il Decreto Legislativo n. 472 del 1997, sopra citato articolo 5, quindi, estendendo alle sanzioni tributarie il medesimo il principio generale sancito dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 3, stabilisce che non e’ sufficiente la mera volontarieta’ del comportamento sanzionato, essendo richiesta, anche, la consapevolezza del contribuente, al quale deve potersi imputare un comportamento quanto meno negligente, ancorche’ non necessariamente doloso. E’, pertanto sufficiente, ai fini dell’assoggettamento a sanzione tributaria, una condotta cosciente e volontaria, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o tantomeno di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, gravandolo dell’onere di provare il contrario (cosi’ sostanzialmente, in motivazione, Cass. n. 14042 del 03/08/2012; cfr. Cass. n. 13068 del 15/06/2011; Cass. n. 22890 del 25/10/2006; sulla non necessita’ di un intento fraudolento si veda anche Cass. n. 4171 del 20/02/2009; in termini infine vedasi Cass. n. 22329/2018);
– proprio in forza di quanto appena detto, poiche’ la prova dell’assenza di colpa grava pertanto sul contribuente, va esclusa la rilevabilita’ d’ufficio di una presunta carenza dell’elemento soggettivo sotto il profilo della mancanza assoluta di colpa, trattandosi di elemento in ordine alla qual prova e deduzione l’onere incombe al contribuente;
– nel presente caso, fermo quindi restando che il solo elemento soggettivo della colpa consente l’irrogazione delle sanzioni, la CTR ha in realta’ adeguatamente motivato in ordine alle circostanze di fatto che l’hanno indotta alla decisione gravata, certo non ultima quella relativa al pagamento della prima rata, che sarebbe quasi paradossale ritenere elemento di prova della sussistenza della buona fede, costituendo in realta’ elemento di prova del contrario;
– e comunque, l’aver il contribuente affidato le operazioni relative alla compliance tributaria a proprio professionista che non adempia al proprio dovere, non lo libera dal dovere di sorvegliarne per quanto in suo potere l’operato, tenendo condotte agevolmente realizzabili senza eccessivo sforzo ad esempio chiedendo copia della ricevuta di trasmissione della dichiarazione, o delle quietanze di pagamento delle imposte presso gli intermediari finanziari; il che esclude l’invocata (Ndr: testo originale non comprensibile) prevista dal Decreto Legislativo 472 del 1997, articolo 6, comma 3 (conformemente a Cass. n. 28359/18)
– quindi il motivo va rigettato: appare inoltre opportuno a questa corte enunciare il connesso principio di diritto come segue: “in tema di sanzione tributaria l’elemento soggettivo della violazione, che puo’ constare anche solo della colpa, comporta che al fine di escludere la responsabilita’ dell’autore dell’infrazione non basta uno stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale ignoranza sia incolpevole, cioe’ non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza; quanto al riparto dell’onere probatorio, la prova dell’assenza di colpa grava quindi sul contribuente sicche’ va esclusa la rilevabilita’ d’ufficio di una presunta carenza dell’elemento soggettivo, sotto il profilo della mancanza assoluta di colpa”;
– il terzo motivo costituisce una censura motivazionale ex articolo 360 c.p.c., comma 5, fondata sul rilievo secondo il quale la CTR non ha esplicitato le ragioni secondo le quali l’appello era da accogliere, ne’ ha illustrato le ragioni che l’hanno indotta a disattendere le argomentazioni di segno opposto offerte dal contribuente;
il contribuente in sostanza qui denuncia l’aver la CTR sostanzialmente ricopiato in sentenza il contenuto di atti dell’Amministrazione; il motivo e’ infondato;
– come statuito da questa Corte in sede di massima funzione nomofilattica, (Cass. Sez. U., Sentenza n. 642 del 16/01/2015) sia nel processo civile sia in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non e’ nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo; cio’ avviene nel caso di specie;
– in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non puo’ ritenersi, di per se’, sintomatica di un difetto d’imparzialita’ del giudice, al quale non e’ imposta l’originalita’ ne’ dei contenuti ne’ delle modalita’ espositive, tanto piu’ che la validita’ degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso, liquida le spese in Euro 6.000 oltre a spese prenotate a debito che pone a carico di parte soccombente.
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