Violenza sessuale e la coscienza di costringere

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 10 luglio 2019, n. 30407.

La massima estrapolata:

Con riferimento al reato di violenza sessuale, la coscienza di costringere, con violenza o minaccia, la vittima del reato a subire o compiere atti sessuali è consapevolezza del dissenso di quest’ultima. Pertanto l’errore sul valore sintomatico delle manifestazioni esterne di resistenza del soggetto passivo non è che un reato putativo per errore sul fatto che costituisce il reato, cioè causa impeditiva del dolo, non una causa putativa di esclusione dell’antigiuridicità del fatto, come sarebbe se il dissenso della persona offesa non fosse elemento costitutivo della fattispecie. Il soggetto attivo ha l’onere di provare che il fatto da lui percepito in un determinato modo, ha fatto sorgere in lui, nonostante l’uso della normale diligenza, la ragionevole certezza dell’esistenza del consenso.

Sentenza 10 luglio 2019, n. 30407

Data udienza 23 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACETO Aldo – Presidente

Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – rel. Consigliere

Dott. GAI Emanuela – Consigliere

Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 07/09/2018 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. SEMERARO LUCA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. SECCIA DOMENICO;
Il Proc. Gen. Conclude per il rigetto del ricorso.
uditi i difensori:
Avv. (OMISSIS) per la parte civile;
Avv. (OMISSIS), anche in sostituzione dell’avv. (OMISSIS), per l’imputato;
Il difensore di parte civile si riporta alla memoria e nota spese gia’ depositate.
L’avvocato (OMISSIS) insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Bologna, con la sentenza del 7 settembre 2018, ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Bologna il 30 gennaio 2018 alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione a (OMISSIS) per i reati ex articolo 605 c.p., articolo 61 c.p., n. 2 (capo b), articolo 609-bis c.p. e articolo 609-ter c.p., comma 1, n. 5-quater (capo c), articoli 582-585 c.p., articolo 576 c.p., n. 1 e articolo 61 c.p., n. 2 (capo d).
(OMISSIS) e’ stato condannato per aver privato della liberta’ sessuale (OMISSIS), coniuge separato; dopo averla incontrata a cena, la costrinse a permanere nell’auto, di cui chiuse lo sportello violentemente, contro la volonta’ della donna, partendo con l’auto verso la sua abitazione. Quindi, dopo averla portata all’interno della sua abitazione, la minaccio’ e poi la colpi’ afferrandole il collo, gettandola sul divano e con un pugno al ventre, procurando cosi’ alla donna lesioni personali volontarie consistite nel trauma contusivo al rachide cervicale, risultate guaribili in 10 giorni.
Quindi, dopo aver posto in essere le minacce e le violenze, costrinse la donna ad avere un rapporto sessuale completo.
I fatti sono stati commessi in (OMISSIS).
2. I difensori di (OMISSIS) hanno proposto il ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna del 7 settembre 2018.
2.1. Con il primo motivo hanno dedotto i vizi della motivazione, quanto alla ritenuta attendibilita’ della persona offesa, e di violazione di legge in relazione all’articolo 605 c.p. quanto alla sussistenza della condotta limitativa della liberta’ personale o all’idoneita’ a ledere il bene giuridico protetto.
La Corte di appello non avrebbe valutato un dato, messo in rilievo con l’appello e riconosciuto dalla persona offesa, costituito dall’iniziale riaccompagnamento della ex moglie fin sotto la sua abitazione, che sarebbe in contrasto con la volonta’, avuta sin dall’inizio, secondo la corte territoriale, di privare della liberta’ personale la vittima per abusarne poi sessualmente; l’aver riaccompagnato a casa la persona offesa avrebbe potuto mettere a repentaglio il piano, consentendo la fuga o l’intervento di terzi, sicche’ farebbe escludere la ricostruzione della Corte di appello.
La corte territoriale non avrebbe poi valutato alcune circostanze di fatto indicate nell’appello che rileverebbero ai fini della valutazione dell’insussistenza della privazione della liberta’ personale: la persona offesa ha rappresentato di aver aperto la portiera dell’auto, una volta giunti sotto l’abitazione, sicche’ avrebbe potuto uscire e dirigersi verso casa; la persona offesa invito’ il ricorrente ad abbassare la voce per non svegliare la figlia: cio’ confermerebbe quanto riferito dall’imputato sul fatto che fu la persona offesa a chiedere di spostarsi da sotto l’abitazione per poter continuare a discutere; la donna ebbe sempre con se’ il suo cellulare.
La Corte di appello avrebbe motivato su quanto avvenuto nell’appartamento ma non sulla avvenuta privazione della liberta’ personale, pur trattandosi di due delitti diversi; mancherebbe tale privazione avendo la donna sempre potuto allontanarsi. Ne’ puo’ ritenersi che la donna non si sia allontanata perche’ intimorita dal marito, avendo i ricorrenti rappresentato che la persona offesa si era opposta alle esuberanze del marito senza mostrare debolezze. Le dichiarazioni della parte civile, sul punto, non sarebbero state riscontrate come pure sarebbe stato opportuno in base ai principi espressi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione ex articolo 606 c.p.p., lettera e) con riferimento al travisamento delle dichiarazioni della persona offesa quanto al reato ex articolo 609-bis c.p., nonche’ il travisamento per omissione della prova costituita dai messaggi scambiati tra l’imputato e la persona offesa nei momenti precedenti e successivi all’incontro i quali, se valutati, avrebbero costituito fonte di prova in grado di inficiare la ricostruzione della persona offesa.
I vizi della motivazione sarebbero relativi alla manifestazione del “simulato consenso” al rapporto sessuale da parte della donna ed alla percezione da parte dell’imputato di tale consenso. Non sarebbe stata data risposta al motivo di appello con il quale si chiedeva di operare una valutazione complessiva delle dichiarazioni della donna, anche di quelle parti sconfessate dalle prove documentali, per la connessione delle parti del racconto; tale valutazione avrebbe consentito di rilevare che il ricorrente si sia accorto solo a rapporto concluso che il consenso della persona offesa era simulato.
La Corte di appello non avrebbe valutato che il tentativo di riconciliazione tra i coniugi, dimostrato dai messaggi su WhatsApp e dal racconto dell’imputato, era in contraddizione con il racconto della persona offesa – sulla fine della storia e la paura di incontrare il marito da sola – e cio’ incideva sull’attendibilita’ della parte civile, anche per il contrasto tra quanto rappresentato in querela e la deposizione dibattimentale e la necessita’ di un piu’ approfondito vaglio delle dichiarazioni della donna, costituitasi parte civile. I messaggi dimostrerebbero che i due si stessero nuovamente frequentando, che l’incontro del 4 ottobre 2016 prevedeva una cena romantica ed un pianificato rapporto sessuale, con l’idea di riprendere la convivenza entro Natale; la Corte di appello non avrebbe valutato la discrasia tra i messaggi e le dichiarazioni dibattimentali e verificato la veridicita’ del racconto della persona offesa.
La Corte di appello non avrebbe neanche valutato i messaggi del 5 ottobre 2016, successivi al fatto, che invece dimostrerebbero il riscontro alla mancata percezione da parte dell’imputato della riserva mentale della persona offesa durante il rapporto sessuale, per le frasi di amore che sarebbero state espresse durante il rapporto.
La motivazione della sentenza impugnata, quanto alla rilevanza del momento in cui il ricorrente si rese conto della passivita’ della donna al rapporto, sarebbe poi illogica, perche’ non relativa a quando l’imputato avesse percepito effettivamente la riserva mentale della donna; per i ricorrenti, le rimostranze dell’imputato sulla passivita’ della donna ed i messaggi del giorno successivo dimostrerebbero che l’imputato non si era configurato che l’unione fosse una violenza sessuale.
Per altro, la persona offesa, nei messaggi successivi, si lamenterebbe delle lesioni ma non della violenza sessuale. Si rileva che tra le lesioni ed il rapporto sessuale era passato del tempo, e che il rapporto sessuale era avvenuto quando l’imputato si era calmato e senza alcuna violenza per costringere la persona offesa a subirlo.
Si deduce poi l’illogicita’ della motivazione quanto al consenso “fiacco” prestato perche’ il contenuto della sentenza, pagine 6, par. 6.2.1., 7 par. 6.4.2., 8 par. 6.5., non coinciderebbe con le dichiarazioni della persona offesa (udienza del 14 novembre 2017, pag. 21 e ss.) e con quanto riportato nella sentenza di primo grado.
Con il motivo di appello si segnalo’ il contrasto tra la querela, nella quale si faceva riferimento alla simulazione del consenso condito da parole d’amore, e le dichiarazioni dibattimentali che invece facevano riferimento all’insistenza del ricorrente, ai rifiuti espressi, al trascinamento della vittima sino alla camera da letto; la Corte di appello avrebbe ritenuto tale discrasia il frutto di una irrilevante incongruenza temporale e tra il dissenso ed il simulato consenso avrebbe ritenuto esistente un consenso tiepido e passivo, senza valutare le prove prodotte dalla difesa. Vi sarebbe stato anche un travisamento della prova dichiarativa, poiche’ la persona offesa avrebbe parlato di espresso dissenso e non di consenso simulato.
2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge, con riferimento agli articoli 47 e 609-bis c.p., e della motivazione quanto alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ed alla percepibilita’ del consenso simulato. La Corte di appello avrebbe ritenuto esistente il consenso della persona offesa, ma viziato da riserva mentale, e non un esplicito dissenso, come affermato dalla parte civile.
Si rileva di aver indicato gli elementi si cui si fonderebbe l’errore percettivo dell’imputato, che escluderebbe il dolo, costituiti dagli sms del 5 ottobre 2016, dalla contraddittorieta’ delle dichiarazioni della persona offesa sulla mancanza di un espresso dissenso e sull’aver finto di accondiscendere al desiderio dell’ex marito, sulle modalita’ dei rapporti tra coniugi, caratterizzati da liti violente e repentine pacificazioni con ripresa della frequentazione e dell’attivita’ sessuale, come accaduto anche il giorno dei fatti, secondo quanto emerge dai messaggi prodotti. Questi elementi dimostrerebbero che il ricorrente non si avvide della perturbazione della compagna, che erano cessate le violenze di cui alle lesioni e che la proposta del rapporto sessuale era l’epilogo della lite, in considerazione dei rapporti altalenanti tra i due. Vi sarebbe stata la mancanza di prova sulla manifestazione del dissenso da parte della donna ed un errore sul fatto rilevante per escludere il dolo ex articolo 47 c.p..
Per quanto la sentenza concluda per la sussistenza di un dissenso, dissimulato con un consenso chiaramente percepibile come viziato, in quanto coartato da violenza e minaccia incombenti, percepito dal ricorrente, la Corte di appello non avrebbe dato conto degli elementi dai quali desumere che l’imputato si fosse rappresentato, ogni oltre ragionevole dubbio “l’inganno della compagna” ed abbia perseverato nell’azione.
L’errore di diritto consisterebbe nell’aver ritenuto sussistente apoditticamente il dolo, pur ritenendo in punto di fatto che la donna abbia espresso un consenso simulato, omettendo ogni accertamento sull’errore di fatto determinato da colpa dell’imputato nell’interpretazione del consenso.
2.4. Con il quarto motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione quanto al rigetto dell’applicazione della circostanza attenuante di cui all’articolo 609-bis c.p., comma 3. La Corte di appello avrebbe fondato il rigetto sulle condotte tenute prima del fatto, senza effettuarne una valutazione globale. Si rileva che il rapporto non e’ stato doloroso o umiliante; la persona offesa ha dichiarato che il ricorrente si era comportato come se nulla fosse accaduto, intrattenendo un normale rapporto sessuale. La minore gravita’ emergerebbe dai messaggi del 5 ottobre 2016, nei quali non vi sono riferimenti alla costrizione a subire gli atti sessuali.
La stessa Corte di appello, nel par. 6.4.6. avrebbe spiegato come la donna abbia ritenuto maggiormente pericolosi gli atti lesivi, e cio’ dimostrerebbe che la donna non ha percepito come brutale o particolarmente lesiva la condotta, anche perche’ i rapporti tra i due erano normali anche se altalenanti ed avevano in precedenza gia’ avuto rapporti sessuali. La Corte di appello avrebbe da un lato ammesso la minore gravita’ dall’altro rigettato l’applicazione della circostanza attenuante, con motivazione contraddittoria ed illogica.
Altro profilo di contraddittorieta’ deriverebbe dall’avere la Corte di appello rigettato la domanda della parte civile volta ad ottenere un maggior danno collegato alla sussistenza di una sindrome, perche’ ritenuta di dubbia connessione causale con il fatto. La Corte di appello non avrebbe preso in esame gli elementi soggettivi quale la equivoca situazione discendente dalla simulazione del consenso, su cui pero’ si fonda la decisione.
2.5. Sono poi stati depositati motivi aggiunti.
2.5.1. In relazione al secondo motivo (punto 1.1.), si rileva che la querela sarebbe utilizzabile perche’ contenuta nella relazione del medico legale prodotta all’udienza del 30 gennaio 2018 ed acquisita con il consenso delle parti, con contestuale rinuncia all’esame del medico legale da parte della parte civile, percio’ poteva essere valutata quale mezzo di prova anche ai fini della dimostrazione dell’inattendibilita’ della persona offesa. Tale utilizzabilita’ sarebbe stata pretermessa dalla Corte di appello che si sarebbe limitata a valutare solo l’inutilizzabilita’ dell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che in sede cautelare aveva escluso la sussistenza della gravita’ indiziaria e non avrebbe tenuto conto del contenuto della querela, per il contrasto con le dichiarazioni rese in dibattimento, ai fini della valutazione dell’inattendibilita’ della persona offesa.
2.5.2. Si segnala poi l’esistenza di altri contenziosi civili e penali (udienza 14 novembre 2017 pag. 6-7) e che le dichiarazioni solo il frutto di rancore e condizionate dalle ingenti pretese economiche della parte civile.
2.5.3. Con il punto 1.2., si deduce che la Corte di appello avrebbe ritenuto l’assenza di uno spazio-temporale di rasserenamento tra l’aggressione e l’azione diretta ad ottenere il rapporto sessuale, la conferma delle dichiarazioni della parte civile e l’assenza di elementi favorevoli all’esame dell’imputato, mediante il travisamento di alcuni dati probatori. Sarebbe stato travisato il dato temporale relativo alla fine della cena tra i due; l’indicazione delle ore 21.30 sarebbe stata effettuata dalla Corte di appello solo in base al contenuto della querela, non avendo la parte civile riferito il dato nelle dichiarazioni dibattimentali, e sarebbe errato. Il riferimento alle ore 21.30 sarebbe relativo all’arrivo a casa del ricorrente della coppia, e non, come indicato dalla Corte di appello, al momento dell’uscita dal ristorante.
Sarebbe errato anche l’orario indicato dalla Corte di appello per il ritorno a casa della donna, indicato nelle 23.00: l’unico dato rinvenibile sarebbe le ore 23.30, orario in cui, secondo quanto riportato in querela, il ricorrente riaccompagno’ la parte civile a casa.
Il ricorrente interpreta il riferimento effettuato dalla parte civile nel senso che i due partirono da casa di (OMISSIS) alle 23.30, “secondo il linguaggio comune corrente”. Tale orario sarebbe confermato dal successivo messaggio delle ore 23.53 e dalla distanza tra le due abitazioni.
La Corte di appello avrebbe poi valorizzato l’esame dell’imputato solo nella parte in cui consentiva di escludere lo spazio di rasserenamento tra l’uomo e la donna ed omesso di valutarlo nel suo complesso, anche solo per ritenerlo inattendibile, in particolare laddove l’imputato indico’ che tra l’aggressione ed il rapporto era passata un’ora, durante la quale la coppia aveva visto la tv; si riporta una parte dell’esame dell’imputato. Si afferma quindi che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, dalle ore 21.30 e le ore 23.30 vi rientra l’ingresso nella casa di (OMISSIS) e tutte le condotte tenute fino all’uscita dall’appartamento, sicche’ vi sarebbe stato lo spazio-temporale tale da determinare la discontinuita’ tra l’aggressione ed il rapporto sessuale.
2.5.4. La Corte di appello (1.3.) avrebbe poi omesso di valutare quanto segnalato dall’appellante circa il passaggio dal salotto alla camera da letto avvenuto senza forzature; la Corte di appello avrebbe erroneamente dato maggiore credibilita’ a quanto riferito in dibattimento rispetto a quanto indicato in querela dalla parte civile, in cui la coercizione era relativa solo all’ingresso in casa e non nella camera da letto, come invece indicato in dibattimento.
La motivazione sul punto sarebbe illogica, non avendo tenuto conto dell’utilizzabilita’ della querela e che in tale atto la parte civile indico’ che (OMISSIS) le chiese di seguirlo in camera da letto e la (OMISSIS), dopo avergli detto che lo amava e sarebbero stati insieme, lo segui’.
Il passaggio nella camera da letto sarebbe infatti decisivo per valutare la percezione del dissenso da parte del ricorrente, tenuto conto del dato temporale tra la lite ed il rapporto, della serenita’ sopraggiunta, dell’accoglimento della richiesta del ricorrente di andare in camera da letto.
La Corte di appello ha invece ritenuto credibile la versione resa in dibattimento nonostante le discrasie segnalate.
2.5.5. La Corte di appello sarebbe poi incorsa nel travisamento della prova anche nel valutare il messaggio inviato il giorno dopo dal ricorrente alla parte civile: la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che il messaggio sia la conferma del “dubbio preesistente”, mentre il dubbio sulla sincerita’ della parte civile si insinuo’ nel ricorrente solo dopo l’atto sessuale, quanto la parte civile chiese al ricorrente di essere riaccompagnata a casa, come risulta dalla querela.
La Corte di appello avrebbe poi estrapolato una sola frase di una conversazione con scambio di messaggi durato piu’ di un’ora, di cui si riporta parte nel ricorso, che dimostrerebbero che (OMISSIS) non aveva percepito il dissenso della donna al rapporto sessuale.
Si contesta poi la motivazione della Corte di appello sul perche’ (la vergogna) la donna non avrebbe riferito agli amici ed al pronto soccorso della violenza sessuale subita, rilevando che il fatto non e’ avvenuto con grave umiliazione e senza tener conto che si trattava dell’ex marito e non di un estraneo.
Si rileva poi che, proprio come richiesto dalla Corte di appello, da quanto dichiarato dalla parte civile in querela ed in dibattimento, vi fu un nuovo consenso al rapporto sessuale, rispetto a quello gia’ reso la mattina, al quale il ricorrente credette, scoprendo solo il giorno dopo che la donna gli aveva rivolto parole menzognere e per assecondarlo, come emergerebbe dai messaggi prodotti dalla difesa, a cui si fa riferimento nei motivi aggiunti.
2.5.6. Al punto 1.5. si contesta la motivazione della sentenza quanto al momento in cui il ricorrente si rese conto della passivita’ della donna al rapporto sessuale ed alla irrilevanza ai fini della sussistenza del reato; la Corte di appello avrebbe dato prevalenza alla versione dibattimentale della persona offesa, non utilizzando il difforme contenuto della querela e ritenendo attendibile la persona offesa sul punto nonostante il contrasto verta su un aspetto decisivo rispetto alla sussistenza del reato.
Sarebbe illogico ritenere la percezione della simulazione del consenso dalla doglianza sulla passivita’ del partner; ne’ la passivita’ della parte civile puo’ essere ritenuta un elemento obiettivo tale da far ritenere sussistente il dissenso, in base agli elementi di fatto prima evidenziati.
Se il ricorrente avesse avuto contezza del dissenso interiore della donna non avrebbe recriminato sulla sua passivita’ al termine del rapporto sessuale; cio’ confermerebbe dunque la mancata percezione del dissenso da parte del ricorrente.
La motivazione sarebbe allora illogica anche su tale aspetto, non essendo stato valutato il contrasto tra la versione resa nelle indagini preliminari e quella fornita in querela su un aspetto decisivo e avendo ritenuto la Corte di appello irrilevante l’accertamento sul momento in cui l’imputato ha espresso la doglianza sulla passivita’ della donna, momento decisivo per l’accertamento del dolo.
2.5.7. Al punto 1.6 si deduce illogicita’ manifesta della motivazione laddove ha ritenuto sussistente un atteggiamento aggressivo per tutto il tempo travisando il contenuto della querela nella quale la frase detta ringhiando e’ stata proferita dopo il rapporto sessuale e si riferiva solo alla delusione del ricorrente per la richiesta di essere accompagnata a casa dopo le frasi di amore a lui rivolte. Sarebbe illogico riferire la frase espressa al termine del rapporto in rapporto di continuita’ con l’ingresso in casa.
2.5.8. Al punto 1.7 si contesta la motivazione della sentenza quanto all’elemento soggettivo del reato. Dopo aver operato la propria ricostruzione del fatto, si ritiene illogica la motivazione della sentenza quanto al ritenuto dissenso dissimulato poiche’ non risulterebbe alcun gesto o frase della donna con il quale sarebbe stato espresso il dissenso ne’ che il ricorrente si fosse reso conto del dissenso. La stessa Corte di appello avrebbe ritenuto esistenti le manifestazioni di amore e di consenso che, per quanto finte, erano idonee ad indurre il ricorrente a non comprendere il dissenso interiore. Mancherebbe poi la motivazione sul perche’ tali manifestazioni avrebbero dovuto far percepire il dissenso.
Si ribadiscono poi le argomentazioni sul travisamento della prova quanto andato cronologico e la ricostruzione alternativa della difesa. L’eventuale colpa nell’errore sul fatto non avrebbe rilevanza poiche’ si procede per un delitto solo doloso. La Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul punto. La motivazione sarebbe quindi anche carente sul dolo ed illogica laddove richiede al ricorrente di rappresentarsi il dissenso nonostante le manifestazioni di consenso della donna ed il clima rasserenato. Tali profili non sarebbero stati valutati ai fini dell’assoluzione e della concessione della circostanza attenuante del fatto di lieve entita’.
2.5.9. Con il punto 1.8 si contesta illogicita’ della motivazione in relazione al rigetto della richiesta di applicazione dell’articolo 609-bis c.p.p., comma 3. La Corte di appello nell’affermare che i rapporti sessuali tra i coniugi erano sospesi da tempo avrebbe travisato il contenuto dei messaggi riportati nei motivi aggiunti (pag. 24) dai quali emergerebbe il contrario. Si contesta poi il passo della motivazione (pag. 9) sugli effetti del litigio al ristorante rilevando che dai messaggi emergerebbe che i coniugi stavano riprendendo a frequentarsi, che vi era un accordo inequivocabile per avere rapporti nella serata e per cercare di riprendere la convivenza, come risulterebbe dal testo dei messaggi riportati nei motivi aggiunti. Quanto poi al rigetto della applicazione della circostanza attenuante perche’ le modalita’ del rapporto sarebbero state connotate da coeva ed immanente violenza fisica, si ribadiscono le argomentazioni relative al travisamento della prova quanto al dato cronologico, alle dichiarazioni del ricorrente ed alla querela. La Corte di appello non avrebbe valutato i pregressi rapporti, il grado di coartazione della vittima, il consenso manifestato, le circostanze oggettive e l’entita’ della compressione della liberta’ sessuale.
2.5.10. Al punto 1.9 si ribadisce che illogicita’ della motivazione deriva dall’aver ritenuto la querela inutilizzabile e nell’affermare valutata nella motivazione solo nel senso funzionale all’accusa. La Corte di appello avrebbe ritenuto esistenti le discrasie tra la querela e le dichiarazioni dibattimentali e per salvare le seconde avrebbe ritenuto inutilizzabile la querela.
3. La parte civile ha poi depositato una memoria con la quale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo e’ manifestamente infondato.
1.1. Va preliminarmente rilevato che il ricorrente e’ stato condannato per la privazione della liberta’ personale avvenuta all’interno dell’auto perche’, come emerge dalla lettura della sentenza di primo grado, la privazione della liberta’ personale avvenuta all’interno dell’appartamento del ricorrente e’ stata ritenuta rientrante in quella strettamente necessaria per la consumazione del reato di violenza sessuale.
1.2. La Corte di appello ha correttamente ritenuto concretizzato il reato ex articolo 605 c.p.: ha ritenuto provato che il ricorrente abbia chiuso violentemente la portiera dell’auto, proprio quando la ex moglie aveva manifestato la volonta’ di scendere dal veicolo per tornare a casa, partendo poi a tutta velocita’. Dunque, la Corte di appello ha ritenuto di fatto irrilevante la circostanza che la donna apri’ lo sportello, posto che l’uscita dall’auto le fu impedita chiaramente dall’azione del ricorrente il quale scese dall’auto e chiuse violentemente la portiera, per poi ripartire a gran velocita’ subito dopo.
1.3. Va poi osservato che nella sentenza di primo grado e’ riportato che la persona offesa ha dichiarato che le fu impedito l’uso del cellulare: tale dato probatorio non risulta smentito, con le necessarie allegazioni, ne’ con l’appello ne’ con il ricorso per cassazione.
1.4. Quanto poi alla circostanza che renderebbe la dichiarazione dell’imputato attendibile, deve rilevarsi che il dato e’ del tutto ininfluente rispetto alla ratio decidendi, posto che la richiesta di abbassare la voce effettuata dalla persona offesa non destruttura il ragionamento della Corte di appello che ha ritenuto sussistere il reato in base all’azione successiva, consistita nell’impedire alla donna di scendere dall’auto, chiudendo con violenza la portiera e nell’allontanarsi a gran velocita’ dal posto, per recarsi nell’abitazione del ricorrente. Nel secondo viaggio verso casa, il ricorrente minaccio’ anche di “schiantarsi” e di ammazzare cosi’ tutti e due.
1.5. Le circostanze di fatto evidenziate nel ricorso sono poi relative alla condotta tenuta nell’appartamento e non hanno alcuna rilevanza rispetto al reato ex articolo 605 c.p. per le considerazioni gia’ espresse.
2. Quanto al secondo motivo, va preliminarmente rilevato che la sentenza di primo grado si fonda solo ed esclusivamente sulle dichiarazioni rese in dibattimento. Con l’atto di appello si chiese una rivisitazione del giudizio di attendibilita’ della persona offesa per il contrasto tra le dichiarazioni rese in dibattimento ed il contenuto della querela.
2.1. La Corte di appello ha rilevato che in primo grado non e’ stata effettuata alcuna contestazione per mettere in evidenza l’eventuale contrasto tra le dichiarazioni rese ed il contenuto della querela; che la querela, riportata nell’appello, era un atto delle indagini preliminari e pertanto solo mediante le contestazioni ed ai soli fini della valutazione dell’attendibilita’ della parte civile, poteva far ingresso in dibattimento.
La Corte di appello ha pertanto ritenuto che il materiale probatorio utilizzabile fosse costituito dalle sole dichiarazioni dibattimentali della parte civile, oltre che dalle altre fonti di prova legittimamente acquisite, in difetto di specifiche contestazioni.
In ogni caso, “per tuziorismo”, ha sommariamente valutato le discrasie, rispetto alla querela, affermate dalla difesa per negarne la portata.
2.2. Il ricorrente, solo con i motivi aggiunti, ha posto la questione che la querela farebbe parte del fascicolo processuale perche’ riportata nella relazione del medico legale alla cui acquisizione le altre parti non si opposero all’udienza del 30 gennaio 2018.
2.3. Tanto premesso, deve rilevarsi che la questione se la querela faccia parte del fascicolo del dibattimento e sia pertanto utilizzabile ai fini della decisione, e’ stata proposta per la prima volta con i motivi aggiunti in quanto non proposta con l’atto di appello ne’ con il ricorso per cassazione; in tali atti la difesa dell’imputato non ha mai affermato che la querela facesse parte del fascicolo del dibattimento per effetto del richiamo nella relazione del medico legale incaricato dalla parte civile.
Trattandosi in primo luogo di una questione relativa alla formazione del fascicolo del dibattimento, il motivo e’ inammissibile anche perche’ tardivamente proposto.
2.4. In piu’, deve rilevarsi che la relazione del medico legale ha la natura di consulenza tecnica: il fatto che sia stata acquisita con il consenso delle parti consente di valutare il contributo del medico legale di tipo tecnico-scientifico: solo in tali limiti la relazione poteva essere acquisita, non certo per la parte in cui all’interno della relazione sono riportati atti delle indagini preliminari per i quali vigono specifiche regole per l’ingresso nel fascicolo del dibattimento.
La querela, come atto procedimentale delle indagini preliminari, pacificamente non risulta acquisita con il consenso delle parti al fascicolo del dibattimento: per altro, se la difesa avesse voluto farla entrare tra gli atti a disposizione del giudice per la decisione, avrebbe dovuto richiederne l’acquisizione al momento della formulazione delle richieste di prova, ottenendo il consenso delle altre parti.
2.5. Va poi aggiunto che i reati sono tutti procedibili di ufficio, sicche’ l’acquisizione della querela non era necessaria neanche ai fini della valutazione della procedibilita’.
Il Tribunale di Bologna, proprio all’udienza del 30 gennaio 2018, ha ritenuto utilizzabili solo gli atti legittimamente acquisiti.
Pertanto, i motivi di appello con i quali si contestava l’attendibilita’ della parte civile per il contrasto tra le dichiarazioni dibattimentali e la querela erano inammissibili, con conseguente inammissibilita’ anche dei motivi di ricorso.
2.6. L’inammissibilita’ si estende poi ai motivi aggiunti, sempre relativi alle questioni dedotte relative al contrasto con la querela: tali questioni, essendo inammissibili, non devono essere esaminate.
3. Il secondo, per il resto, ed il terzo motivo sono manifestamente infondati.
3.1. La Corte di appello ha preso in esame i motivi di appello ed ha confermato il giudizio di attendibilita’ della persona offesa: la corte territoriale ha messo in rilievo che le divergenze riguardassero in realta’ solo il valore delle parole proferite dalla donna e che, nell’ottica difensiva, dimostrerebbero che il ricorrente avesse ritenuto reale ed effettivo il consenso espresso dalla parte civile, essendo cosi’ caduto in errore sul fatto, al piu’ per colpa.
3.2. Nel ricorso ci si dilunga sulle parole che la donna avrebbe proferito prima del rapporto sessuale: parole che avrebbero potuto essere interpretate come manifestazioni di consenso, seppure apparente, e che avrebbero potuto essere in concreto percepite dal ricorrente quali esplicite adesioni alla consumazione del rapporto sessuale.
Orbene, i motivi sul punto sono manifestamente infondati in fatto ed in diritto.
Nell’appello si e’ invocato il principio di diritto espresso da Cass. Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016, S., Rv. 268186 – 01, per il quale ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, e’ sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico; ne consegue che e’ irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volonta’ promananti dalla parte offesa.
3.3. Dalla lettura della sentenza di primo grado, richiamata da quella di appello, ma anche da quanto riportato nello stesso atto di appello, emerge che la parte civile, dopo essere stata percossa con una notevole violenza in piu’ momenti, mentre il ricorrente era ancora sopra di lei con il pugno alzato, ed al mero fine di calmare l’imputato, gli disse “stai tranquillo, ti amo”. La donna a tal punti riusci’ a divincolarsi scoppiando in un pianto dirotto.
Dalla sentenza di primo grado emerge altresi’ che il ricorrente replico’ che se avessero fatto l’amore sarebbe passato tutto e che l’uomo si era interposto quando la donna si era diretta verso la porta. Si era cioe’ messo tra la porta e la parte civile, per impedirle di uscire.
A quel punto, temendo ulteriori reazioni e comprendendo di non avere alternative, la parte civile non oppose resistenza quanto l’uomo la prese per un braccio’ e la trascino’ in camera da letto. Ne’ si oppose quando l’uomo la penetro’.
Inoltre, durante il rapporto sessuale, secondo il racconto reso dalla donna in dibattimento, l’imputato noto’ che ella era rimasta ferma; allora si fermo’ e le disse che non era vero che lei voleva fare l’amore e lo stava solo prendendo in giro. Dopo di che l’aveva nuovamente penetrata fino a raggiungere l’orgasmo.
3.4. Orbene, dalle sentenze di merito risulta che la frase pronunciata dalla donna fu “stai tranquillo, ti amo”: dunque, una frase che neanche lontanamente concretizza la manifestazione del consenso ad avere un rapporto sessuale. Per altro, la frase fu pronunciata in una condizione di totale soggezione, mentre era in atto la violenza fisica con l’uomo posto sopra la vittima con il pugno alzato.
Una condizione in cui e’ insussistente l’invocata “riserva mentale”; la riserva mentale richiede che il dichiarante emetta intenzionalmente una dichiarazione che non corrisponde a quello che vuole ma che presuppone una libera scelta da parte del dichiarante: qui invece le parole, per altro non relative al consenso ad avere il rapporto sessuale, sono solo il frutto della violenza in atto, della condizione assoluta di soggezione della vittima e della totale assenza di liberta’ di autodeterminazione.
3.5. Dalla descrizione dei giudici di merito risulta in realta’ che alcun consenso esplicito e’ stato espresso al rapporto sessuale dopo che la donna subi’ la privazione della liberta’ personale e le violenze.
La Corte di appello ha infatti affermato che e’ impossibile parlare di consenso libero ed ha ritenuto infondata la tesi difensiva sulla percepibilita’ del dissenso.
La descrizione del fatto, confermata dalla Corte di appello, implica proprio l’esistenza di circostanze di fatto inequivoche sull’esistenza del dissenso.
Anche ove il rapporto sessuale sia avvenuto dopo un momento di calma, dopo la privazione della liberta’ personale e le violenze fisiche subite dalla donna, emerge che alla richiesta dell’uomo di avere un rapporto sessuale, collegato per altro alla cessazione di quanto stava accadendo (“se avessero fatto l’amore sarebbe passato tutto”, si dice in sentenza), la parte civile tento’ di andare verso la porta ma il ricorrente le si mise davanti. La parte civile non segui’ il ricorrente spontaneamente in camera da letto, ma fu presa per un braccio e ivi condotta.
3.6. Anche le modalita’ del rapporto denotano non solo l’esplicita assenza del consenso, ma anche la chiara percezione da parte del ricorrente dell’assenza del consenso: la parte civile fu spogliata solo nella parte inferiore.
Inoltre, secondo quanto riferito dalla donna in dibattimento, durante la prima penetrazione l’uomo si accorse della totale passivita’ della donna, e le disse che non era vero che lei voleva fare l’amore e lo stava solo prendendo in giro.
In tal caso dunque, secondo la Corte di appello, vi fu un’esplicitazione chiara del dissenso, mediante la accertata passivita’ della donna al rapporto sessuale: il ricorrente, ciononostante, prosegui’ la condotta.
3.7. Orbene, rispetto a tale ricostruzione del fatto ed alle logiche conclusioni a cui i giudici di merito correttamente sono giunti, e’ stata del tutto corretta la valutazione dei messaggi scambiati in precedenza al fatto. In sostanza, la corte territoriale ha ritenuto i messaggi, che contenevano anche il consenso della donna ad avere rapporti sessuali, del tutto irrilevanti a fronte del totale cambiamento che si verifico’ con la lite al ristorante, seguita dalla privazione della liberta’ personale e della violenta aggressione all’interno dell’appartamento.
Semmai, i messaggi precedenti dimostrano come il ricorrente avesse la finalita’ di giungere al rapporto sessuale e come prosegui’ ad ogni costo su tale strada, realizzando tutte le condotte a lui attribuite, in parte non negate.
Proprio dal contenuto dei messaggi citati dalla difesa emerge che la parte civile fu moralmente colpita proprio dal ritorno della violenza, dall’impossibilita’ di ottenere quel cambiamento dell’uomo che avrebbe consentito la ripresa della relazione.
Da qui l’assoluta irrilevanza del pregresso consenso prestato all’uomo che poi l’avrebbe afferrata per il collo, fino a farle perdere i sensi, e colpita con un pugno al ventre.
3.8. Analogamente, la Corte di appello ha preso in esame un solo messaggio del 5 ottobre 2018 perche’ lo ha ritenuto una conferma della ricostruzione effettuata: ricostruzione, sulla consapevole percezione del dissenso, non intaccata dal contenuto dei messaggi.
Rispetto alla logica argomentazione della Corte di appello, i messaggi successivi sono stati di fatto ritenuti irrilevanti ai fini della valutazione della percezione del dissenso da parte del ricorrente, perche’ in contrasto con il comportamento tenuto e con la ritenuta – dai giudici di merito – volonta’ di portare a termine il rapporto sessuale, nonostante il litigio iniziato al ristorante e proseguito con una progressione violenta.
3.9. Va poi osservato che la ratio della decisione della Corte di appello e’ quella di escludere l’esistenza di un valido e libero consenso, come chiaramente e’ affermato nel par. 6.2.1.; che la corte territoriale ha ripreso quanto indicato nella ricostruzione del fatto effettuata dal Tribunale allorche’ ha fatto riferimento ad un consenso tiepido e passivo espresso per salvarsi la vita da un pericolo incombente.
Un “ti amo” espresso solo nel corso delle condotte violente ed al mero fine di far cessare le percosse.
3.10. Il terzo motivo e’ poi manifestamente infondato anche in diritto.
E’ erroneamente invocato il “ragionevole dubbio” sull’errore sul fatto.
3.10.1. Come affermato da Cass. Sez. 3 n. 52835 del 19/06/2018, P., Rv. 274417 – 03, il dubbio sul dissenso e’ dubbio sulla sussistenza del fatto, non sull’esistenza di una causa di esclusione dell’antigiuridicita’.
Il dissenso deve vertere sugli atti sessuali e, risolvendosi in un fenomeno di indole psichica, si riferisce ad un’attivita’ che e’ propria del soggetto passivo, cosicche’ esso e’ estraneo all’attivita’ psichica del soggetto attivo del reato.
Da cio’ deriva che il dissenso e’ fuori dalla valutazione degli elementi soggettivi del reato, e dunque del dolo, i quali attengono esclusivamente all’attivita’ psichica dell’autore del delitto.
Siccome la coscienza di costringere, con violenza o minaccia, il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali e’ anzitutto consapevolezza del dissenso di questo, l’errore sull’atteggiarsi della volonta’ dell’altro soggetto (in particolare, l’errore sul valore sintomatico delle manifestazioni esterne di resistenza di costui) non e’ che un reato putativo per errore sul fatto che costituisce il reato, cioe’ causa impeditiva del dolo, non una causa putativa di esclusione dell’antigiuridicita’, come avverrebbe se il dissenso dell’offeso non fosse elemento costitutivo della fattispecie.
Logica conseguenza di cio’ e’ poi che, nel caso di errore sul fatto costitutivo del reato (ossia sul dissenso), la circostanza che un soggetto abbia agito presupponendo una realta’ diversa da quella effettiva non e’ rilevante se non risulta pienamente provata, e l’onere della prova o, quantomeno l’onere di allegazione, incombe sull’imputato, perche’ l’errore sul fatto, facendo venir meno il dolo, trasferisce a carico di chi ne assume la mancanza l’onere di comprovare il relativo assunto o di allegare elementi utili a desumere la mancata integrazione di tale essenziale requisito del reato, dovendo l’agente dare conto che un fatto, da lui percepito in un determinato modo, ha fatto sorgere in lui, nonostante l’uso della normale diligenza, la ragionevole certezza dell’esistenza del consenso.
3.10.2. Va infine osservato che la Corte di appello ha dedicato di fatto tutta la motivazione alla dimostrazione in positivo della sussistenza del dolo, escludendo l’errore ex articolo 47 c.p..
4. Il quarto motivo e’ manifestamente infondato.
4.1. Secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza, ai fini del riconoscimento della minore gravita’ di cui all’articolo 609-bis c.p., u.c., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalita’ esecutive, l’invasivita’ nella sfera sessuale della vittima, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’eta’, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante e’ sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravita’ (cfr. Cass. Sez. 3, n. 6784 del 18 novembre 2015 Rv. 266272, D.: fattispecie nella quale la Corte ha escluso che la reiterazione degli abusi nel tempo, in quanto approfondisce il tipo di illecito e compromette maggiormente l’interesse giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, possa essere compatibile con la minore gravita’ del fatto).
Ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravita’ non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, in quanto e’ necessario valutare il fatto nella sua complessita’ (Cass. Sez. 3, n. 10085 del 05/02/2009, Rv. 243123, R.) Cfr. anche Cass. Sez. 3, n. 39445 del 01/07/2014, S., Rv. 260501, che ha affermato, in tema di violenza sessuale, che la circostanza attenuante della minore gravita’ di cui all’articolo 609-bis c.p., comma 3 puo’ essere riconosciuta solo all’esito di una valutazione globale del fatto che tenga conto del grado di coartazione esercitato sulla vittima, delle sue condizioni fisiche e mentali, dell’entita’ della compressione della liberta’ sessuale e del danno arrecato, anche in termini psichici, al soggetto passivo, sicche’ deve escludersi che la sola “tipologia” dell’atto possa essere sufficiente per ravvisare o negare tale attenuante. Nella specie, la Corte ha annullato la sentenza impugnata per aver escluso la citata circostanza in base alla unica considerazione che vi era stata la consumazione di rapporto sessuale completato, senza alcuna valutazione del fatto nella sua complessita’.
4.2. La Corte di appello ha operato una valutazione complessiva del fatto individuando le circostanze di fatto da cui ha dedotta l’assenza della minore gravita’.
La corte territoriale ha infatti ritenuto, in sostanza, che la violenza sessuale fu il culmine di una situazione caratterizzata da un crescendo aggressivo, a partire dalla lite al ristorante, che gia’ mino’ la volonta’ di riappacificazione e le buone intenzioni della donna verso il ricorrente, per proseguire con la privazione della liberta’ personale per portare la vittima nell’abitazione del ricorrente e poi con gli atti di violenza ai danni della donna, con un annientamento della sua volonta’ generato dalle violenze e dalla paura di atti successivi, nell’impossibilita’ di allontanarsi dall’abitazione anche a causa del comportamento del ricorrente; per finire con la violenza sessuale, preceduta da una frase che collegava la cessazione delle violenze al rapporto sessuale, in cui la donna era talmente priva di volonta’ da essere del tutto passiva; passivita’ percepita con atteggiamento aggressivo, come notato dalla Corte di appello, proseguito poi anche dopo la cessazione del reato, durante l’accompagnamento in auto.
5. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. L’inammissibilita’ si estende ai motivi aggiunti.
Ai sensi dell’articolo 616 c.p.p. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi e’ ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’, si condanna altresi’ il ricorrente al pagamento della somma di Euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.
Si condanna infine il ricorrente alla rifusione in favore della parte civile delle spese del grado che liquida in Euro 3.500,00, oltre spese generali nella misura del 15%, c.p.a. ed i.v.a..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna il ricorrente alla rifusione in favore della parte civile delle spese del grado che liquida in Euro 3.500,00, oltre spese generali nella misura del 15%, c.p.a. ed i.v.a.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2006, articolo 52 in quanto disposto d’ufficio e/o imposto dalla legge.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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