La P.A. ha l’obbligo di adottare l’ordine di demolizione

Consiglio di Stato, Sentenza|18 marzo 2021| n. 2365.

La P.A. ha l’obbligo di adottare l’ordine di demolizione per il sol fatto d’aver riscontrato l’esistenza di opere abusive che soggiacciono a tal regime sanzionatorio; sicché non è prospettabile in generale alcun affidamento (né legittimo, né di mero fatto) in capo al proprietario a scampare dalla sanzione relativa al tipo d’abuso edilizio commesso, né che questi possa dolersi dell’eventuale ritardo con cui la P.A. abbia emanato il provvedimento repressivo.

Sentenza|18 marzo 2021| n. 2365

Data udienza 4 febbraio 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Ordine di demolizione – D.I.A. – Realizzazione gazebo e tettoia – Definizioni – Consistenza – Unitaria, permanente e rilevante trasformazione del territorio – Preteso legittimo affidamento indotto dal ritardo comunale nell’esercizio del potere repressivo – Inesistenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso NRG 3766/2020, proposto da -OMISSIS-, in proprio e n. q. di titolare dell’attività turistico-ricettiva Bar/Tabacchi in (omissis), rappresentata e difesa dall’avv. Er. Di Bl., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
contro
la Città di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Cl. Gu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in (omissis), via (…), presso l’avv. Gi. Co.,
per la riforma
della sentenza del TAR Campania, sez. VI, n. -OMISSIS-/2019, resa tra le parti e concernente l’ordine di demolizione di abusi edilizi commessi dall’appellante in adiacenza o sull’edificio in cui svolge tale attività Bar/Tabacchi;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Città di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 febbraio 2021 il Cons. Silvestro Maria Russo;
Dato atto che l’udienza si svolge ai sensi degli artt. 4, co. 1 del DL 30 aprile 2020 n. 28 e 25 del DL del 28 ottobre 2020 n. 137, in videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”, come previsto della circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa n. 6305 del 13 marzo 2020;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

1. – La sig. -OMISSIS- dichiara d’esser titolare di un’attività Bar/Tabacchi sita in (omissis) (BN), via -OMISSIS-, censita in catasto -OMISSIS- (edificio con negozio e abitazione) e 403 (terreno), ricadente (a detta del suo tecnico ing. -OMISSIS-) in zona B (in realtà, in zona E) del vigente strumento urbanistico.
Consta in atti che già il 13 maggio 2009 la sig. -OMISSIS- aveva presentato al Comune di (omissis) una DIA per la costruzione d’un gazebo in legno di m. 1,6 x m 2,39, alto m 2,25, addossato al predetto edificio principale. Il 12 febbraio 2011 la sig. -OMISSIS- propose al Comune una SCIA (prot. n. 1766 /11) per realizzare un gazebo d’altro tipo (tensostruttura prefabbricata, tipo a “pagoda” con struttura in acciaio zincato in struttura metallica portante, dotata di sistema di ancoraggio che ne permettesse il trasferimento da un luogo all’altro), di m 3,6 x m 3,6, alto m 2,9 alla gronda e m 4,83 alla punta, antistante al, ma discosto dall’ingresso dell’esercizio pubblico.
Il 7 agosto 2014 gli agenti della Polizia municipale di (omissis), in sede di controllo del territorio, rilevarono nell’area di proprietà attorea una costruzione in legno lamellare non amovibile (perché saldamente fissata al suolo con piastre in ferro ancorate al cemento), ossia una tettoia (definita, però dalla sig. -OMISSIS-, come pergolato) che, secondo i grafici di progetto dell’ing. -OMISSIS-, era addossata alle pareti E e S dell’edificio attoreo. Sicché il Comune, sospesa detta SCIA con nota del medesimo 7 agosto -poiché l’intervento era soggetto a PDC-, il successo giorno 19 emanò l’ordinanza n. 4 (non opposta), ingiungendo alla sig. -OMISSIS- la demolizione di tal tettoia ed il ripristino dello stato dei luoghi.
Il 15 gennaio 2016, la sig. -OMISSIS- propose l’istanza prot. n. 596/16, per ottenere una sanatoria delle varie opere finora costruite a ridosso dell’edificio stesso (in allegato, una nuova relazione tecnica), ammettendo che si trattava di opere mai assistite da titolo legittimante ed affermandone però la sua soggezione a mera CILA, come se fossero stati interventi d’edilizia libera. Con ordinanza n. 48 del 31 ottobre 2018, il Comune di (omissis) ha accertato, in capo alla sig. -OMISSIS-, la realizzazione di opere edili abusive (gazebo ad E del fabbricato, in legno lamellare costituito da travi e pilastri alti circa metri 3 e avente dimensioni in pianta pari a ca. m 5 x m 5; porticato ad E del fabbricato, costituito da pilastri e travi in legno lamellare larghi ca. m 2,40 mt. circa ed altezza variabile tra m 2,65 e m 3,45; porticato a S del fabbricato costituito da pilastri e travi in legno lamellare di larghezza che varia tra m 1,40 e m 2,70 mt ed altezza variabile pari a m 3,45; piccola tettoia in legno con pilastri e travi, posta a N del fabbricato con dimensioni di m 2,40 x m 1,60, con altezza variabile tra m 2,15 e m 2,70, realizzata a copertura dei distributori automatici), ingiungendole la demolizione.
2. – Contro detta ordinanza e gli atti connessi la sig. -OMISSIS- è insorta avanti al TAR Campania, col ricorso NRG 104/2019.
Ella ha dedotto in via preliminare che le misure delle opere contestate erano differenti da quanto indicato nell’ordinanza e che alcuna comunicazione ex art. 7 della l. 7 agosto 1990 n. 241 le sarebbe stata inviata. Ciò posto, ella ha dedotto: a) al gazebo non è riconoscibile la natura di costruzione (allega la perizia tecnica dell’ing. -OMISSIS- che ha escluso la soggezione a PDF), fu realizzato ante 1967 con diverso materiale, fu oggetto della SCIA del 2011 (qual rifacimento del precedente, distrutto per avversità atmosferiche e rifatto così com’è oggi) ed era già in opera quando fu presentata la SCIA del 2014 per la costruzione del pergolato; b) il porticato fu oggetto dell’ordine di demolizione n. 4/2014, mentre il relativo procedimento penale è stato archiviato nel 2018; c) la piccola tettoia in legno risale alla DIA del 2009 e serve a protezione di due distributori automatici di sigarette; d) l’illegittima irrogazione della sanzione demolitoria, trovandosi le strutture si trovano in zona D2, per la quale l’art. 4 delle NTA esclude dal calcolo dei volumi i porticati (e non considera gazebi e tettoie) e, comunque, essendo realizzabili con SCIA, sarebbero soggette alla sola sanzione pecuniaria; e) il difetto d’istruttoria e di motivazione.
L’adito TAR, con sentenza n. -OMISSIS- del 6 dicembre 2019, ha accolto l’impugnazione attorea solo per la piccola tettoia a protezione dei due distributori automatici e, per il resto, l’ha rigettata in quanto: I) – per ferma giurisprudenza, il carattere rigidamente vincolato del procedimento sanzionatorio rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento -l’opzione finale per il legislatore essendo la sanzione e l’eliminazione del manufatto abusivo- e, pur se valesse la tesi opposta, nella specie sarebbe comunque applicabile l’art. 21-octies, co. 2, I per. della l. 241/1990; II) – per ferma giurisprudenza, la valutazione dell’abuso edilizio implica una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, per cui non è possibile scomporne una parte per negarne l’assoggettabilità alla sanzione demolitoria e, nella specie, gli abusi realizzati, perché intesi ad ampliare la superficie utile dell’esercizio commerciale, soggiacciono a PDC e non certo a SCIA o a mera CILA; III) – anche ad ammetterne, come fa la ricorrente, una valutazione parcellizzata, il risultato non cambia, giacché nel caso in esame il gazebo fu costruito con struttura in legno prefabbricata, amovibile sì ma ancorata al suolo, sì da servire come ampliamento permanente della superficie fruibile dell’esercizio attoreo; IV) – i porticati realizzati ad E ed a S dell’edificio preesistenti non ne costituiscono mere pertinenze e soggiacciono quindi a PDC.
3. – Appella quindi la sig. -OMISSIS-, col ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza, per: A) l’omessa pronuncia sull’eccezione d’inammissibilità nei riguardi della memoria di costituzione e della memoria conclusiva del Comune intimato, per violazione dell’art. 73 c.p.a.; B) l’omessa pronuncia su indicazioni (DIA e non SCIA del 2009, relativa alla tettoia per i distributori automatici) e misurazioni indicate nell’ordine di demolizione; C) l’omessa pronuncia sull’eccezione attorea in sede di discussione orale, alla luce d’un recente arresto d’altro TAR, sulla consapevolezza del Comune, già da lungo tempo, sulla situazione di fatto (dal 2009 per il porticato e dal 2011 per il gazebo, pag. 6 del ricorso in appello), sì da ingenerare un legittimo affidamento nel proprietario e, in tal caso, l’obbligo di specificare l’interesse pubblico all’eliminazione dell’opera realizzata o ad indicare le ragioni della sua inerzia; D) la falsa interpretazione delle norme applicabili e della stessa natura del gazebo (in una prima versione esistente prima del 1967, cfr. fotografia all. 4 al ricorso di I grado), che in virtù del Glossario ex DM 2 marzo 1998 è opera d’edilizia libera (manufatti leggeri in strutture ricettive), funzionale all’attività commerciale, costruita con lo stesso materiale della citata tettoia e non soggetta alla sanzione demolitoria; E) non aver colto che il porticato lamellare non ebbe mai connotazioni illecite, come accertato in sede penale con ordinanza di proscioglimento non opposta e qui ribadito per il principio ne bis in idem, trattandosi di opera di minimo impatto e realizzata in forza della DIA del 2009; F) il difetto di motivazione e d’istruttoria.
Resiste in giudizio il Comune di (omissis), concludendo in modo articolato per il rigetto del ricorso in appello.
4. – L’appello è del tutto privo di pregio e va integralmente disatteso.
Anzitutto, non ha alcun senso l'”eccezione” attorea sulla pretesa inammissibilità della memoria di costituzione e di quella conclusiva del Comune per violazione dell’art. 73 c.p.a. Siffatta doglianza, già espressa nella memoria di replica depositata il 21 ottobre 2019 agli atti del primo grado e qui replicata, non è perspicua, né in sé, né con riguardo al contenuto delle memorie di costituzione del Comune in giudizio e conclusiva. Invero, in entrambe tali memorie s’appalesano ictu oculi ben chiare le ragioni della P.A. di opporsi ad una ricostruzione errata in fatto (di per sé non congruente con le istanze edilizie di volta in volta proposte dalla sig. -OMISSIS- dal 2009 in poi) ed in diritto (circa la natura effettiva delle opere abusive e dei corrispondenti titoli necessari). Pare al Collegio che pur adesso non è del tutto precisa la rappresentazione della vicenda contenziosa, ma, al di là di ciò, si deve concordare col Giudice di prime cure, laddove ha preferito entrare subito nella sostanza della causa, donde il superamento dell’eccezione stessa, attesa la sua genericità .
In secondo luogo, nemmeno si può condividere la censura d’omessa pronuncia del TAR sull’esatta consistenza del gazebo e della tettoia. La sentenza appellata ha prescisso dalle dimensioni di tali manufatti, indicate già nell’ordine di demolizione, per accertarne l’abusività a causa della loro unitaria, permanente e rilevante trasformazione del territorio, confermando in tal modo il giudizio d’illiceità recato dall’ordinanza comunale n. 48/2018. Al riguardo, in questa sede rettamente il Comune oppone all’appellante la totale irrilevanza dei lievi scostamenti delle misure riportate nella impugnata ordinanza, al di là che tal divergenza scaturisca non da una CTU, ma da una perizia del tecnico di parte, peraltro neppure giurata. Infatti, il Giudice di prime cure ha ben governato i principi giurisprudenziali attagliati al caso di specie, a partire dall’obbligo, per P.A. e Giudice amministrativo, di valutare unitariamente la natura e gli effetti degli illeciti edilizi, al fine di non “… scomporne una parte per negare l’assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria …”, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 8 maggio 2018 n. 2738; id., 7 novembre 2019 n. 7601).
5. – Si duole ancora l’appellante che il TAR non abbia pronunciato sulla di lei eccezione, formulata in sede di discussione orale alla luce d’un recente arresto d’altro TAR, sulla consapevolezza del Comune, già da lungo tempo, sulla situazione di fatto (dal 2009 per il porticato e dal 2011 per il gazebo, pag. 6 del ricorso in appello). A suo dire, ciò avrebbe ingenerato un legittimo affidamento nel proprietario e, in tal caso, resterebbe l’obbligo per il Comune di specificare l’interesse pubblico all’eliminazione dell’opera realizzata o ad indicare le ragioni della sua inerzia.
La questione dell'”eccezione” sul preteso legittimo affidamento dell’appellante, indotto dal ritardo comunale nell’esercizio del potere repressivo, è inammissibile tanto in rito, quanto in merito.
In realtà, a parte che non si riscontra alcunché a tal riguardo nei verbali del giudizio di primo grado, si tratta d’un nuovo motivo di primo grado fatto valere tardivamente in appello.
Ma pur a seguire tal tesi nel merito, ancora da ultimo la Sezione (cfr. Cons. St., VI, 29 dicembre 2020 n. 8501, ma cfr. pure id., 23 ottobre 2020 n. 6443), ha ribadito il proprio fermo orientamento secondo cui, in materia di abusi edilizi, la P.A. ha l’obbligo di adottare l’ordine di demolizione per il sol fatto d’aver riscontrato l’esistenza di opere abusive che soggiacciono a tal regime sanzionatorio. Sicché non è prospettabile in generale alcun affidamento (né legittimo, né di mero fatto) in capo al proprietario a scampare dalla sanzione relativa al tipo d’abuso edilizio commesso, né che questi possa dolersi dell’eventuale ritardo con cui la P.A. abbia emanato il provvedimento repressivo. Il provvedimento sanzionatorio non richiede neppure una particolare motivazione (essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata), né si impone una comparazione previa dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso (che è in re ipsa) con l’interesse del privato proprietario del manufatto illecito, neppure quando l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso (cfr., per tutti, la ricapitolazione di tutti i principi sulle sanzioni urbanistiche contenuta in Cons. St., 10 gennaio 2020 n. 254).
6. – Per quel che concerne la tettoia (o sarebbe meglio dire: il porticato posto attorno ai lati E e S del fabbricato principale), essa NON formò oggetto della DIA del 2009, come ben si vede dalla ricostruzione dei fatti di causa.
Fu invece la stessa appellante a chiedere (15 gennaio 2016) la sanatoria delle varie opere fin a quel momento costruite a ridosso dell’edificio stesso, con ciò in pratica ammettendo che il porticato non fosse assistito da titolo legittimante, non avvedendosi, però, che con l’ordinanza di demolizione n. 4 del 19 agosto 2014 (non opposta), il Comune aveva già represso per tempo tale porticato, oggetto della SCIA del 7 agosto 2014.
È solo da soggiungere che esso era stato già realizzata prima di quella data, quando fu rinvenuto in situ dalla Polizia locale di (omissis). Nella consistenza attuale, descritta dal CTP ing. -OMISSIS-, se ne deve invece affermare la natura non pertinenziale, ma di vero e proprio incremento permanente di superficie utilizzabile per tal esercizio. È jus receptum il principio (cfr., funditus Cons. St., II, 25 maggio 2020 n. 3329; nonché id., VI, 14 maggio 2019 n. 3133; id., II, 30 novembre 2020 n. 7601; id., VI, 27 gennaio 2021 n. 813) in virtù del quale, ai fini edilizi, la realizzazione di una tettoia non costituisce un intervento di natura pertinenziale e necessita, quindi, di un titolo edilizio, qualora sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata da un precedente edificio, o sia realizzata un’opera qualsiasi che ne alteri la sagoma.
Come si vede nella specie, entrambi i presupposti ricorrono affinché il porticato attoreo soggiaccia al regime del PDC, essendo un’opera permanente e nuova, addossata ed in aggiunta al fabbricato principale (di cui altera la sagoma) e ampliativa in ogni tempo della capacità ricettiva dell’esercizio Bar – Tabacchi attoreo. Oggi, l’appellante afferma la soggezione del porticato a mera CILA ex art. 6-bis del DPR 380/2001, quasi fosse un’attività di edilizia libera o una mera pertinenza. Ma ella, da un lato, non s’avvede che la peculiare natura giuridica della CILA non preclude alla P.A. l’esercizio degli ordinari poteri sanzionatori ove l’opera realizzata in attività libera non coincida con l’attività ammessa. Dall’altro lato, ella non coglie il particolare rigore con cui la giurisprudenza legge (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 3 giugno 2019 n. 3716; id., II, 22 dicembre 2020 n. 8313) il concetto di pertinenza urbanistica, riconoscendolo soltanto in quelle opere edilizie sì preordinate al servizio di un edificio, ma sfornite d’un autonomo valore di mercato e prive d’un proprio carico urbanistico, cose, queste, entrambe non rinvenibili nel predetto porticato.
Scolorano allora, a parte l’autonomia valutativa della P.A. nella qualificazione degli illeciti edilizi, tutte le questioni sulla pretesa divergenza giuridica tra l’ordinanza n. 48/2018 e l’archiviazione del parallelo giudizio penale, avvenuto sì l’11 agosto 2018, ma solo per prescrizione, quindi, senza che il GIP abbia statuito sulla liceità edilizia delle opere stesse.
7. – Non a diversa conclusione ritiene il Collegio di pervenire con riferimento alla natura del gazebo sito di fronte all’ingresso dell’esercizio commerciale dell’appellante.
Già con la memoria del 21 ottobre 2019 in primo grado, ella aveva precisato che il gazebo esisteva in situ prima del 1967, con pari dimensione e nella stessa posizione in cui si trova attualmente. Tale opera fu poi adeguata con la SCIA n. 1766/2011, per esser poi rifatta nella sua attuale consistenza, a seguito dei danni, compreso il disancoraggio, derivanti da un evento atmosferico straordinario. Ora, dall’unica fotografia rinvenibile nel PAT, a prima vista risalente alla metà degli annà 60 del secolo scorso, s’evince uno scorcio di gabbiotto metallico alquanto più basso dell’attuale porta d’ingresso all’esercizio commerciale attoreo, sita a SX del portoncino del fabbricato principale. Ma agli occhi del Collegio, in disparte l’obbligo dell’appellante di dimostrare con serietà e rigore il tempo della costruzione e le specifiche caratteristiche di essa (e non il contrario, come dice, sbagliando, anzi contraddicendosi, l’appellante a pag. 11 del ricorso in epigrafe), è comunque irrilevante che l’opera fosse lì da prima del 1967, rilevandone piuttosto la sua sostituzione con quella oggetto della SCIA del 2011 e, in particolare, le sue attuali consistenza e funzione.
Ebbene, è fermo in giurisprudenza (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 4 settembre 2013 n. 4438; id., VI, 25 gennaio 2017 n. 306; id., II, 3 settembre 2019 n. 6068) l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come struttura temporanea. Come si vede, quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall’obbligo del possesso del PDC, non è solo la peculiare leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo.
Ebbene, l’impugnata sentenza ha dato specifica contezza dell’impossibilità d’assimilare l’opera realizzata dall’odierna appellante ad un gazebo propriamente detto, per la definizione evincibile dai citati arresti invece ad ospitare in maniera permanente gli avventori della struttura, in ampliamento della superficie fruibile dell’esercizio commerciale gestito dall’appellante. Né ella smentisce in fatto tali considerazioni, poiché ha affermato nel ricorso al TAR che “… il gazebo veniva costruito con struttura in legno prefabbricata, semovibile ed ancorata al suolo con bulloni facilmente svitabili…”, ossia elementi che ne escludono le caratteristiche dell’effettiva precarietà ed un uso limitato nel tempo.
Tal ultimo argomento s’appalesa dirimente: a parte che la superficie occupata dal gazebo non è inferiore a mq 20, in ogni caso l’area d’intervento ricade in zona E – agricola di PRG. Ma il relativo R.E.C. non ammette opere comunque infisse al suolo a distanza inferiore a m 20 dal ciglio stradale e, poiché detto gazebo è funzionalmente infisso al suolo sine die -soddisfacendo un’utilità di tipo economico non limitato ad un dato periodo ed anch’essa, quindi, di fatto non precaria-, esso non può restare in quel luogo ed in quelle dimensioni. Infatti, l’area non consente alcuna edificazione ex novo, se non le ordinarie manutenzioni conservative dello stabile già esistente.
8. – In definitiva, l’appello va interamente respinto, anche con riguardo all’insussistente difetto di istruttoria. Tutte le questioni testé vagliate esauriscono la vicenda sottoposta all’esame della Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. e gli argomenti di doglianza non esaminati espressamente sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
Le spese del presente grado di giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. VI), definitivamente pronunciando sull’appello (ricorso NRG 3766/2020 in epigrafe), lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento, a favore del Comune resistente e costituito, delle spese del presente grado, che sono nel frattempo liquidate in Euro 5.000,00 (Euro cinquemila/00), oltre IVA ed accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità delle parti.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 4 febbraio 2021, con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere, Estensore
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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