Consiglio di Stato, Sentenza|18 marzo 2021| n. 2341.
Affinché i ricorsi collettivi siano ammissibili nel processo amministrativo, occorre che vi sia identità di situazioni sostanziali e processuali; è, in particolare, necessario che: le domande giudiziali siano identiche nell’oggetto, ossia afferiscano ai medesimi atti e rechino le medesime censure; le posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti siano del tutto omogenee e sovrapponibili; i ricorrenti non versino in condizioni di neppure potenziale contrasto.
Sentenza|18 marzo 2021| n. 2341
Data udienza 11 febbraio 2021
Integrale
Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Pianificazione urbanistica – Piano degli interventi del Comune – Impugnazione – Legittimazione attiva – Ricorso collettivo – Limiti di ammissibilità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7620 del 2019, proposto dai signori Ch. Gi., ed altri, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato An. Fe., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gi. Na. in Roma, via (…),
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Al. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ga. Ba. in Roma, via (…),
nei confronti
– di Gu. Ca. S.n. c. dei Fr. Gu. Fa., Ni. e Mi., rappresentata e difesa dall’avvocato Fr. Vo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Padova, via (…);
– della Azienda Agricola Cà Ro. di B. Bi. e C. S.S. e di Po. Sp. S.r.l., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, nonché del sig. Eu. Fr., rappresentati e difesi dagli avvocati Gi. Gi., An. Ma. e Ni. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato An. Ma. in Roma, via (…);
– della Provincia di Vicenza e dei signori Br. Bi., Si. Re. e Lu. Re., non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza in forma semplificata del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Seconda, n. 511 del 26 aprile 2019, resa tra le parti, concernente il Piano degli interventi del Comune di (omissis).
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis), della società Gu. Ca. S.n. c. dei Fr. Gu. Fa., Ni. e Mi., dell’Azienda Agricola Cà Ro. di B. Biasin e C. S.S., della società Po. Sp. S.r.l. e del sig. Eu. F.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2021, svoltasi da remoto ai sensi dell’art. 25 d.l. n. 137 del 2020, convertito con l. n. 176 del 2020, il Cons. Luca Lamberti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r. per il Veneto ha dichiarato inammissibile il ricorso svolto da sei cittadini del Comune di (omissis) avverso le delibere consiliari di adozione (delibera n. 40 del 26 giugno 2018) ed approvazione (delibera n. 73 del 11 dicembre 2018) del locale Piano degli interventi.
I ricorrenti hanno agito nelle seguenti vesti:
– i signori Gi. Ch. e Ta. Lu. quali consiglieri comunali in carica;
– i signori Re. Fr., Be. Fr., Ca. An. e Bi.Te., nonché la già citata signora Gi. Ch., quali cittadini del Comune, come tali in tesi per ciò solo legittimati a ricorrere “per la violazione della normativa di cui alla l.r. 14/2017”;
– i signori Be. Fr., Ca. An. e Bi. Te. quali cittadini del Comune residenti nelle vicinanze di alcune “schede di trasformazione” ricomprese nel Piano, come tali in tesi legittimati a ricorrere in base al criterio della vicinitas.
Più in particolare, i ricorrenti hanno svolto le seguenti censure:
– quali consiglieri comunali, hanno lamentato “la lesione delle prerogative connesse al proprio mandato” conseguite al procedimento nella specie seguito dall’Ente;
– quali cittadini del Comune, hanno sostenuto che il Piano sarebbe in contrasto con la l.r. 6 giugno 2017, n. 14, che avrebbe limitato il consumo di suolo, contestualmente qualificato come “bene comune”;
– quali cittadini residenti nei pressi di alcune aree ricomprese in “schede di trasformazione”, hanno contestato la lesione delle proprie prerogative di soggetti stabiliti sul territorio.
Costituitisi in resistenza il Comune ed alcuni dei soggetti proprietari delle “schede di trasformazione” de quibus, il T.a.r., in accoglimento di apposita eccezione svolta dalle parti resistenti, ha dichiarato il ricorso inammissibile, avendo riscontrato “l’uso improprio” del ricorso collettivo, giacché difetterebbe “una situazione di identità sostanziale e processuale in rapporto a domande giudiziali fondate sulle stesse ragioni difensive”: di contro, ha osservato il T.a.r., “le doglianze proposte sono riferite in modo distinto ed esclusivo a ciascuno dei tre gruppi di ricorrenti ed hanno ad oggetto profili specifici della variante non estensibili alla posizione degli altri, e manca pertanto un unico contesto che leghi la pretesa azionata”.
Il T.a.r. ha assorbito le ulteriori eccezioni di inammissibilità svolte da parti resistenti (con cui si contestava il “difetto di legittimazione e di interesse dei consiglieri comunali relativamente alle censure non connesse all’esercizio delle proprie funzioni”, il “difetto di legittimazione dei cittadini perché pretenderebbero di svolgere un’azione popolare” ed il “difetto di interesse dei cittadini che pretendono contestare la legittimità degli atti impugnati sul semplice criterio della vicinitas senza allegare di subire un pregiudizio dalle previsioni impugnate”), precisando comunque, “per completezza”, che anche tali eccezioni sarebbero fondate.
Il T.a.r., infine, ha ravvisato l’infondatezza nel merito delle censure svolte dai consiglieri comunali circa l’asserita lesione delle loro prerogative, giacché “il Comune nelle proprie difese ha dimostrato che l’avviso di deposito della variante adottata è stato regolarmente pubblicato all’albo pretorio (cfr. doc. 20 allegato alle difese del Comune) e l’approvazione unitaria anziché scheda per scheda della variante di per sé non è lesiva di alcuna prerogativa dei consiglieri comunali, atteso che non risulta sia stata in alcun modo limitata la facoltà di presentare emendamenti”.
2. I ricorrenti di prime cure hanno svolto appello, sostenendo, inter alia, che il tratto unificante del loro ricorso sarebbe costituito dalla contestata violazione della normativa regionale, che, qualificando il suolo come un “bene comune”, ossia come “valore da tutelare in via autonoma, in sé ed in quanto tale”, attribuirebbe a ciascun consociato la facoltà di agire per la relativa preservazione.
Si sono costituiti in resistenza i soggetti già costituitisi in prime cure, riproponendo le eccezioni e le difese già formulate avanti il T.a.r.; il Comune ha altresì eccepito l’improcedibilità delle censure svolte dai ricorrenti confinanti con la “scheda di trasformazione” n. 46, stante la mancata impugnazione del Piano attuativo successivamente approvato.
La Sezione, con ordinanza cautelare n. 5230 del 14 ottobre 2019, ha accolto, in relazione al solo profilo del periculum, l’istanza cautelare, per vero formulata con esclusivo riferimento al regolamento delle spese di lite disposto in prime cure.
In vista della trattazione del ricorso le parti hanno versato in atti difese scritte.
Il ricorso è stato introitato in decisione alla pubblica udienza dell’11 febbraio 2021, svoltasi da remoto ai sensi dell’art. 25 d.l. n. 137 del 2020, convertito con l. n. 176 del 2020.
3. Il ricorso in appello non è fondato.
Può, dunque, prescindersi dallo scrutinio dell’eccezione di improcedibilità svolta dal Comune: da un punto di vista logico, infatti, l’insussistenza ab initio delle condizioni di ammissibilità dell’actio è elemento prioritario ed assorbente rispetto ad ogni valutazione circa la persistenza dell’interesse a ricorrere.
Quanto, appunto, all’inammissibilità del ricorso di primo grado, il Collegio richiama la consolidata giurisprudenza per cui, affinché i ricorsi collettivi siano ammissibili nel processo amministrativo, occorre che vi sia identità di situazioni sostanziali e processuali.
E’, in particolare, necessario che:
– le domande giudiziali siano identiche nell’oggetto, ossia afferiscano ai medesimi atti e rechino le medesime censure;
– le posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti siano del tutto omogenee e sovrapponibili;
– i ricorrenti non versino in condizioni di neppure potenziale contrasto.
Invero, anche nell’attuale cornice codicistica la proposizione del ricorso collettivo rappresenta una deroga al principio generale secondo il quale ogni domanda, in quanto tesa a tutelare un interesse meritevole di tutela, deve essere proposta dal relativo titolare con separata azione.
Ciò, del resto, è il precipitato tecnico della natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, deputata ad erogare tutela giurisdizionale ad una posizione soggettiva lesa dall’azione amministrativa, non a veicolare un controllo oggettivo della legittimità dell’azione amministrativa stessa, scisso da una concreta lesione arrecata agli specifici interessi di un determinato consociato.
In altra prospettiva, il controllo della legittimità dell’azione amministrativa non è l’obiettivo ultimo del processo amministrativo, ma configura, invece, un (sia pur ineludibile) strumento funzionale alla tutela della situazione azionata in giudizio, che costituisce l’oggetto, lo scopo ed il limite della giurisdizione amministrativa (cfr. art. 1 c.p.a.).
Pertanto, la proposizione contestuale di un’impugnativa da parte di più soggetti, sia essa rivolta contro uno stesso atto o contro più atti tra loro connessi, è soggetta al rispetto di stringenti requisiti, sia di segno negativo che di segno positivo: i primi sono rappresentati dall’assenza di una situazione di conflittualità di interessi, anche solo potenziale, per effetto della quale l’accoglimento della domanda di alcuni dei ricorrenti sarebbe logicamente incompatibile con l’accoglimento delle istanze degli altri; i secondi consistono, invece, nell’identità delle posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti, essendo necessario che le domande giurisdizionali siano identiche nell’oggetto, che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e che vengano censurati per gli stessi motivi (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. II, 18 maggio 2020, n. 3155; id., sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 363; id., sez. III, 20 maggio 2014, n. 2581).
Nel caso di specie, se è vero che nell’impugnativa di primo grado vi era un elemento comune consistente nella doglianza di violazione della l.r. 6 giugno 2017, n. 14, non può però non notarsi che alcuni dei ricorrenti facevano valere anche, nella propria qualità di consiglieri comunali, vizi procedimentali asseritamente lesivi delle loro prerogative di componenti dell’organo consiliare: con ciò essi miravano a un risultato (ad un petitum) concretantesi nell’integrale annullamento delle delibere consiliari impugnate, laddove altri ricorrenti, segnatamente il terzo gruppo, facevano valere vizi i quali – se fondati – avrebbero comportato, secondo i comuni principi, l’annullamento delle stesse solo per la parte di loro interesse.
Emerge evidente, dunque, sia l’insussistenza del suindicato requisito “negativo”, atteso che l’eventuale accoglimento delle ragioni di taluni ricorrenti non sarebbe stato evidentemente satisfattivo per altri, sia, prima ancora, l’insussistenza dell’ineludibile requisito rappresentato dall’identità dell’oggetto e dei motivi di censura fra i vari ricorrenti.
Con specifico riferimento alla legislazione regionale veneta, poi, il Collegio osserva che:
– per regola generale, le previsioni delle leggi, ivi incluse quelle regionali, devono essere interpretate secundum Constitutionem;
– la materia “ordinamento civile” è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato;
– la qualificazione del suolo come “bene comune” contenuta in una legge regionale non può perciò essere interpretata come volta ad alterare ab interno (recte, a scardinare tout court) lo statuto del diritto di proprietà come enucleato nel codice civile.
Non è, dunque, predicabile alcuna legittimazione in capo al singolo consociato, uti civis, ad impugnare atti di pianificazione lamentando la lesione del “bene comune” suolo.
Il Collegio, per scrupolo motivazionale, aggiunge anche che, in termini generali, allorché la previsione urbanistica impugnata non afferisca direttamente alla proprietà del ricorrente ma ad un’area ad essa contermine, è necessario che sia enucleata specificamente la concreta lesione arrecata dalla previsione, pena l’inammissibilità del gravame (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10 febbraio 2020, n. 1011; id., 4 dicembre 2017, n. 5674).
Nel caso di specie, in prime cure i ricorrenti de quibus, con riguardo al titolo di legittimazione riveniente dall’essere proprietari di aree confinanti con quelle interessate dal Piano, si sono limitati a richiamare il mero criterio della vicinitas, senza allegare né dimostrare alcuno specifico pregiudizio.
Non possono, in proposito, trovare accesso, siccome tardive, le considerazioni svolte nell’atto di appello circa il preteso deprezzamento che i suoli di loro proprietà subirebbero per effetto delle contestate scelte pianificatorie; è, inoltre, inammissibile, ai sensi dell’articolo 104, comma 2, c.p.a., la perizia di parte prodotta per la prima volta in appello.
Infine, non può accedersi alla prospettazione di parte appellante, secondo cui la decisione del T.a.r. di definire immediatamente il giudizio in sede cautelare, ai sensi dell’articolo 60 c.p.a., li avrebbe pregiudicati impedendo loro di produrre la documentazione a sostegno della propria legittimazione e dell’interesse a ricorrere: a prescindere dal fatto che dette condizioni dell’azione debbono essere allegate e documentate fin dall’atto introduttivo del giudizio, è agevole osservare che gli istanti avrebbero potuto opporsi alla definizione del giudizio nel merito in fase cautelare, ma dal verbale di udienza non risulta che lo abbiano fatto.
4. Per le esposte ragioni, la decisione di inammissibilità formulata dal T.a.r. merita piena condivisione: deve, quindi, rigettarsi il ricorso con l’onere delle spese del grado, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna i ricorrenti, in solido fra loro, a rifondere al Comune di (omissis) le spese del grado, liquidate in complessivi Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.
Condanna i ricorrenti, in solido fra loro, a rifondere all’Azienda Agricola Cà Ro. di B. Bi. e C. S.S., alla società Po. Sp. S.r.l. ed al sig. Eu. F., in solido fra loro, le spese del grado, liquidate in complessivi Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.
Condanna i ricorrenti, in solido fra loro, a rifondere alla società Gu. Ca. S.n. c. dei Fr. Gu. Fa., Ni. e Mi. le spese del grado, liquidate in complessivi Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 11 febbraio 2021, svoltasi da remoto ai sensi dell’art. 25 d.l. n. 137 del 2020, convertito con l. n. 176 del 2020, con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Luca Lamberti – Consigliere, Estensore
Alessandro Verrico – Consigliere
Silvia Martino – Consigliere
Giuseppe Rotondo – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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