La massima
L’affidamento congiunto comporta l’assunzione di uguali poteri e responsabilità da parte dei genitori, ai fini dello sviluppo psico-fisico del figlio e della sua formazione morale e culturale, richiedendo a ciascuno di essi un personale impegno nella realizzazione di un progetto educativo comune, la cui elaborazione non può risolversi nella passiva acquiescenza di un genitore alle scelte unilateralmente compiute dall’altro, ma esige una costante e preventiva consultazione reciproca, volta ad una sollecita percezione delle necessità del minore e all’identificazione dei mezzi più convenienti per farvi fronte. In questo contesto, la previsione dell’obbligo di provvedere alle spese necessarie per certi bisogni, non determinati né preventivamente determinabili sotto il profilo quantitativo, non può assumere altro significato che quello di un rinvio della relativa quantificazione alla concorde determinazione di assicurare la soddisfazione di tali necessità e all’individuazione delle risorse da destinarvi, conformemente alle finalità educative perseguite.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

SENTENZA 20 giugno 2012, n.  10174

Svolgimento del processo

1. — Con sentenza del 24 marzo 2005, il Tribunale di Aosta revocò il decreto ingiuntivo emesso il 23 febbraio 2001 nei confronti di C.B. , e condannò quest’ultimo al pagamento in favore di I.P. della somma di Euro 7.176,22, oltre interessi legali, a titolo di rimborso delle spese scolastiche sostenute per la figlia minore S. , nonché al pagamento delle spese processuali, ivi comprese quelle del procedimento monitorio.

2. — L’impugnazione proposta dal C. è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Torino, che con sentenza del 19 dicembre 2007 ha condannato la I. al pagamento delle spese del procedimento monitorio, disponendo la restituzione dell’importo corrisposto a tale titolo dall’appellante, oltre interessi legali, confermando per il resto la sentenza impugnata, e condannando il C. al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Premesso che con sentenza del 31 maggio 1989 il Tribunale di Torino, nel pronunciare il divorzio tra le parti, aveva disposto l’affidamento congiunto della figlia ad entrambi i genitori, ponendo a carico del C. un assegno mensile di Lire 200.000 a titolo di contributo per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione della minore, nonché l’obbligo di provvedere a tutte le spese di abbigliamento, medico-dentistiche e scolastiche, senza imporre a tal fine alcun previo concerto tra i genitori, la Corte ha rilevato che l’appellante non aveva fornito alcuna prova della sua contrarietà alle scelte scolastiche compiute dalla figlia, che aveva deciso di frequentare un istituto privato, essendo emerso soltanto il suo disappunto, mai concretizzatosi in un effettivo contrasto o nel ricorso al giudice.

Preso atto, inoltre, dell’avvenuta revoca del decreto ingiuntivo, dovuta al riconoscimento soltanto parziale della somma richiesta nel procedimento monitorio. la Corte ha ritenuto che le relative spese dovessero restare a carico della I. , condannandola a restituire l’importo pagato a tale titolo dal C. in esecuzione della sentenza di primo grado.

3. — Avverso la predetta sentenza il C. propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. La I. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. — Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 147, 148, 155, 316, 317, 1362, 2697 e 2909 cod. civ., degli artt. 112, 113, 115, 116 e 324 cod. proc. civ. e dell’art. 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, osservando che a fondamento della decisione la Corte d’Appello si è limitata a richiamare il principio, non pertinente, secondo cui l’affidamento congiunto non implica l’obbligo di entrambi i genitori di contribuire in misura paritaria al mantenimento del figlio, senza considerare che le decisioni di maggiore importanza, tra le quali va indubbiamente annoverata la scelta del tipo di scuola, debbono essere assunte di comune accordo tra i genitori. La sentenza impugnata ha omesso di pronunciare in ordine all’interpretazione della sentenza di divorzio, nella parte in cui poneva le spese scolastiche “direttamente” a carico del padre, conformemente all’accordo raggiunto tra le parti, astenendosi dall’indagare la comune intenzione di queste ultime e trascurando il loro comportamento successivo; essa ha ritenuto invece decisiva la mancata prova del suo disaccordo in ordine alla scelta della figlia, senza tener conto che egli ne era stato informato da quest’ultima, anziché dalla moglie, e senza neppure spiegare il motivo per cui le spese dovevano essergli addebitate per intero, anziché per la metà.

1.1. — Il motivo è fondato.

Com’è noto, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si configura come un ordinario giudizio di cognizione, avente ad oggetto l’accertamento non soltanto della sussistenza dei requisiti di ammissibilità e validità del procedimento monitorio, ma anche della fondatezza della pretesa avanzata dal ricorrente, in ordine alla quale trovano applicazione le regole generali in tema di ripartizione dell’onere della prova; l’emissione del decreto ingiuntivo non determina infatti alcuna inversione nella posizione processuale delle parti, con la conseguenza che il ricorrente, pur assumendo formalmente la veste di convenuto, dev’essere considerato attore in senso sostanziale, ed è pertanto tenuto a fornire la prova dei fatti costitutivi del credito fatto valere nel procedimento monitorio (cfr. tra le altre, Cass., Sez. 3, 17 novembre 2003, n. 17371; 3 marzo 1994, n. 2124; Cass., Sez. lav., 17 novembre 1997, n. 11417).

Tale credito nella specie ha ad oggetto le spese sostenute dalla I. per gli studi scolastici della figlia minore con lei convivente, al cui rimborso il C. sarebbe tenuto in virtù della sentenza di divorzio pronunciata tra le parti, con cui, nel disporsi l’affidamento congiunto della figlia ad entrambi i genitori, fu posto a carico del ricorrente, oltre all’obbligo di versare un assegno mensile per il mantenimento della minore, quello di sostenere direttamente e per intero le spese di abbigliamento, medico-dentistiche e scolastiche necessarie per la stessa. L’individuazione del contenuto e delle modalità di adempimento di tale obbligazione postula pertanto la ricostruzione della disciplina dei rapporti intercorrenti tra le parti relativamente all’affidamento della prole, cosi come consacrata nella sentenza di divorzio, la cui efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, se da un lato impedisce di rimettere in discussione l’assetto d’interessi emergente dal titolo posto a fondamento della pretesa, dall’altro non esclude la possibilità di verificarne la portata ed i limiti, attraverso l’interpretazione delle condizioni da essa stabilite.

1.2. — Non merita consenso, al riguardo, la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui, avendo la predetta sentenza recepito il contenuto dell’accordo intervenuto tra i coniugi nel corso del giudizio, tale operazione ricostruttiva andrebbe condotta in base ai criteri stabiliti dall’art. 1362 cod. civ., astenendosi dunque da un esclusivo riferimento al senso letterale delle espressioni usate, ed indagando invece la comune intenzione delle parti, anche alla luce del comportamento dalle stesse tenuto successivamente alla conclusione dell’accordo. La circostanza che, ai fini della disciplina dei rapporti tra i coniugi e di quelli con la figlia minore, la sentenza abbia tenuto conto delle concordi indicazioni delle parti, non consente infatti di attribuire natura negoziale alle condizioni in essa stabilite, il cui recepimento costituisce il risultato di un’autonoma valutazione giudiziale, soprattutto nella parte avente ad oggetto l’affidamento della figlia e la determinazione del contributo dovuto per il suo mantenimento, in ordine ai quali le richieste dei genitori non assumono carattere vincolante, dovendo il Tribunale ispirarsi, nelle relative scelte, all’esclusivo interesse della prole (cfr. Cass., Sez. 1, 17 settembre 1992. n. 10659; 11 ottobre 1978, n. 4519).

La natura del giudicato, quale regola del caso concreto, comportandone l’assimilabilità agli elementi normativi della fattispecie, esclude peraltro la possibilità di ricorrere, ai fini della sua interpretazione, ai criteri ermeneutici dettati per le manifestazioni di volontà negoziale, trovando invece applicazione, in via analogica, i principi dettati dall’art. 12 disp. prel. cod. civ., e dovendosi quindi procedere alla ricostruzione del comando oggettivato nella sentenza attraverso l’integrazione del dispositivo con la motivazione che lo sostiene, avendo riguardo, ove residuino incertezze interpretative, anche alle domande proposte dalle parti, nonché alle risultanze degli atti processuali (cfr. Cass., Sez. Un., 9 maggio 2008, n. 11501: Cass., Sez. 2, 27 ottobre 2010, n. 21961; 18 gennaio 2007. n. 1093; Cass., Sez. 1, 7 febbraio 2007, n. 2721). Trattandosi dell’interpretazione di una regula juris, il risultato di tale operazione è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, la cui deduzione consente a questa Corte di procedere direttamente all’individuazione della portata e dei limiti del predetto comando, indipendentemente dall’interpretazione fornita dal giudice di merito, orientando la sua esegesi anche alla luce della disciplina normativa del rapporto, che costituisce pur sempre il quadro di riferimento tenuto presente dal giudicante (cfr. Cass.. Sez. Un., 28 novembre 2007, n. 24664; Cass., Sez. 1, 5 ottobre 2009. n. 21200).

1.3. — In quest’ottica, non può non sottolinearsi come nella specie l’obbligo di contribuire alle spese necessarie per l’abbigliamento, l’istruzione e le cure mediche della figlia sia stato previsto in correlazione con l’affidamento congiunto della stessa ad entrambi i genitori, in tal modo instaurandosi tra questi ultimi un regime di necessaria condivisione delle scelte relative all’accudimento ed all’educazione della minore, che va oltre la mera imposizione dell’obbligo di concordare le decisioni di maggior interesse, previsto dall’art. 6, quarto comma, della legge n. 898 del 1970 in riferimento all’ipotesi in cui i figli siano affidati ad uno solo dei genitori, con la connessa attribuzione di un diritto-dovere di vigilanza al genitore non affidatario.

Non appare tuttavia risolutivo, ai fini della ricostruzione della disciplina applicabile alla fattispecie in esame, il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, al principio enunciato in una pronuncia di questa Corte, secondo cui l’affidamento congiunto, in quanto fondato sull’esclusivo interesse del minore dal punto di vista del suo sviluppo e del suo equilibrio psico-fisico, anche in considerazione di situazioni socio-ambientali, nonché del perpetuarsi dello schema educativo già sperimentato durante il matrimonio, non comporta, come conseguenza automatica, che ciascuno dei genitori provveda, in modo diretto ed autonomo, ai bisogni dei figli, in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza, e non esclude pertanto l’obbligo del versamento di un contributo a favore del genitore con cui i figli convivano (cfr. Cass.. Sez. 1, 18 agosto 2006, n. 18187). Tale obbligo nella specie non era in contestazione, avuto riguardo al chiaro tenore della sentenza di divorzio, che, come si è detto, poneva a carico del ricorrente l’obbligo di corrispondere un assegno mensile di mantenimento, nonché di provvedere direttamente e per intero alle spese necessarie per l’abbigliamento, l’istruzione e le cure mediche necessarie per la figlia; ciò di cui si discuteva erano invece le modalità di adempimento del contributo, avendo il C. sostenuto che le spese di cui la I. aveva chiesto il rimborso costituivano il risultato di una scelta alla quale egli non era stato posto in grado di partecipare, non essendo stato preventivamente consultato in ordine alla decisione di iscrivere la figlia ad un istituto scolastico privato, anziché a quello pubblico fino ad allora frequentato.

Nell’esaminare quest’eccezione, la Corte territoriale non ha tenuto conto che l’affidamento congiunto comporta l’assunzione di uguali poteri e responsabilità da parte dei genitori, ai fini dello sviluppo psico-fisico del figlio e della sua formazione morale e culturale, richiedendo a ciascuno di essi un personale impegno nella realizzazione di un progetto educativo comune, la cui elaborazione non può risolversi nella passiva acquiescenza di un genitore alle scelte unilateralmente compiute dall’altro, ma esige una costante e preventiva consultazione reciproca, volta ad una sollecita percezione delle necessità del minore e all’identificazione dei mezzi più convenienti per farvi fronte. In questo contesto, la previsione dell’obbligo di provvedere alle spese necessarie per certi bisogni, non determinati né preventivamente determinabili sotto il profilo quantitativo, non può assumere altro significato che quello di un rinvio della relativa quantificazione alla concorde determinazione di assicurare la soddisfazione di tali necessità e all’individuazione delle risorse da destinarvi, conformemente alle finalità educative perseguite.

È solo in questo modo, d’altronde, che può essere assicurata quell’effettiva compartecipazione alle scelte riguardanti la crescita e la formazione del figlio in cui si sostanzia la c.d. bigenitorialità, quale principio solennemente affermato a livello internazionale dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e ratificata con legge 27 maggio 1991, n. 176, che ha trovato attuazione in materia di separazione e divorzio attraverso la legge 8 febbraio 2006, n. 54, la quale ha modificato l’art. 155 cod. civ., introducendo l’istituto dell’affidamento condiviso. L’inapplicabilità della relativa disciplina alla fattispecie in esame, tuttora regolata da una sentenza emessa in data anteriore all’entrata in vigo-re della predetta legge, non esclude la possibilità di desumerne elementi utili ai fini dell’interpretazione della normativa previgente, in una prospettiva evolutiva che tenga conto dell’indubbia comunanza di aspetti riscontrabile tra l’affidamento congiunto e quello condiviso. Significativa, al riguardo, appare la nuova formulazione dell’art. 155 cit., la quale, nel ribadire la necessità che le decisioni di maggior interesse siano prese di comune accordo tra i genitori, inquadra tale esigenza in una disciplina improntata alla riaffermazione dei principio di pari responsabilità di questi ultimi nella cura, nell’educazione e nell’istruzione dei figli. Tale principio, valido anche per l’ipotesi in cui il giudice ritenga preferibile l’affidamento esclusivo, non può non ricevere un’applicazione particolarmente rigorosa nel caso di affidamento congiunto o condiviso, riducendosi altrimenti l’apporto di uno dei genitori ad una mera erogazione di denaro, svincolata da qualsiasi contributo di carattere decisionale, in contrasto con gli obiettivi di responsabilizzazione di entrambe le figure genitoriali avuti di mira dal legislatore attraverso la previsione di queste forme di affidamento.

1.4. — Tale prescritto coinvolgimento fa apparire inadeguata la motivazione addotta dalla Corte d’Appello a sostegno dell’affermato obbligo del C. di provvedere alle spese scolastiche conseguenti all’iscrizione della figlia presso l’istituto privato, non potendo ritenersi sufficiente, ai fini della condivisione della scelta compiuta dalla I. , il consenso postumo ravvisato dalla sentenza impugnata nella mancata adozione da parte del ricorrente di specifiche iniziative, anche giudiziarie, volte a contrastare la predetta decisione.

È pur vero che questa Corte, nell’includere la scelta dell’indirizzo scolastico tra le decisioni di maggior interesse per i figli, in ordine alle quali l’art. 6, quarto comma, della legge n. 898 del 1970, cosi come l’art. 155, terzo comma, cod. civ., richiede il concorso di entrambi i genitori, ha escluso che a carico del genitore convivente sia configurabile uno specifico dovere d’informazione, ravvisabile unicamente in presenza di eventi eccezionali ed imprevedibili, affermando che ciascun genitore è titolare di un autonomo potere di attivarsi nei confronti dell’altro per concordarne eventuali modalità, ed in difetto di ricorrere all’autorità giudiziaria (cfr. Cass., Sez. 1, 27 aprile 2011, n. 9376; 28 gennaio 2009, n. 2182). Questo principio, enunciato in riferimento all’ipotesi di affidamento esclusivo, trova peraltro giustificazione nella disciplina di tale istituto dettata dall’art. 155 cit., nel testo introdotto dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, che, in quanto articolata sulla previsione dell’esercizio esclusivo della potestà da parte del genitore affidatario e sul riconoscimento in favore dell’altro genitore di un diritto-dovere di vigilanza sull’istruzione e l’educazione dei figli (e per tale aspetto superata dalle ulteriori modifiche introdotte nell’art. 155 dalla legge n. 54 del 2006. che prevede l’esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori, senza distinguere tra affidamento esclusivo ed affidamento condiviso), ha consentito di ravvisare nella mancata tempestiva adduzione di validi motivi di dissenso da parte di quest’ultimo una forma di acquiescenza alla decisione unilateralmente assunta dal primo (cfr. Cass.. Sez. 1, 29 maggio 1999, n. 5262). Esso non è quindi applicabile all’ipotesi di affidamento congiunto, che, oltre ad implicare l’esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori, presuppone un’attiva collaborazione degli stessi nell’elaborazione e la realizzazione del progetto educativo comune, imponendo pertanto, nell’accertamento della paternità delle singole decisioni, quanto meno di quelle più importanti, la verifica che le stesse sono state assunte sulla base di effettive consultazioni tra i genitori, e quindi con il consapevole contributo di ciascuno di essi.

1.5. — Non spettava d’altronde al C. l’onere di fornire la prova del proprio dissenso dalla decisione assunta dalla I. , essendo quest’ultima tenuta, in qualità di attrice in senso sostanziale, a dimostrare la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di rimborso delle spese anticipate, non determinandosi, per effetto dell’obbligo sancito dalla sentenza di divorzio, alcuna inversione dell’onere probatorio, e restando quindi a carico della controricorrente la prova di aver provveduto a consultare preventivamente l’ex-coniuge, al fine di ottenerne il consenso all’iscrizione della figlia presso l’istituto privato.

2. — Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui non ha tenuto conto della circostanza che all’epoca dello scioglimento del matrimonio e nei dieci anni successivi la minore aveva sempre frequentato la scuola pubblica, ed ha ritenuto che egli avesse prestato il proprio consenso alla scelta della figlia, senza verificare se la moglie lo avesse preventivamente informato e consultato.

2.1. — La censura è inammissibile, non essendo corredata da una sintesi conclusiva, recante la chiara indicazione dei fatti controversi e delle ragioni per cui si afferma l’inidoneità della motivazione a reggere la decisione adottata.

La necessità di una distinta individuazione del fatto controverso e delle ragioni dell’inadeguatezza della motivazione, ove la sentenza sia impugnata ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., è infatti connessa ad un’esigenza di chiarezza, emergente dall’art. 366-bis cod. proc. civ., la quale impone, nella formulazione del motivo, un distinto momento di sintesi (omologo del quesito di diritto prescritto per l’ipotesi in cui la sentenza sia impugnata ai sensi dell’art. 360 n. 3) che circoscriva puntualmente i limiti della critica alla motivazione in fatto, in modo da non ingenerare incertezze in sede di valutazione della sua ammissibilità (cfr. Cass.; Sez. Un., 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass., Sez. 3, 18 luglio 2007. n. 16002).

3. — È invece infondato il terzo motivo, con cui il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 91, 115 e 116 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui lo ha condannato nuovamente al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, da lui già corrisposte in esecuzione della sentenza del Tribunale di Aosta.

3.1. — La riforma, totale o parziale, della sentenza di primo grado, nella parte riguardante il merito della controversia, comporta infatti, ai sensi dell’art. 336, primo comma, cod. proc. civ., l’automatica caducazione della stessa anche nel capo avente ad oggetto il regolamento delle spese processuali, imponendo al giudice di appello di procedere, anche d’ufficio, ad una rinnovazione della relativa pronuncia (cfr. Cass., Sez. 3, 5 giugno 2007, n. 13059; Cass.. Sez. 1, 16 maggio 2006, n. 11491; Cass., Sez. lav., 18 luglio 2005. n. 15112). Tale rinnovazione deve aver luogo in base ad una valutazione dell’esito complessivo della lite, in conseguenza della quale il giudice di secondo grado può ben pervenire, com’è accaduto nella specie, anche ad una decisione identica a quella risultante dalla sentenza riformata, senza che ciò comporti una duplicazione di titoli, avuto riguardo all’intervenuta caducazione della prima pronuncia, e dovendosi anzi ritenere che, ove nella mancata adozione di una nuova statuizione non possa ravvisarsi un’implicita conferma di quella di primo grado, il pagamento eventualmente già effettuato dalla parte soccombente resterebbe privo di causa giustificatrice.

4. — La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dal motivo accolto, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’Appello di Torino, la quale provvederà, in diversa composizione, anche alla liquidazione delle spese relative al giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara inammissibile il secondo, rigetta il terzo, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di Appello di Torino, anche per la liquidazione delle spese processuali.

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